Tradizione cristiana e nuove sfide /4. L’uomo è il solo animale che uccide in gran quantità gli individui della sua stessa specie. Non basta deplorare questo fatto, occorre comprenderlo, in particolare in un momento storico nel quale le nostre società aspirano alla pace ma si trovano coinvolte in conflitti difficili e confusi.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:48

Se amiamo la pace, come è nostro dovere in quanto cristiani, dobbiamo cominciare a guardare in faccia la verità: la guerra è un fenomeno umano tanto generale quanto il linguaggio o la religione. Questo significa o che è un elemento della stessa definizione di uomo o che risulta da un dato che ne influenza universalmente la natura, quello che si chiama peccato originale. L’uomo è il solo animale che uccide in gran quantità gli individui della sua propria specie [1]. Non basta deplorare questo fatto, bisogna comprenderlo. Perché gli uomini si fanno la guerra? Un fenomeno tanto universale non può ricevere una spiegazione accidentale. La sua radice è profonda e la guerra può probabilmente contare su una complicità nell’anima degli individui e dei popoli. E forse il suo aspetto più tragico è questo, che gli uomini si facciano la guerra in parte senz’altro motivo reale che quello di farsi la guerra, in virtù della sorprendente facoltà di trasformare i mezzi in fini attraverso un’intelligenza messa a servizio dell’egoismo. Tutte le guerre hanno tuttavia delle cause, dei fini e delle poste in palio. E, siccome l’uomo è allo stesso tempo corpo e spirito, anche la guerra ha una materia e una forma: una materia formata da interessi economici o di sicurezza, posizioni di potere, indipendenza, status e prestigio; una forma costituita da interessi intellettuali e morali, definiti di volta in volta come spirituali, religiosi, assiologici o ideologici. La materia è unita a questa forma in un composto inscindibile chiamato cultura, una forma di vita impregnata del suo significato. Gli interessi morali oggettivi sono le credenze e i valori delle comunità in conflitto; gli interessi morali soggettivi sono i motivi personali profondi per i quali gli individui vi aderiscono. Questi motivi sono allo stesso tempo ideali e materiali: l’individuo lotta in parte per dovere, amore della verità o dell’ideale e in parte perché credenze e valori sono strumentalizzati da ogni sorta di tendenze meno pure. Ma il suo motivo concreto è il più delle volte l’unione inscindibile di tutti questi motivi. L’individuo lotta per la sua cultura. Combatte per il suo mondo e i suoi valori e si serve di questa lotta anche per esaltare la sua propria immagine e soddisfare impulsi oscuri. Le proporzioni tra tutti questi ingredienti variano in ogni conflitto e in ogni persona. Non esiste legge generale. Lo studio dei conflitti contemporanei [2] mostra che le interpretazioni materialiste della guerra, al pari di quelle spiritualiste, non sono accettabili. In ogni guerra si uniscono materia e forma ed è per questo che guerre di religione e/o d’ideologia spingono al massimo grado l’inevitabile ambiguità insita nell’incarnazione delle credenze, dei valori, della cultura. Le attuali guerre in Medio Oriente (Palestina, Iraq, Afghanistan), che gli esperti chiamano guerre irregolari, irregular warfare, comportano anch’esse una tale incarnazione. La dimensione spirituale non è che una delle loro componenti. Inoltre, questi conflitti vanno situati all’interno del gioco globale per la leadership universale. In una prospettiva globale la prevenzione degli atti di terrorismo e la lotta contro i movimenti islamisti restano certamente elementi significativi, ma ormai rivestono un’importanza primaria solo a livello retorico-mediatico. Alle forze armate occidentali in lotta contro le “insurrezioni” (insurgencies), come esse le chiamano, si ordina di non adottare un contegno da civiltà in guerra. Ufficialmente, si tratta di una sorta di immensa operazione di polizia internazionale contro associazioni criminali. Il senso di un tale comportamento di riserva è ambiguo. Diverse interpretazioni sono possibili: 1) decisione in coscienza di non confondere politica e religione; 2) stratagemma, poiché il centro di gravità che si va a toccare si trova nelle opinioni