Qualcosa è cambiato /5. Il sistema dei rapporti tra Islam, Cristianesimo e Occidente è stato rivoluzionato in quel giorno di cinque anni fa. Sebbene l'attentato non sia riconducibile all'insieme del mondo musulmano, può essere però interpretato come l'espressione lucidamente violenta della grande tensione che una sua parte vive nei confronti di Usa ed Europa.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:19

L'attacco terroristico alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001 ha certamente segnato un mutamento significativo nei rapporti tra Occidente e mondo islamico da un lato, tra Cristianesimo e Islam dall'altro lato, ma ha anche provocato un'evoluzione del rapporto tra Occidente e Cristianesimo. Riguardo al rapporto tra mondo islamico e Occidente, l'11 settembre ha manifestato in modo devastante la decisa ostilità e volontà distruttiva che alcune correnti interne al mondo musulmano nutrono e intendono mettere in atto contro le società occidentali e i valori che esse esprimono. A questo riguardo occorre essere consapevoli che se Al-Qaida e altri movimenti terroristici affini sono usciti allo scoperto con l'attentato dell'11 settembre, questo atto ha però avuto una lunga "preparazione" politico-culturale, e si è posto simbolicamente come l'uscita allo scoperto in una guerra dichiarata ai "nemici" dell'Islam. L'incubazione culturale precedente si può sinteticamente individuare nella formazione e crescita di ampie correnti di ispirazione fondamentalista nel mondo musulmano, che trovano la loro ragione di essere e fondano il loro progetto politico-cultural-religioso in una lettura della realtà e della storia che identifica nell'abbandono dell'Islam sul piano politico-giuridico e nel cedimento a forme occidentalizzanti di modernizzazione sociale e giuridica attuate dai paesi musulmani la causa dei mali da cui le società a maggioranza musulmana sono gravate e, soprattutto, la ragione della loro inferiorità politica rispetto ai paesi occidentali. Questa lettura, sviluppata a partire dagli anni '30 nell'ambito dell'Associazione dei Fratelli Musulmani, si è caricata di toni violenti e radicali grazie alle nuove interpretazioni offerte da ideologi come Maududi (India) e Sayyid Qutb (Egitto). A quest'ultimo in particolare si deve la lucida individuazione dei nemici dell'Islam, identificati nei governi stessi dei paesi musulmani, i quali, dal momento che promuovevano attivamente la modernizzazione dei rispettivi paesi, venivano identificati come i diretti responsabili della rinuncia alla costituzione di stati islamici, in cui la Shari'a trovasse applicazione e la compagine politica fosse direttamente fondata sulla religione islamica.1 In quanto responsabili di tale progetto politico, che includeva l'attivo contenimento dei movimenti fondamentalisti, tali governi venivano da Qutb definiti "apostati", e questa loro condizione rendeva legittimo e doveroso il jihad nei loro confronti. Viene così religiosamente e culturalmente legittimata la violenza quindi il terrorismo contro i responsabili politici dei paesi a maggioranza musulmana, colpevoli di non promuovere l'islamizzazione delle strutture istituzionali e del costume sociale. L'interpretazione di Qutb costituisce un fattore fondamentale che legittimerà la nascita dei movimenti islamici radicali, i quali faranno dell'uso della violenza il principale strumento di lotta. D'altra parte l'identificazione del nemico contro cui scatenare il jihad conoscerà successivi ampliamenti: ai governi musulmani riconosciuti come apostati verranno poi associati gli Stati Uniti, colpevoli di sostenere quei governi stessi «il Grande Satana americano», secondo la definizione di Khomeini e successivamente tutti quegli stati occidentali che più o meno direttamente cercano di appoggiare i governi in carica nei paesi musulmani o di incentivare tendenze politiche, giuridiche e culturali favorevoli alla modernizzazione e al consolidamento di uno stato di diritto democratico, seppur all'interno di processi contraddittori e talora non privi di forti ambiguità. In questo contesto, il manifestarsi di Al -Qaida e l'attacco dell'11 settembre può essere letto come l'estrema espressione di questo processo, che esplode in un jihad dichiarato all'Occidente, colpito nel suo luogo simbolico più eloquente di