La guerra del 2011 contro il regime di Gheddafi ha provocato una rinascita del regionalismo e del tribalismo. La transizione politica successiva è fallita. Un’analisi della situazione attuale e una proposta di scenario per uscire dalla crisi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:29

L’attuale crisi libica è politica, economica, sociale e morale. Ed è anche una crisi del legame sociale. La guerra del 2011 contro il regime di Mu‘ammar Gheddafi (1969-2011), con tutte le sue implicazioni economiche e geostrategiche, ha messo fine a un processo di trasformazione graduale iniziato nel 2000[i]. Essa ha generato una crisi del senso di appartenenza, un clima di disillusione nazionale e la rinascita del regionalismo e del tribalismo. Nell’interminabile transizione, non è stato preso sufficientemente in considerazione il peso delle strutture economiche e sociali. In una società fortemente tradizionale, il potere delle tribù viene sottovalutato e analisi e decisioni non tengono conto della loro capacità di contribuire alla pacificazione e alla messa in sicurezza del territorio.

 

Inoltre, la transizione ha riacceso un conflitto strutturale e storico legato all’ineguale redistribuzione delle entrate petrolifere. I pozzi di petrolio si trovano principalmente nella parte orientale e meridionale del Paese. Il fattore energetico ha effetti politici importanti: gli idrocarburi hanno svolto un ruolo decisivo nella fine della monarchia Senussi (1951-1969) e dello Stato federale (1951-1963). Similmente, essi hanno contribuito a inasprire i conflitti tra l’Est, l’Ovest e il Sud del Paese, tra la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Oggi il petrolio e il gas giocano un ruolo importante nella grave crisi che sta attraversando la Libia[ii].

 

È importante, perciò, ripensare il ruolo delle tribù nel sistema politico libico e richiamare l’attenzione sulla necessità di elaborare dei meccanismi di perequazione finanziaria accettabili per tutti e quindi legittimi. La nostra ipotesi è che la transizione imposta dalla guerra abbia avuto come effetto inaspettato (unexpected effect o unintended consequence) la retribalizzazione della società, il rafforzamento delle tribù e l’emergere di un vero e proprio potere tribale. Per spiegare l’interminabile transizione politica in Libia occorre perciò considerare due fattori strutturali: la sottovalutazione del potere delle tribù e la questione scottante della redistribuzione della rendita petrolifera.

 

Stato e tribù sotto la monarchia Senussi

 

Durante il governo di Idrīs al-Senussi, la monarchia (1951-1969) era essenzialmente un potere religioso che ha contribuito poco allo sviluppo dello Stato a causa delle scarse risorse finanziare di cui disponeva e del peso di regioni e tribù. Pur avendo cercato di ridurre il peso delle tribù, re Idrīs non è riuscito a mitigarne o contrastarne il peso sociale, culturale e politico.

 

Le strutture federali dello Stato libico indipendente erano di fatto un compromesso tra le esigenze internazionali e la realtà di una formazione sociale in cui predominavano i territori tribali. Le tribù erano refrattarie a qualsiasi idea di centralizzazione del potere. Non disponendo di un apparato amministrativo sviluppato, re Idrīs ha dovuto ricorrere alle tribù e alle loro reti di parentele per governare una società che resisteva a qualsiasi unificazione[iii]. A prevalere in quel periodo fu la coesistenza formale di una monarchia nel quadro di uno Stato federale e di una realtà clientelare in cui i legami clanici e tribali avevano la precedenza[iv].

 

Stato e tribù all’epoca di Gheddafi

 

Il colpo di Stato del 1° settembre 1969 s’inseriva nel contesto di una crisi politica della monarchia. Quest’ultima aveva perso il sostegno delle principali tribù[v], tra cui le tribù dei Warfallah e dei Megaraha da cui dipendeva Idrīs al-Senussi, che non aveva osato riformare le strutture amministrative del Paese ricalcate sui territori tribali. È stata l’incapacità di riformare il Paese e di costruire uno Stato meno federale a segnare la fine della monarchia.

