Tradizione islamica e nuove sfide /2. Il caso Stati Uniti. Nella cultura costituzionale e politica americana le religioni sono ben accette e contribuiscono in maniera essenziale alla vita civile. Ma dopo l’11 settembre la comunità musulmana ha dovuto fare i conti con il sospetto e il rischio dell’isolamento. I risultati di una ricerca condotta nell’area di Chicago.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:48

Nel nostro mondo globalizzato le interpretazioni delle tradizioni religiose servono sempre più da basi per lanciare appelli tanto a guerre quanto a dialoghi con “l’altro”, tracciando linee più o meno rigide di separazione tra “amici” e “nemici”. Più conflitti religiosi scoppiano, più sembra urgente lo sviluppo del dialogo. Ciò conduce a un paradosso: il diffondersi di conflitti politici espressi in termini religiosi nella seconda parte del XX secolo è andato di pari passo con l’aumentare degli appelli al dialogo interreligioso o interconfessionale, come spesso viene definito. In qualità di politologa interessata alle relazioni tra Islam e politica nel mondo contemporaneo, ho svolto una ricerca etnografica nella città di Chicago e nei suoi dintorni dall’anno 2000 in poi, divenendo testimone dello straordinario sviluppo di eventi interconfessionali che hanno coinvolto le comunità islamiche degli Stati Uniti nel contesto dell’America del post 11 settembre. L’incontro di individui e gruppi di fede differente è una caratteristica importante della vita religiosa americana a partire dal raduno del World’s Parliament of Religions (Parlamento Mondiale delle Religioni) svoltosi a Chicago nel 1893. Tuttavia il significato di questo tipo di incontri è cambiato molto nel periodo di poco più di un secolo che è trascorso da allora. Mentre verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo questo tipo di riunioni presentavano le religioni non cristiane alla stregua di curiosità particolari ed esotiche, entro la fine del XX secolo le religioni non cristiane e non protestanti sono diventate una componente vitale della vita religiosa e politica americana. Nella narrazione costituzionale americana e nella retorica delle istituzioni statali le differenze religiose sono ben accolte. I politici – e in particolare i presidenti – di ogni orientamento dello spettro politico hanno lanciato recentemente appelli al dialogo tra fedi differenti, incitando alla costruzione di ponti tra le religioni, nonostante – e forse proprio a causa – delle guerre condotte dagli Stati Uniti nei paesi musulmani. Ultimamente la retorica del Presidente Obama ha dato una svolta al discorso presidenziale sull’Islam. Parlando in qualità di cristiano, egli ha posto molta più attenzione dei suoi predecessori nel riconoscere la presenza dell’Islam in America e il contributo dei musulmani statunitensi alla cultura e alla politica americane, come nel suo discorso del giugno 2009 al Cairo. Questi discorsi e appelli al dialogo da parte dei presidenti americani sono importanti e sono spesso in contrasto con i discorsi laici di politici europei di spicco. Essi illustrano la presenza della religione come una componente legittima nella sfera pubblica americana e al tempo stesso il suo utilizzo politico e retorico per fini di politica internazionale. Oltre a questi discorsi ufficiali, tuttavia, anche i normali fedeli, i praticanti, i teologi, gli accademici, le organizzazioni religiose e le istituzioni si dedicano a un dialogo interreligioso locale che include l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islam e le altre confessioni presenti oggi negli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre ho avuto modo di osservare nell’area metropolitana di Chicago molti eventi interreligiosi che coinvolgevano i musulmani. Questi eventi possono assumere forme diverse: determinati membri delle chiese cristiane e delle sinagoghe ebraiche che si incontrano con i musulmani della vicina moschea; incontri di più ampie coalizioni legate ad associazioni di volontariato attive nel sociale; e organizzazioni giovanili che riuniscono ragazzi con una formazione culturale, etnica e religiosa differente. Che tipo di attività si sviluppano durante questi eventi? La gamma è ampia e la creatività non manca: rappresentanti del Cristianesimo e dell’Islam che descrivono vicendevolmente la loro fede di