pubbliche, in Occidente e nei paesi a maggioranza musulmana; 3) manovra politica, nel senso che questo atteggiamento e questa posizione sarebbero retoricamente necessarie per il successo della politica occidentale. Le interpretazioni non si escludono a vicenda. Resta il fatto che la situazione strategica occidentale in Iraq è sensibilmente migliorata a partire dal 2007 (il famoso surge) [3]. Questo miglioramento sarebbe dovuto al fatto che l’azione iniziata dal Generale Petraeus si sarebbe fondata a partire dal 2006 non su un’analisi troppo ideologica e a priori, ma su un’antropologia realista che ha tenuto conto della cultura, nel senso precedentemente indicato [4]. I conflitti in corso erano stati trattati a lungo dagli americani in un modo troppo “spiritualista”. Il fatto che questi punti d’incandescenza segnino delle frizioni lungo la frontiera che corre tra la civiltà islamica e le altre [5] non significa necessariamente che i combattenti, da parte musulmana, si sentano tutti parte in causa di una “guerra cosmica” che esprimerebbe un’inimicizia profonda e totale. Il fattore spirituale non era stato, come credevano i materialisti, sovrastimato, ma isolato, considerato facendo astrazione del suo mescolamento con i fattori materiali. Significava precisamente disconoscere la dimensione della cultura. Osservazione Lunga e Ragionata Un’analisi più sottile doveva condurre a distinguere, nelle file degli insorti, tra il piccolo numero dei militanti universalisti di una religione transnazionale, quelli che potremmo chiamare i “partigiani globali”, e il gran numero di partigiani locali, i “partigiani tellurici”. I partigiani locali sono caratterizzati dal loro relativo disinteresse per un’ideologia transnazionale così come per gli apporti della modernità. Legati al loro modo di vita tradizionale, rifiutano l’irruzione di un modernismo aggressivo. La religione li motiva alla guerra nella misura in cui fa parte della loro vita e della loro cultura, forma incorporata alla materia della loro terra, della loro organizzazione familiare e clanica, del loro modo di vita ancestrale. Non combattono tanto i miscredenti quanto l’invasore e il riformatore precipitoso. Esiste una forte tensione tra i combattenti universalisti, preoccupati di introdurre la legge religiosa universale, e i partigiani tellurici, sostenitori della legge consuetudinaria, della morale dell’onore e della fedeltà clanica. L’esperienza dimostra anche che per la maggior parte dei partigiani tellurici l’attaccamento alla propria tradizione si accompagnerebbe a una certa apertura verso aspetti positivi della modernità, come la medicina. Sono anche sensibili alle manifestazioni d’attenzione nei loro confronti, da qualsiasi parte esse provengano, e a ogni possibilità di partecipare onorevolmente a un’esistenza collettiva, ciò che Haschim chiama «potential for transformation to respectability». L’analisi della squadra di Petraeus non è stata una creazione intellettualistica ex nihilo. È stata la ripresa dei risultati di un’osservazione ragionata, di lunga durata e condotta su diversi terreni, i cui risultati dottrinali erano stati confermati da un’esperienza pratica pressappoco costante. L’analisi di Petraeus beneficiava così, per quanto riguarda le fonti francesi, soprattutto dell’esperienza delle azioni di pacificazione o di contro-insurrezione condotte nel corso della colonizzazione francese. Per guidare una contro-insurrezione (così come per lanciare un’insurrezione) occorrerebbe perciò tenere innanzitutto conto di questa relazione tra religione e cultura, quindi della coesistenza e continua sintesi tra gli scopi mistici degli individui e i loro fini pratici, infine del fatto che l’individuo vive la sua piccola guerra in seno al vortice che lo trascina e nel quale non è che un atomo miope. Infine, questi diversi ordini di fatti vanno a loro volta presi in considerazione nel contesto di una cultura politica che accorda meno importanza al senso dello Stato che a quello dell’etnia, del clan, del sotto-clan o della famiglia. Il senso della fedeltà o dell’onore viene vissuto innanzitutto all’interno di un gruppo di riferimento ristretto. Si capisce in questo modo quanto sarebbe sommario e mistificante parlare di guerra di