potenza politica, economica e militare. Bisogna inoltre tenere presente che le dinamiche culturali ostili all'Occidente in ambito islamico trovano anche nutrimento a livello più ampio non solo in tanta predicazione diffusa caratterizzata da toni anti-occidentali e anti-cristiani, ma anche in molte strutture islamiche di insegnamento. Queste ultime concedono in genere poco spazio all'esercizio del pensiero critico e alla conseguente apertura all'alterità culturale, che sempre finisce per porre sfide e interrogativi al proprio interno e viene quindi considerata con diffidenza e come portatrice di instabilità. Sebbene l'attacco dell'11 settembre sia espressione di gruppi precisi e non sia certo riconducibile all'insieme del mondo musulmano, esso può essere però interpretato come l'espressione settoriale lucidamente violenta di una più ampia tensione che una parte del mondo musulmano vive in rapporto all'Occidente. Certamente l'11 settembre ha causato una presa di posizione convergente sia da parte dei governi occidentali e non solo occidentali sia da parte della maggior parte dei governi del mondo musulmano, che hanno individuato nella lotta al terrorismo un obiettivo comune che richiede strategie integrate. In questo senso se l'obiettivo dell'attacco dell'11 settembre era anche quello di richiamare a una riscossa islamica anti-occidentale, quest'obiettivo non è stato raggiunto, perché il terrorismo islamico è un problema gravissimo per le stesse società musulmane. D'altra parte però ha dato anche inizio a dinamiche fortemente disgreganti, quali la guerra in Iraq, l'attuale caos civile iracheno, l'attivazione a livello internazionale di cellule terroristiche collegate ad Al-Qaida, e sta anche originando rinnovate dinamiche anti-occidentali di ispirazione islamica da parte dell'Iran. Occorre infine notare che l'11 settembre e i successivi attacchi terroristici in Europa e altrove hanno comportato la crescita di una forte diffidenza verso l'Islam da parte della popolazione europea e americana, alla quale è diventato assai più difficile presentare prospettive di dialogo, pur se concepito in senso critico e impegnato. Certamente da questo panorama complesso emerge l'importanza non solo di una politica saldamente ancorata su valori etici e sulla conoscenza approfondita delle situazioni del mondo a maggioranza musulmana, ma anche l'esigenza di gestire le tensioni tra mondo islamico e Occidente attraverso un impegno culturale articolato di lungo periodo, in cui siano coinvolte sia le istituzioni statali sia le diverse componenti della società civile, in particolare gli organismi religiosi. Occorre sviluppare una formazione al dialogo culturale, ai valori civili fondamentali, ai valori religiosi più alti che evitino la strumentalizzazione politica della religione e della politica da parte delle istituzioni religiose capace di costruire davvero visioni morali fondamentali condivise, come base e ambito per gestire i rapporti e sviluppare il confronto a tutti i livelli, a partire dal piano personale per arrivare ai rapporti tra stati. Diritti per i Cristiani L'insieme degli eventi sopra sinteticamente delineati ha influenzato anche il rapporto del Cristianesimo con l'Islam. Al-Qaida nei suoi comunicati non manca di qualificare i suoi nemici occidentali come miscredenti e crociati, caricando quindi l'appartenenza al Cristianesimo di valenza negativa, non solo di ordine storico ma anche dottrinale, avvalorando una lettura teologico-giuridica islamica oppositiva nei riguardi dell'alterità religiosa. L'intenzione di caricare di legittimazione religiosa il jihad contro l'Occidente identificato con il Cristianesimo è evidente nel linguaggio dell'Islam qaedista, che incentiva lo scontro a tutto raggio: politico, religioso e culturale. D'altra parte gli alti responsabili religiosi islamici ufficiali e spesso anche gli imam locali nonché molti rappresentanti musulmani del mondo della cultura e della politica hanno fermamente condannato il terrorismo e, spesso, anche l'avversione al Cristianesimo. Tuttavia in ambito cristiano queste prese di posizioni, pur apprezzate, vengono anche ritenute insufficienti, a fronte di una persistente marginalità, talora attiva oppressione, di cui i cristiani sono fatti oggetto in molti paesi musulmani. Emerge la