fronte a un grande pubblico; conversazioni teologiche che trattano di ermeneutica in incontri più intimi; e attività sociali che coinvolgono diverse organizzazioni religiose. Infine si registrano anche rituali svolti pubblicamente. Nel caso delle moschee, ad esempio, preghiere, sermoni e talvolta anche matrimoni vengono spesso celebrati per il pubblico dei non musulmani fondendo gli aspetti religiosi e culturali della vita quotidiana dei musulmani d’America. Dopo gli attacchi dell’11 settembre per le comunità islamiche è diventato estremamente importante – addirittura imperativo – definire e spiegare la propria fede al più ampio pubblico dei non musulmani americani. In effetti, le comunità islamiche erano diventate oggetto di sospetto e hanno compreso che avevano la necessità impellente di impegnarsi nella sfera pubblica per fornire una definizione dell’Islam al popolo americano. Gli attacchi dell’11 settembre, come anche le risposte dell’amministrazione statunitense – la sorveglianza delle organizzazioni musulmane all’interno e le guerre dichiarate dagli Stati Uniti all’estero, in Iraq e Afghanistan – hanno fortemente vincolato queste definizioni della tradizione, soprattutto perché i musulmani dovevano esplicitare la loro tradizione in contrapposizione alle ideologie degli autori degli attacchi dell’11 settembre. Attraverso questi processi d’interpretazione e definizione pubblica della loro tradizione religiosa i rappresentanti dell’Islam hanno cercato e trovato una base comune rispetto a un linguaggio religioso appetibile per il pubblico americano. Allo stesso tempo essi si sono trovati alle prese con un problema cruciale: fino a che punto sono commensurabili differenti tradizioni religiose? È possibile descrivere la propria tradizione a una persona che non vi appartiene senza trasformarla – e quindi dissolverla – proprio attraverso questa ricerca di commensurabilità? Tradizione Narrativa Queste domande non sono importanti solo per l’Islam, ma anche per qualsiasi tradizione religiosa che cerchi riconoscimento e accettazione da parte di una comunità più ampia in cui si trovi in posizione minoritaria, come le Chiese e le comunità cristiane nel mondo islamico. Da molti punti di vista l’esperienza americana di dialogo religioso può offrire un interessante paradigma per pensare gli altri casi di minoranze religiose. L’esempio americano mostra che il dialogo è intimamente connesso a conflitti politici e che, per una minoranza guardata con sospetto, il compito di fornire un’interpretazione pubblica della propria tradizione religiosa a beneficio di un pubblico più ampio è molto più complesso di quanto lo sia la semplice esplicitazione del contenuto di una dottrina definita da scritture rivelate. Esso è in larga parte informato da vincoli politici e istituzionali. L’antropologo dell’Islam e del Cristianesimo Talal Asad si è concentrato sullo studio dell’Islam come tradizione narrativa, e cioè come un discorso «che cerca di istruire i fedeli sulla forma corretta e lo scopo di una determinata pratica che, proprio in quanto stabilita, ha una storia. Queste narrative sono concettualmente in relazione con un passato (in cui si è stabilita la pratica e a partire dal quale è stata trasmessa la conoscenza della sua finalità e del modo giusto di compierla) e un futuro (in quale modo la finalità di quella pratica possa essere assicurata al meglio nel breve e lungo periodo o per quale motivo essa debba essere abbandonata o modificata) attraverso un presente (in che rapporto è con altre pratiche, istituzioni e situazioni sociali)» [1]. Mi servirò di questa definizione storicizzata fornita da Asad, tenendo perciò conto della continuità di una tradizione e delle sue differenze interne, come anche degli aspetti istituzionali e disciplinari di una fede. Partendo da questa definizione e per riflettere sull’idea di “dialogo”, vorrei collegare il concetto di tradizione a quello di “lingua”, utilizzando però il termine in senso lato. Questa lingua – intesa come metafora della tradizione religiosa – può esprimersi a diversi livelli. Per fornire alcuni esempi, essa può esprimersi nel Corano (il suo testo scritto), nella sunna – che è il primo significato di tradizione nell’Islam, cioè la tradizione come prodotto dei detti e delle azioni esemplari del profeta Muhammad – nel linguaggio