 

Assumendo il potere in seguito a un colpo di Stato, Mu‘ammar Gheddafi (1969-2011) ha cercato inizialmente di continuare le riforme intraprese dalla monarchia appoggiandosi sui nazionalisti e sulla classe media urbana della Tripolitania e della Cirenaica. La sua prima decisione importante è stata la legge sul potere locale del maggio 1970, che creava i governatorati (muhâfadât) e le municipalità (baladiyyât) separando così l’organizzazione dello Stato dalle strutture tribali. Dal 1973, però, Gheddafi ha rifiutato di introdurre delle riforme politiche democratiche, suscitando così l’opposizione  dei nazionalisti e della classe media urbana.

 

Di fronte a questa opposizione, Gheddafi si è visto costretto a radicalizzare il suo discorso e imporre il sistema “jamahiriyano” detto di “democrazia diretta”. Nel frattempo, si è avvicinato alle tribù cercando il loro sostegno. I bombardamenti americani del 1986 hanno segnato l’apice di questo avvicinamento. Da questo momento il leader libico ha stretto delle alleanze con le principali tribù, tra cui i Qadhadhafa, in cambio della concessione di aiuti finanziari e dell’accesso agevolato a posizioni di responsabilità nell’esercito e nell’amministrazione.

 

Con Gheddafi si è verificato quindi un rafforzamento delle strutture tribali sotteso dalla cultura e dal discorso del “non-stato” o del “senza stato”, ciò che John Davis ha definito «statelessness». Dopo un periodo (1969-1975) trascorso cercando di aggirare il peso politico delle tribù, Gheddafi si è visto costretto a tornare a una politica a loro favorevole. Dietro la sua concezione della Jamahiriya – «democrazia diretta»[vi] con una forte connotazione culturale tribale – traspariva infatti in realtà la concezione di uno Stato debole per salvaguardare l’autonomia locale e il peso delle tribù. A questo proposito John Davis ha scritto che l’abilità di Gheddafi è stata sostenere l’immagine del “non-Stato” per rafforzare la propria posizione alla guida di uno Stato debole[vii].

 

Lo Stato libico costruito da Gheddafi era decentralizzato e permetteva di conciliare una triplice appartenenza – regionale, tribale e nazionale. Era uno Stato debolmente istituzionalizzato in cui le relazioni personali restavano importanti e dove erano particolarmente influenti le tribù dei Warfalla, dei Qadhadhafa, dei Magharba, dei Majabr e degli Zuwayya[viii]. In questo senso, lo Stato gheddafiano era uno Stato-nazione in formazione le cui strutture specifiche tendevano a conciliare tradizione e modernità. La triplice appartenenza e le tensioni che ne derivavano rimandavano a quella che Ernest Gellner ha definito la tensione tra l’ordine della segmentarietà e quello della società, cioè la tensione, insita nello Stato musulmano, tra la cultura pastorale-tribale e la cultura urbana[ix].

 

Le tribù nella transizione politica

 

Paradossalmente, le rivolte del 2011 e il successivo intervento delle potenze occidentali contro il regime di Mu‘ammar Gheddafi hanno rafforzato il potere delle tribù, contribuendo a una retribalizzazione della società libica. Questo fenomeno si è accentuato con il fallimento delle Nazioni Unite nel far uscire il Paese dalla crisi.

 

Una delle prime manifestazioni di questa retribalizzazione è stata la proclamazione unilaterale dell’autonomia della Cirenaica nel marzo 2012. Effettivamente, un’assemblea non eletta, il Congresso del popolo della Cirenaica, composto dai capi delle principali tribù dell’Est tra cui la tribù dei Warfalla, ha proclamato l’autonomia della Cirenaica e lanciato un appello a tornare allo Stato federale.

 

Questa iniziativa ha suscitato reazioni di rifiuto di una parte della popolazione della Tripolitania e, in misura minore, in Cirenaica. Dopotutto essa proveniva da una regione che comprende il 50% del territorio libico, detiene il 70-80% delle riserve petrolifere ma rappresenta soltanto il 25% della popolazione.