consapevolezza in ambito cristiano che le dichiarazioni formali di condanna, certo sincere, non sono però sufficienti, se non vengono accompagnate e seguite da precisi impegni politici e culturali atti a garantire i diritti civili fondamentali ai cristiani cittadini o residenti nei paesi a maggioranza musulmana.2 È questa la cartina di tornasole per verificare la volontà di un dialogo serio sul piano interculturale e interreligioso. Tra i cristiani in Occidente sta emergendo in modo sempre più forte la richiesta di "reciprocità", a fronte di nuove e consistenti presenze nei paesi a maggioranza cristiana di popolazione musulmana, i cui diritti civili vengono giustamente assicurati. La centralità che sta assumendo nel comune sentire la categoria della reciprocità ha talora fatto sorgere qualche interrogativo sulla sua legittimità evangelica, nel senso che in ambito ecclesiale qualche critico ha sostenuto che essa, basandosi sul principio giuridico del "dare-condizionato dal ricevere" non sarebbe coerente con la gratuità che il Vangelo esige. A questa obiezione credo si possa efficacemente rispondere sottolineando che nel contesto dei diritti fondamentali la richiesta di reciprocità non condiziona la tutela di tali diritti nei paesi occidentali al fatto che i medesimi vengano assicurati ai cristiani nei paesi musulmani. La tutela dei diritti civili dei musulmani in Occidente è doverosamente assicurata dallo stato di diritto e la chiesa è a favore di tale tutela; ma proprio per questo medesime garanzie possono e devono essere richieste agli stati a maggioranza musulmana in favore dei cristiani e dei non musulmani residenti in tali paesi, perché i loro diritti fondamentali tra cui la libertà religiosa siano garantiti. La richiesta di reciprocità a fronte di una tutela già conferita e non condizionata, come avviene per i diritti fondamentali nei paesi occidentali lungi dall'essere contraddittoria con il Vangelo, diviene se mai un imperativo sul piano morale, perché ogni uomo possa essere rispettato nella sua dignità più profonda e possa esprimerla nel suo vissuto privato e pubblico. È un imperativo dettato da esigenze di carità, sul piano personale ed ecclesiale, nonché di giustizia sul piano più ampiamente civile e politico. Un Dialogo più Critico D'altra parte in ambito cristiano l'11 settembre ha posto degli interrogativi sul dialogo interreligioso, dopo il forte slancio in tale senso iniziato dal Concilio Vaticano II e promosso dal Papa Giovanni Paolo II. Emergono interrogativi non tanto sul dialogo in se stesso, ma sul suo metodo, i suoi obiettivi, la verifica dei suoi risultati. Da questo processo di verifica tuttora in pieno svolgimento, sembra che emergano almeno due acquisizioni: la prima riguarda il metodo del dialogo, cui si richiede di essere più critico ed esigente e di non limitarsi a espressioni di intenti cui non seguono impegni concreti; la seconda acquisizione è che il dialogo interreligioso per essere efficace deve essere fortemente radicato in un contesto più ampiamente culturale, perché i problemi all'ordine del giorno non sono di natura dogmatica in primo luogo, ma riguardano la dimensione etica, sociale, giuridica, politica. Si tratta di ambiti che hanno certamente anche un fondamento teologico o uno statuto specifico che la teologia loro riconosce, ma su cui occorre sviluppare un confronto e un impegno comune di tipo più ampiamente culturale, atto a coinvolgere una pluralità di mondi, senza limitarsi ai rappresentanti delle sole istituzioni religiose, che nel mondo musulmano, oltretutto, hanno spesso notevoli connessioni di ruolo con istituzioni politiche o di ispirazione politica. Certamente ci si è resi conto che il dialogo è un prospettiva irrinunciabile, ma assai esigente. Sul piano prettamente interreligioso esso richiede, per essere efficace, un sano possesso della propria identità religiosa, all'interno della quale soltanto si può trovare il fondamento per l'apertura all'altro, l'ascolto dell'altro, l'appello all'altro, attraverso cui sviluppare concretamente quel «ministero del vivere insieme» di cui parla P. Christian de Chergé, priore dei trappisti di Notre Dame de l'Atlas in Algeria.3 Certamente l'acuirsi dell'ostilità del radicalismo islamico contro il Cristianesimo ha provocato direttamente o indirettamente