del corpo dei fedeli (le preghiere collettive o individuali, le recitazioni coraniche, l’abbigliamento islamico) o nella lingua dell’Islam come viene formulata da rappresentanti statali che parlano nel quadro dello stato-nazione. Tutti questi livelli sono in relazione e si modificano vicendevolmente. Per lingua, quindi, non intendo soltanto un mezzo di espressione e comunicazione trasparente, strumentale e inerte, ma anche una modalità di ragionamento e di giustificazione sviluppata all’interno di contesti specifici. In questo senso, una tradizione religiosa può essere formulata solo all’interno del più ampio contesto politico in cui si trova a vivere. Se la “lingua viva” può essere una metafora utile per rappresentare il concetto di tradizione, allora ci si può accostare all’idea di dialogo attraverso l’esame del processo di “traduzione”. Se praticare il dialogo significa entrare in un momento di comunicazione tra due tradizioni, il problema della possibilità di un dialogo significativo verte sulla comprensione della traducibilità reciproca delle lingue o, in senso più ampio, sulla commensurabilità tra due tradizioni. Una tradizione si presenta come una lingua che, avendo raggiunto la propria coerenza interna, è divenuta un idioma autonomo irriducibile a qualsiasi altro? La si può comprendere da una posizione esterna? Quale sforzo è richiesto a chi desidera comprendere un idioma che non gli è proprio? E a chi vuole rendere la propria lingua appetibile ad altri? In altre parole, si può apprendere e insegnare una tradizione nel modo in cui si apprende o insegna una lingua? Per fornire alcuni elementi di risposta a queste complesse questioni, vorrei fare riferimento al testo di Walter Benjamin, Il compito del traduttore. In questo testo del 1923 Benjamin cerca una soluzione al difficile problema della traduzione. Nell’intento di andare oltre il tradizionale problema della “fedeltà” al testo originale, egli si propone di mostrare che la traduzione da una lingua straniera nella lingua madre del traduttore è un’operazione che trasforma il proprio linguaggio. Il presupposto fondamentale che permette questa trasformazione della lingua del traduttore è, nelle parole di Benjamin, la natura della lingua come “qualcosa di vivente” [2]. Egli scrive: «nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale. Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma» [3]. Per essere ancora più chiaro, egli aggiunge, citando Rudolph Pannwitz: «le nostre versioni, anche le migliori, partono da un falso principio, in quanto si propongono di germanizzare l’indiano, il greco, l’inglese, invece di indianizzare, grecizzare, inglesizzare il tedesco. Esse hanno un rispetto molto maggiore per gli usi della propria lingua che per lo spirito dell’opera straniera… L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stato contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera» [4]. Effetti Trasformativi I partecipanti agli attuali dialoghi interconfessionali operano solitamente all’interno di un contesto differente da quello del traduttore di Benjamin, perché in quest’ultimo caso il traduttore traduce una lingua straniera nella sua propria. Invece la pratica attuale del dialogo interconfessionale negli Stati Uniti richiede che i membri di una tradizione la presentino traducendola a beneficio delle altre tradizioni. Uno dei presupposti della pratica del dialogo interreligioso oggi è che la spiegazione e la descrizione della fede debbano essere compiute dall’interno se vogliono essere legittime. Per fare un esempio: normalmente lo scopo di questi incontri è, per i musulmani, di “spiegare” l’Islam ai cristiani e per i cristiani di portare il Cristianesimo all’attenzione dei musulmani. Il dialogo interreligioso prevede una traduzione dall’interno verso il mondo esterno, in un processo in cui la fede di ciascuno viene interpretata per un’altra tradizione. Comunque, nonostante questa differenza in rapporto alla riflessione di Benjamin sui meccanismi della traduzione, la spiegazione della propria tradizione ha inevitabili effetti trasformativi sulla sua formulazione pubblica. Presentare la spiegazione e la definizione della propria fede per il pubblico esterno che non la conosce ha conseguenze importanti sulle definizioni della tradizione stessa, che richiede una qualche forma