 

Diversi fattori avevano giocato a favore della proclamazione dell’autonomia, tra cui le ambizioni di alcune forze tribali e regionaliste dell’Est del Paese che miravano a controllare le ricchezze energetiche. Infatti, le tribù della Cirenaica ritenevano e ritengono che sia giunto il momento di affermare una logica di ripartizione delle ricchezze petrolifere a loro più favorevole rispetto al passato. Karim Barasi, un imprenditore della Cirenaica ha dichiarato: «Prima del colpo di Stato di Gheddafi nel 1969 la banca centrale libica aveva la sede a Benghazi, così come diverse compagnie petrolifere, ambasciate e compagnie aeree. Gheddafi ci ha preso tutto e il Consiglio nazionale di transizione non ci ha restituito nulla. Se questo squilibrio non viene affrontato rapidamente, la divisione è garantita. Noi possiamo sopportare questa situazione al massino uno o due anni».

 

Nel processo di retribalizzazione è stato altrettanto importante “l’Appello di Benghazi” dell’aprile 2011 per una «Libia libera, democratica e unita», firmato da 60 capi delle principali tribù dell’Est e dell’Ovest del Paese, tra le quali i Warfalla e gli Ouled Sliman, la tribù dei Fezaazana e la tribù al-Zuwayya. Questo Appello è un elemento significativo dell’accresciuto ruolo delle tribù nella vita politica. Va inoltre ricordato il Manifesto del Consiglio tribale della Libia, pubblicato nell’agosto 2011, che chiedeva di mettere fine al conflitto e combattere i «crociati» della NATO.

 

Nel luglio del 2016 i capi delle tribù della Libia orientale, dove si trovano i due terzi delle risorse petrolifere, hanno chiesto all’ex capo dell’UNSMIL Martin Kobler (2015-2017) di considerarli gli interlocutori con cui trattare per mettere in sicurezza i pozzi petroliferi e rilanciare la produzione e le esportazioni del petrolio. Essi hanno poi giurato fedeltà al maresciallo Khalifa Haftar (capo dell’Esercito Nazionale Libico), al parlamento di Tobruk e al governo provvisorio. Sono queste stesse tribù ad aver sostenuto le operazioni militari dell’Esercito Nazionale Libico, lanciate nel 2019 contro le milizie islamiste di Misurata e Tripoli, e a controllare la mezzaluna petrolifera.

 

L’atto più tangibile del potere tribale in Libia è stata la chiusura da parte delle tribù della Libia orientale dei pozzi petroliferi nel gennaio 2020 (la cui perdita ammonta a 2,5 miliardi di dollari) e la loro riapertura nell’ottobre 2020. Il fatto che le tribù controllino la mezzaluna petrolifera attraverso l’Esercito Nazionale Libico comandato dal maresciallo Khalifa Haftar è indicativo del controllo tribale del territorio e della capacità delle tribù di mobilitare le risorse per bloccare un settore vitale per il Paese. Questo è stato anche un atto politico, che ha permesso di avanzare diverse rivendicazioni in merito all’equa redistribuzione delle entrate petrolifere, alla smilitarizzazione delle milizie islamiste a Tripoli e Misurata e alla formazione di un governo di unità nazionale. Anche se queste rivendicazioni non sono state accolte, resta il fatto che la chiusura dei pozzi ha influenzato l’agenda dei decisori libici e internazionali, e ha conferito una legittimità politica alle tribù, che svolgono così la funzione di partiti politici per quanto molto fragili e privi di una base sociale adeguata.

 

Infine, tribù come i Warfalla, gli Abid, gli Awaghir oggi sono in prima linea nella lotta contro l’espansionismo turco e la presenza delle truppe del presidente Recep Tayyip Erdoğan sul suolo libico. Possiamo dire che, nella congiuntura attuale, le tribù svolgono la funzione di movimento nazionale contro la volontà espansionistica del presidente turco, ciò che costituisce una grande sfida per i Paesi del bacino Mediterraneo. Per il momento le tribù denunciano il colonialismo turco in attesa di una reazione decisa delle Nazioni Unite. Se questa non dovesse arrivare, non è escluso che le tribù possano iniziare una vera e propria guerra contro quella che considerano una presenza delle forze coloniali turche in Libia.