religione in modo semplicista e univoco, e quanto, pensando male, si agisce poi maldestramente e ingiustamente. Di qui la necessità di correggere il tiro [6]. Attitudine dello Spirito In ultimo vorrei dissipare il malinteso che rende difficile, in Occidente, capire quanto fin qui affermato. Mi sia permesso distinguere, con un artificio tipografico, la cultura, in corsivo, nel senso indicato sopra, e la “cultura”, tra virgolette, nel senso di un soggettivismo arbitrario. Si definisce “cultura”, nell’Occidente cosiddetto postmoderno, l’espressione di una moltitudine di soggettivismi giustapposti, a loro volta sovrapposti a un’organizzazione materiale radicalmente oggettivista, senza rendersi conto che il materialismo organizzativo non è ideologicamente neutro, ma fa profondamente sistema con il soggettivismo arbitrario. Di qui il malinteso e la diffidenza reciproca. In realtà, la cultura dell’Occidente postmoderno è proprio il sistema formato da questo oggettivismo e questi soggettivismi (queste “culture”). Beninteso, nella sua rappresentazione spontanea l’Occidente postmoderno non concepisce che un popolo o degli individui possano battersi per la loro cultura, perché il suo metodo di pensiero distrugge ai suoi occhi la possibilità anche solo di “vedere” la cultura e lo costringe a ricostruire mentalmente un oggetto, chiamato “cultura”, ridotto a frutto di una decisione arbitraria, questione di gusto su cui non si può discutere. Si ritiene che questa sovrastruttura privata, elemento facoltativo della vita di ciascuno, non condizioni il funzionamento esteriore della struttura “oggettiva” della società. E tuttavia, è la stessa attitudine fondamentale dello spirito – lo stesso “dubbio” o “sospetto” metodico – a generare allo stesso tempo, e in un solo movimento, questo oggettivismo neutro e i suoi soggettivismi arbitrari. Ci troviamo in un’epoca in cui tale gesto intellettuale inaugurale s’impone sempre più ovunque nei fatti per la forza delle cose come una realtà scontata; nel contempo esso si rivela in verità sempre meno scontato, non appena la riflessione personale riprende una qualche autonomia relativamente a questa cultura. Ciò spiega perché l’Occidente postmoderno coniughi tanto facilmente una teoria pacifista e una pratica guerriera. L’Occidente infatti si batte, e si batte molto e dappertutto, per questo sistema “oggettivo-soggettivista” che è al giorno d’oggi la sua cultura e che esso tende a imporre a tutto il pianeta come norma universale autoevidente (Il Diritto). E quando difende la libertà d’espressione di tutte le “culture” (in senso soggettivista) o quando dichiara di opporsi all’imperialismo dogmatico di una credenza – di una cultura – promuove in realtà la sua sola e unica cultura. È questa l’illusione pseudo-scettica alla base del malinteso [7]. È assolutamente certo che nel sistema occidentale postmoderno le “culture” soggettiviste sono per definizione in pace tra loro, e che questo sistema pare la condizione di un pluralismo pacificato, o della pace tra le “culture”. Da qui una speranza pacifista che crede la pace universale a portata di mano, purché le persone si dimostrino “ragionevoli”. Ciò avviene però in Occidente non perché le “culture” siano effettivamente una pluralità sempre in grado di coesistere senza guerra, ma in realtà perché una cultura unica tende a ridurre tutte le altre culture a semplici “culture” – subordinandole in questo modo con mano di ferro alla cultura unica, questa filosofia oggettivo-soggettivista radicata nel “dubbio” e divulgata nella forma di un’ideologia del privato, una sorta di comunismo al contrario in cui la Libertà è concepita come “vita privata soggettivista arbitraria” e gli Individui (con la maiuscola, come se fossero dèi) formano “bolle” in seno al mercato mondiale oggettivo e funzionante secondo meccanismi propri. Una tale filosofia o ideologia, quale che possa essere la sua relativa parte di verità, non può ragionevolmente pretendere di inglobare in sé la verità profonda di ogni civiltà. Ecco perché occorre dire che l’Occidente non fa quello che pretende di fare: non rispetta le culture, dal momento che le rispetta solo come “culture”; le nega come culture (eventualmente vere in assoluto) nell’istante stesso in