di controllo sulla portata di queste trasformazioni. Ad esempio, il paragone tra diverse fedi durante gli eventi interconfessionali tende a produrre tanto somiglianze caricaturali quanto differenze stereotipate. Talvolta può succedere che non vengano considerate importanti differenze per favorire un riavvicinamento tra le fedi. I dialoghi interreligiosi spesso cancellano tensioni interne, contraddizioni e disaccordi, perché l’operazione di “traduzione” è compiuta in pubblico e in breve tempo. Questi incontri cercano un modo efficace di presentare un insieme di valori facilmente comprensibili da parte di chi ascolta. Il processo di traduzione pertanto può semplificare le complessità e la storicità di una tradizione. Negli Stati Uniti i rappresentati cristiani e musulmani che si sono impegnati nel dialogo interreligioso si sono trovati alle prese con tensioni di questo tipo nel partecipare a questa complessa impresa di “traduzione”. Oggi, grazie a tali processi di traduzione, l’Islam sta trovando il suo spazio nella società americana, proprio come i cattolici lo trovarono alla metà del XX secolo, dopo essere stati marginalizzati nell’America urbana. Oggi l’Islam si sta aprendo al confronto con le altre fedi e con il pubblico più generale, trasformandosi in questo processo, ma non smarrendo di certo la propria identità. Paradossalmente quindi l’Islam è diventato una religione pubblica negli Stati Uniti da quando l’11 settembre lo ha reso oggetto di sospetto. La tradizione islamica continua a mostrare differenze interne come quelle etniche e culturali e anche, più significativamente, quelle di tipo teologico. Anche se spesso ignorati negli eventi interreligiosi, all’interno delle comunità islamiche americane negli ultimi anni hanno avuto luogo accesi dibattiti teologici circa le modalità in cui l’Islam debba essere interpretato e rappresentato; essi hanno visto contrapporsi in particolare musulmani “conservatori” e “liberali”, due etichette che sono parte integrante del vocabolario religioso e politico americano. Dopo l’11 settembre una nuova generazione di musulmani americani, spesso nati e cresciuti negli Stati Uniti, ha messo in discussione l’apologetica e il letteralismo islamici per garantire una complessità, un contesto e una storicità maggiore alle loro esperienze religiose e alle loro teologie. Essi contestano la separazione “Occidente contro Islam” e quindi il paradigma dello scontro di civiltà. Sostengono che la violenza commessa dai musulmani sia il risultato delle loro erronee interpretazioni dell’Islam. Affermano che i musulmani debbano prendere le mosse dalla loro ricca eredità per condannare e dissolvere la violenza evitando l’apologia. Devono inoltre riscrivere la logica che regola i rapporti di genere a partire dal Corano: nelle loro pratiche, le donne dovrebbero essere uguali agli uomini, dovrebbero poter pregare nella stessa stanza e, in alcuni casi, anche guidare gli uomini nella preghiera. Gruppo di Voci Nuove Caratterizzano questa tendenza figure molto differenti. Asma Gull Hasan – conservatrice dal punto di vista politico, personaggio mediatico, laureata in legge all’Università di New York e autoproclamatasi “cowgirl femminista musulmana” – scrive: «Non penso che il Corano e Dio mi chiedano di portare l’hijâb. Potrei anche avere torto, ma ritengo che il pudore si muova dall’interno verso l’esterno, e non dall’esterno verso l’interno». Il professore di studi islamici Omid Safi scrive: «Voglio essere chiaro su questo punto: a livello dei fondamenti, credo che la tradizione islamica offra un cammino per realizzare la pace, sia nel cuore dell’individuo che nel mondo nel suo complesso, quando gli imperativi islamici di giustizia sociale siano ascoltati. Ma c’è qualcosa di pateticamente apologetico nel trasformare la frase “l’Islam è una religione di pace” in un mantra. È abbastanza triste sentire rappresentanti musulmani ripeterlo così di frequente mentre manca loro il coraggio di affrontare le forze dell’estremismo fra di noi» [5]. Lo scienziato politico Muktedar Khan, la poetessa Mohja Kahf, la scrittrice Asra Nomani e l’esperto di diritto islamico Khalid Abu el-Fadhl fanno anch’essi parte di un variegato, intellettuale e spesso caustico gruppo di voci nuove che sono risuonate su scala globale a partire dall’11 settembre. Attraverso queste