 

Al momento, le tribù principali sostengono il Forum del dialogo inter-libico sotto l’egida dell’UNSMIL, che dovrebbe portare alla riforma del governo di Tripoli. Tuttavia, in una prospettiva federalista, esse chiedono la ripartizione del potere decisionale politico e delle ricchezze petrolifere tra le tre regioni storiche del Paese (la Cirenaica, il Fezzan e la Tripolitania). Le dichiarazioni del 3 dicembre 2020 del presidente dell’Alto Consiglio delle Tribù del Sud, Alī Abū Sbīha, costituiscono una prova ulteriore del fatto che le tribù libiche si sentono investite della missione di lottare contro la presenza straniera turca e le milizie islamiste, che ritengono complici del progetto di dominazione turca in Libia. Criticando la recente presa di posizione della rappresentante ad interim delle Nazioni Unite in Libia, Stephanie Williams, Abū Sbīha ha invitato il Consiglio di sicurezza dell’ONU a prendere decisioni forti contro i mercenari che, secondo lui, occupano la Libia.

 

Aggiornamento e proposta di uno scenario per uscire dalla crisi

 

L’attuale impasse deve spingere le Nazioni Unite e le potenze occidentali a ripensare la gestione della transizione politica. È indispensabile un aggiornamento ed è più che mai necessaria una nuova strategia per uscire dalla crisi[x], che preveda l’integrazione delle tribù più potenti nel processo politico nel quadro di un nuovo periodo di transizione. Lo chiedono non soltanto le tribù, ma la realtà politica di un Paese con una forte componente tribale.

 

L’Esecutivo nato dall’accordo di Skhirat (2015), e mai approvato dal parlamento di Tobruk, dev’essere riformato[xi]. Occorre un Consiglio presidenziale collegiale che sia composto da tre personalità influenti e stimate, espressione delle tre entità storiche del Paese. Inoltre, occorre un governo di tecnocrati la cui missione sia mettere in sicurezza il Paese, restaurarne la sovranità e farlo ripartire per poi redigere una nuova Costituzione e indire delle elezioni. Nel quadro di questa nuova transizione, che dovrebbe durare dai due ai tre anni, l’Esecutivo deve fare assegnamento su due camere consultive. Nella prima dovrebbero sedere i capi delle tribù più influenti mentre la seconda dovrebbe riunire membri di partiti politici, organizzazioni socioprofessionali, personalità influenti e gheddafisti. Queste due assemblee dovrebbero formulare delle raccomandazioni per il governo e fungere da struttura di mediazione tra l’Esecutivo e la società, in modo tale che le decisioni prese siano legittimate e più facilmente attuabili.

 

Minimizzando il ruolo e il potere delle tribù libiche, gli attori locali e internazionali hanno reso molto difficile una transizione per la quale hanno avviato un conflitto distruttivo che non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita della maggioranza dei libici. Nell’attuale configurazione caratterizzata dalla presenza di milizie armate in un equilibrio dello sfacelo e in assenza di un monopolio legittimo della violenza, occorre pensare a un nuovo periodo di transizione regolamentato dalla comunità internazionale. Non avendo tenuto conto dei fattori socio-economici e dell’importanza delle tribù, i promotori della transizione nel 2011 hanno contribuito a distruggere un Paese che adesso devono assolutamente ricostruire con l’aiuto delle tribù più influenti, senza le quali non ci potrà essere nessuna soluzione politica duratura.

