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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:34

Autore: Jean-Loup Amselle Titolo: Il distacco dall’Occidente Editore: Meltemi, Roma 2009 Edizione Originale: L’Occident décroché. Enquête sur les postcolonialismes Editore: Stock, Paris, 2008 Certo, «l’Occidente fa acqua da tutte le parti e quando la nave affonda i topi scappano» (p. 7). Lo testimonia il fatto che la nostra è l’epoca della fuga da un Occidente idiotamente egemonico, inguaribilmente ottuso e incapace di fare spazio alla diversità culturale. Da questa premessa – legittimamente polemica – nasce la galassia postcoloniale, che Amselle illustra nelle sue coordinate teoriche fondamentali, senza ignorare le infinite variazioni sul tema decostruttivo principale: il riscatto della subalternità, cui le culture “altre” sono state ridotte, si fa prendendo ¬parola contro e soprattutto fuori dall’Occidente, in un distacco radicale e senza ritorno. Sotto questo profilo il lavoro di Amselle si presenta anche come una ricostruzione storica sorprendentemente accurata dei numerosi dibattiti cui intere generazioni di intellettuali “subalterni” hanno dato vita, mostrando al mondo che cosa c’è oltre l’Occidente predatore di alterità: l’India, l’indigenizzazione promossa dallo zapatismo, i “saperi endogeni” africani, il rinnovamento di un particolare pensiero ebraico sono solo alcuni momenti della presa di distanza che disloca i luoghi comuni del pensiero coloniale. A colpi di French Theory, senza dimenticare il nume tutelare dei Subaltern Studies, Antonio Gramsci, vengono così alla luce gli infiniti giochi ermeneutici della postcolonialità, non senza i punti di contrasto interni che ne testimoniano l’estrema vitalità concettuale. Sembra davvero la resa dei conti: l’Occidente, colpito dalla «fattura postcoloniale» (p. 185), vede tornare l’alterità rimossa, che finalmente ne sovverte il narcisistico sogno egemonico. Oggi possiamo parlare di “africanità”, “indianità”, “amerindianità”, come ciò che, per l’appunto, non viene dall’Occidente o che semplicemente ha preso definitivo congedo da esso. Eppure Amselle non condivide l’entusiasmo dei postcolonialisti. Un dubbio lo attraversa e, nel finale, egli esplicita in modo quasi brutale la sua perplessità: e se il “distacco” dall’Occidente fosse la sua ennesima e tragica vittoria? C’è infatti un prezzo da pagare «per esserci fatti colpire dalla fattura postcoloniale» (p. 212): parlare di “africanità”, “indianità”, “amerindianità” potrà forse sembrare il traguardo dell’emancipazione; alla fine, però, equivale a un’operazione di essenzializzazione delle culture, come fossero pezzi da museo da preservare nella loro intatta purezza. Risultato: «Tutta la storia passata fatta di contatti fra le diverse culture e civiltà viene in tal modo negata, per riaffermare la definizione di specificità culturali irriducibili. Se in passato ogni cultura, ogni civiltà poteva e doveva essere considerata come esito di una complessa serie di scambi, contatti, prestiti con altre culture a essa più o meno vicine, adesso la regola consiste nel riaffermare identità pure e inalterabili» (p. 216). Insomma, se il guadagno postcoloniale si ottiene evacuando il dinamismo degli scambi interculturali, il prezzo che paghiamo è lo scontro di civiltà, secondo la nota profezia di Huntington. Del resto, per Amselle non ci sono alternative: «dato che non è praticabile alcuna forma di comunicazione fra le culture, la definizione di categorie in grado di trascendere ciascuna entità singola diviene impossibile, resta così in vita solo una miriade di umanità frammentate, ciascuna delle quali vive ripiegata su se stessa» (p. 215). Il conflitto, a questo punto, ci attende dietro l’angolo. Ecco che cosa succede quando vince, ancora una volta, la ragione etnologica e il suo schema “museale” implacabile: «recuperando a proprio favore gli stessi stereotipi che l’Occidente aveva formulato per condannarli ed escluderli, gli studiosi postcoloniali e gli esponenti del pensiero della subalternità hanno di fatto favorito l’egemonia dell’Occidente credendo di combatterlo. È la triste conclusione di un tragico errore, che non ha ancora finito di causare danni e devastazioni» (p. 217). Queste le ultime parole di Amselle, la cui amarezza è pari all’invito implicito a ritornare a praticare le logiche meticce di cui è intessuta la storia umana. Solo così, forse, la partita del futuro del mondo potrà essere riaperta.

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