anche nuove esperienze di martirio come quelle dei sette trappisti di Notre-Dame dell'Atlas, di cui ricorre il decimo anniversario, o, più recentemente, di Don Andrea Santoro a Trebisondo, per citare solo due esempi eloquenti. Sono esempi che mostrano come il vero dialogo basato sull'espressione limpida e "inoffensiva" della propria fede può divenire causa di martirio, perché sconfessa sia le logiche di violenza, sia le tentazioni di ripiegamento relativistico, cui forse una parte delle attività di dialogo ha ceduto nel corso degli anni. Ora appare chiaramente che il dialogo non può che essere esigente, pena la sua irrilevanza pubblica evidente. Infine l'11 settembre ha avuto almeno un'importante conseguenza anche nei rapporti dell'Occidente con il Cristianesimo, perché si è rafforzato e diffuso un movimento culturale che tende a rivalutare la matrice cristiana dell'Occidente e dei valori fondamentali che strutturano il suo ordine civile e culturale. Questo avviene all'interno di un generale movimento di ristrutturazione delle identità culturali collettive, che in quanto tale precede l'11 settembre si tratta infatti di un fenomeno di lungo periodo connesso alla diffusione della modernità e, poi, della globalizzazione ma che certamente ha trovato in tale evento e più in generale nella diffusione di una identità islamica forte un fattore di ulteriore coesione e sviluppo. È un processo che per un verso si sviluppa all'interno della stessa componente ecclesiale, che di fronte a un generale pluralismo religioso e culturale non privo quest'ultimo di forti derive relativistiche richiama l'importanza di riconoscere le proprie radici culturali e religiose, per sapersene riappropriare e trarne linfa per elaborare visioni efficaci di vita personale e associata. Per l'altro verso questo processo trova riscontri, talora ampi, anche in correnti culturali laiche che si stanno sviluppando in Occidente, le quali senza giungere a una adesione di fede al Cristianesimo, lo considerano però come la radice valoriale e culturale comune, da valorizzare e da sviluppare come dimensione importante per la formazione della persona, per l'educazione alla cittadinanza, per ispirare ordinamenti sociali e politici aperti alla differenza ma non relativistici. È questo un fenomeno culturale non privo di ambiguità, perché rischia sia di ridurre il Cristianesimo a un'etica, come già fece il Protestantesimo liberale del secolo XIX, sia di condurre in alcuni suoi esiti a posizioni identitarie autoreferenziali ed escludenti nei confronti dell'alterità. Per altro verso il medesimo fenomeno può però aprire itinerari di dialogo su basi nuove tra culture laiche e culture di ispirazione cristiana e istanze ecclesiali. Se tale dialogo sarà criticamente sviluppato al fine di evitare i rischi sopra citati, ne potranno scaturire opportunità interessanti per elaborare prospettive efficaci di vita associata, in cui superando sia derive nettamente relativistiche, sia il rigetto dell'alterità culturale e "credente" pluralismo e identità siano inseriti dinamicamente in un contesto valoriale fondamentale condiviso, sempre da riassumere e da declinare nella storia. ------------------------ 1. Si veda Gilles Kepel, Le prophète et le pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Seuil, Paris 1993; Andrea Pacini (a cura), Dibattito sull'applicazione della shari'a, Dossier Mondo Islamico 1, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995; Id., I Fratelli Musulmani e il dibattito sull'islam politico, Dossier Mondo Islamico 2, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996. 2. Andrea Pacini (a cura), Comunità cristiane nell'islam arabo. La sfida del futuro, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996, in particolare pp. 1-28; Maurice Borrmans, La contribution des communautés arabes chrétiennes au devenir des états arabes: dynamiques et perspectives, in Andrea Pacini (dir.), Les communautés chrétiennes dans le monde musulman arabe, numéro spécial de la Révue Proche-Orient Chrétien, tome 47, 1997. 3. Comunità di Bose (a cura), Più forti dell'odio. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, trad. it., Piemme, Casale Monferrato 1997; L'écho de Tibhirine, Chemins de Dialogue 27, aprile 2006.

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