nuove voci il “repertorio” islamico si è dunque esteso lungo le linee e secondo la grammatica del liberalismo occidentale, non senza contraddizioni interne, conflitti esterni e controversie. In effetti le interpretazioni della fede islamica proposte da questi esponenti rimangono molto dibattute all’interno degli ambienti musulmani negli Stati Uniti e all’estero. Perciò se si riflette sulle complessità del caso americano – considerato da molti come una storia di successo, da altri come un risultato più ambiguo – appare evidente che la tradizione dell’Islam nel contesto politico del dopo 11 settembre sta generando nuovi dibattiti all’interno delle comunità -musulmane e nuove opportunità di dialogo interreligioso. Nonostante tutte le difficoltà del contesto i musulmani che hanno preso parte a eventi interconfessionali sono stati capaci di parlare dell’Islam nei termini della lingua della religione americana, che ha agito come un idioma di mediazione tra l’Islam e le altre tradizioni. Questo elemento terzo, che è la comprensione dello spazio pubblico della religione in una società e un sistema politico dati, è fondamentale per capire i meccanismi del dialogo religioso, le sue difficoltà e anche i suoi successi. Se si vuole comprendere quale possibilità esista per un dialogo significativo in qualsiasi parte del mondo, è essenziale considerare le specifiche strutture sociali e politiche in cui le religioni possono ritagliarsi uno spazio ed entrare in contatto con la società. In ogni società queste strutture definiscono uno specifico insieme di vincoli e opportunità perché le tradizioni religiose possano autodefinirsi pubblicamente. Essi costituiscono un mezzo fondamentale attraverso il quale le tradizioni possono o non possono esprimersi pubblicamente e partecipare al dialogo. Questo è vero non solo per gli Stati Uniti, ma anche per qualsiasi altro contesto. Per fare soltanto un esempio, la cultura francese della laïcité non offre le stesse opportunità di dialogo religioso pubblico che sono invece offerte dalla tradizione americana del pluralismo religioso. In effetti in Francia esistono dialoghi religiosi, ma non si sviluppano con la stessa evidente facilità degli Stati Uniti e quasi mai rivestono il ruolo di canale politico di riconoscimento, come invece avviene negli Stati Uniti. In alcuni paesi del Medio Oriente gli stati musulmani offrono alle minoranze religiose meno spazio di intervento nella sfera pubblica, così com’è intesa in senso americano, e ciò influenza le lingue parlate da ogni tradizione religiosa in tali contesti specifici. In altri paesi, come ad esempio la Giordania, nuovi sforzi volti alla creazione di un dialogo religioso a livello nazionale e transnazionale – ad esempio, il Messaggio di Amman e l’iniziativa del Common Word – stanno riconfigurando il contesto in cui le tradizioni possono trovare nuovi canali di espressione, trasformando l’aspetto delle reti di comunicazione accademiche e una parte della lingua usata dagli studiosi musulmani che partecipano a queste imprese di dialogo. Pertanto i dialoghi tra differenti tradizioni prendono forme differenti e non hanno luogo esclusivamente nelle società pluralistiche e democratiche. Anche nel contesto di una società pluralistica come quella degli Stati Uniti i vincoli all’interno dei quali avvengono i dialoghi religiosi sono pesanti, perché non ¬tutte le religioni hanno ottenuto nell’opinione pubblica lo status di tradizioni religiose “accettabili”. Questi vincoli permettono la presenza dell’Islam nella sfera pubblica americana e al contempo esercitano una forte pressione politica implicita ed esplicita perché i rappresentanti musulmani parlino la lingua della religione liberale. Le tradizioni religiose entrano in dialogo o in conflitto come linguaggi traducibili attraverso il tramite di un terzo idioma, che è l’insieme dei termini sui quali viene definito il riconoscimento pubblico delle religioni di maggioranza e minoranza.


[1] Talal Asad, The Idea of an Anthropology of Islam, Center for Contemporary Arab Studies, Georgetown University, Washington D.C. 1986. [2] Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, 43. [3] Ibidem. [4] Walter Benjamin, Il compito, 51. [5] Omid Safi, Progressive Muslims. Oneworld, Oxford, 2003, 24

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