cui, qualificandole come “culture” (soggettiviste e arbitrarie), le subordina alla sua sola cultura (assolutismo relativista). E quando fa la guerra per la libertà delle “culture”, la fa in verità per l’egemonia della sua cultura. Anche se una tale politica, per così dire, ha una sua logica, si trova quanto meno molto mal attrezzata per denunciare il fanatismo dell’avversario. Senza un minimo di buona fede non si arriverà mai a una pace che non sia un semplice diktat. C’è dunque una forma di pacifismo occidentale inconsciamente soggettivista, incapace di vedere come esso faccia sistema con il bellicismo incosciente di una pretesa universalista esagerata, presentata come l’apice della tolleranza. Questo pacifismo, che peraltro finisce sempre per riconoscere, reluctantly, la necessità di ricorrere comunque alla forza, è incapace di comprendersi come un elemento della cultura dell’Occidente postmoderno, elemento privato di trascendenza in rapporto ad essa. Anch’esso è condizionato da questo malinteso fatale e subisce l’illusione pseudo-scettica che nasconde all’Occidente il carattere paradossalmente imperiale e intollerante del suo proprio modo di procedere, che conduce il mondo, questa volta per davvero, allo scontro di civiltà. Un approfondimento filosofico è senza dubbio assolutamente necessario [8] perché un nuovo metodo di pensiero prenda il posto di queste logiche produttrici d’interpretazioni ideologiche e artificiali. Questi giochi di apparenze non impediscono solo di capire. Funzionano anche come mistificazioni retoriche che velano l’oggettivismo crudo, la politica di potenza e d’interessi, l’altra faccia di una politica di parole. La religione cristiana, per il fatto di porsi al di sopra sia dell’epoca premoderna che della modernità, ha un ruolo insostituibile da giocare per la pace del mondo, ispirando la formazione di una nuova cultura occidentale, che, cercando ovunque la carità nella verità, non riduca le culture a “culture” soggettiviste che pertengono all’ordine dell’arbitrario insignificante. Ecco perché la cosa migliore che le religioni possano fare in questo contesto è approfondirsi spiritualmente, restare in pace le une con le altre facendosi concessioni pratiche ragionevoli, senza lasciarsi strumentalizzare da volontà di potenza temporali o secolariste, senza lasciarsi trascinare nella violenza dei fanatismi e ispirando, se possibile, quelle riforme filosofiche e politiche che permettano di farsi carico, in modo meno unilaterale e profondo, e prima che sia troppo tardi, del bene comune della famiglia umana.  


[1] Per l’interpretazione di questo fatto cfr. René Girard, Des choses cacheés depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978, 96-97 (ed. italiana, Delle cose nascoste dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983). [2] Per una visione allo stesso tempo globale, dettagliata e recente dell’argomento, cfr. la ponderosa opera di Gérard Chaliand, Les guerres irrégulières. XXe – XXIe siècle. Guérillas et terrorismes, Gallimard, Paris 2008. Contributi di Philippe Migaux, David Galula, David H. Petraeus, etc. Questo volume contiene una bibliografia eccellente e aggiornata. [3] Michel Goya, Irak. Les armées du chaos, Economica, Paris 2008, 206-213. Il tenente-colonnello Goya, scrittore e pensatore di fama, è anche, in Francia, il consigliere militare per il Medio Oriente presso il Capo di Stato Maggiore dell’esercito. [4] Cfr. l’importante relazione, ispirata a Carl Schmitt,  di Ahmed S. Hachim, professore di Studi strategici al Centro di Studi sulla Guerra Navale del Naval War College (Stati Uniti), esperto di problemi strategici in Medio Oriente, al Convegno internazionale su La guerre irrégulière, Écoles de Saint-Cyr Coëtquidan, Guer 12-14 maggio 2009. [5] Secondo l’analisi di Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon&Schuster, New York 19982, 119. [6] «To the Muslim world, we seek a new way forward based on mutual interests and mutual respect». Discorso inaugurale del Presidente Barack H. Obama, 20 gennaio 2009. [7] Henri Hude, Prolégomènes. Les Choix humains, Parole et Silence, Paris 2009, capitoli 1 e 4. [8] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 33.

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