 

La transizione libica imposta dalla guerra è un fallimento. Le risorse petrolifere distribuite in maniera diseguale nel Paese sono una delle cause della guerra civile (2019-2020) e dell’esacerbazione delle identità regionali, etniche e tribali. Dal momento che la Libia è amministrata da uno Stato rentier che non dipende dalla tassazione per le sue finanze, il potere politico sfugge alla logica democratica perché non dipende dai cittadini che pagano le tasse. Il potere politico perciò è costretto a cercare il sostegno in altre strutture sociali, come le tribù. Richard Tapper nota che in una società prevalentemente tribale e dipendente dagli idrocarburi (hydrocarbon society), Stato e tribù vivono una sorta di simbiosi dialettica: gli Stati hanno bisogno delle tribù e le tribù hanno bisogno degli Stati per procurarsi le risorse e continuare a esistere. Le due istanze si sostengono vicendevolmente[xii]. Gli Stati forniscono le risorse necessarie e le tribù contribuiscono attraverso il loro sistema di valori, i loro modelli di comportamento, le loro reti di socialità e lignaggio a legittimare gli Stati e chi esercita il potere.

 

L’osservazione di Tapper trova un riscontro in Libia dall’indipendenza nel 1951. La società libica rimane in gran parte tribale perché gli uomini e le donne che la costituiscono si sentono apparentati per nascita o per alleanza[xiii], in quella che è una solidarietà più meccanica che organica, per usare il vocabolario di Durkheim. Su comando, i membri delle tribù sono pronti a prendere le armi per difendere i territori associati alla loro parentela. Allo stesso modo, le tribù offrono ai loro membri la dovuta protezione e immunità sociale fintanto che rispettano e osservano i valori tribali. Sono questi i legami tribali che rimangono forti in Libia e con cui bisognerà fare i conti.

 

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[i] Moncef Djaziri, La Libye : les enjeux économiques de la « guerre pour la démocratie, « Moyen-Orient », n. 12 (ottobre-dicembre 2011), pp. 78-83.
[ii] Idem, Tribalisme, guerre civile et transition démocratique en Libye, « Maghreb-Machrek », n. 212 (estate 2012), pp. 61-75.
[iii] Majid Khadduri, Modern Libya: A Study in Political Development, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1963.
[iv] Ruth First, Libya: The Elusive Revolution, Penguin Books, London 1974; Hassan Salem Salaheddin, The Genesis of Political Leadership in Libya, 1952-1969, Ph.D., George Washington University, 1973, pp. 190-192.
[v] Moncef Djaziri, État et société en Libye, L’Harmattan, Paris 1996, pp. 45-64.
[vi] Sami Hajjar, The Jamahiriya Experiment in Libya: Qaddafi and Rousseau, «The Journal of Modern African Studies», vol. 18, n. 2 (giugno 1980), pp. 181-200. A questo proposito John Davis nota che, per parlare di democrazia, nei suoi primi scritti Gheddafi ha fatto riferimento ai greci anziché al primo impero musulmano, Libyan Politics, Tribe and Revolution, I. B. Tauris, London 1987, p. 254.
[vii] John Davis, Libyan Politics. Tribe and Revolution, p. 246.
[viii] Moncef Djaziri, Tribus et État dans le système politique libyen, « Revue Outre-Terre », vol. 23, n. 3 (2009), pp. 127-134.
[ix] Ernest Gellner, The Distinctiveness of the Muslim State, in Jean-Claude Vatin (a cura di), Islam et politique au Maghreb, CNRS Editions, Paris 1981.
[x] Moncef Djaziri, Libye : propositions pour sortir de la crise, « Politique internationale », n. 159 (primavera 2018), pp. 313-327.
[xi] Idem, Libya : the Deadlock in Reaching a Political Agreement and the Problems Posed by the Democratic Transition, in Arturo Varvelli (a cura di), State-Building in Libya, Integration Diversities, Traditions and Citizenship, Reset Doc, Rome 2017, pp. 102-125.
[xii] Richard Tapper (a cura di), The Conflict of Tribe and State in Iran and Afghanistan, Croom Helm Publisher, London 1989.
[xiii] Maurice Godelier (a cura di), Les tribus dans l’Histoire et face aux Etats, Editions CNRS, Paris 2010.
 

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