Libia, Niger, Mali, Ciad sono al centro delle attenzioni di un’Europa preoccupata da minacce terroristiche e flussi migratori. Che cosa accade lungo quei confini?

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:54:11

Lo spazio sahariano, che fino al decennio scorso era solitamente derubricato come zona di limitate interazioni geopolitiche tanto da farne un cuscinetto di sicurezza, è oggi al centro delle preoccupazioni delle cancellerie europee, e non soltanto. È quindi urgente capire che cosa ha contribuito a trasformare una vasta regione desertica in una caldera magmatica di insopite tensioni da cui si propagano onde telluriche capaci di destabilizzare Africa, Europa e Medio Oriente.

 

Tanto più che le principali ipotesi sul tavolo appaiono contraddirsi platealmente: il Sahara è un vasto spazio largamente spopolato e non-governato che offre nascondigli remoti e inaccessibili al terrorismo transnazionale, come suggerivano i documenti strategici statunitensi all’apice dell’hybris della Global War on Terror, oppure è la frontiera contesa di un’area soggetta a esplosione demografica incontrollabile, dove la guerra per le poche risorse naturali si fa sempre più accanita e violenta, come paventano gli osservatori dei flussi migratori contemporanei? In altre parole, il problema del Sahara è l’eccesso di vuoto o l’eccesso di pieno?

Eccesso di vuoto o l’eccesso di pieno?

L’indecidibilità delle opzioni nasconde una dicotomia soltanto apparente. Entrambe le ipotesi infatti condividono una fondamentale solidarietà di vedute che imposta il ragionamento a partire dalle peculiarità ambientali della regione sahariana per spiegarne le dinamiche politiche in termini naturalistici, abusando di metafore meccaniche o addirittura idrauliche (push and pull factors) dai forti echi coloniali (ungoverned spaces vel terra nullius).

 

Una tale impostazione del problema è fuorviante. Fra il piano delle scienze naturali e quello delle scienze sociali esiste uno iato epistemologico che ci impone di spiegare la politica con la politica. L’osservatore europeo si trova infatti facilmente irretito in un’illusione prospettica che impedisce di guardare da vicino alle specificità politiche del continente africano, e di apprezzare le sue più importanti variabili.

 

Non si tratta neppure di cadere nell’eccesso opposto, e di abbracciare acriticamente una (malintesa) prospettiva culturalista che vorrebbe “l’Africa” irriducibile ai nostri modelli esplicativi, dominio di studio esclusivo dell’antropologo, tanto meglio se gone native in cerca di archetipi mitici.

 

Il Sahara è rimasto ai margini della riconfigurazione territoriale coloniale e post-coloniale. Guardando al grande deserto come a un oceano disseccato, come suggeriva Hegel, notiamo che le capitali degli Stati costieri si trovano tutte lungo le linee del litorale, sia settentrionale – nell’area mediterranea del Nordafrica – sia meridionali – lungo la fascia detta Sahel, che in arabo significa appunto costa, sponda.[1] Le regioni sahariane sono quindi rimaste a lungo ai margini, tanto territoriali quanto politici, dello sviluppo degli Stati di marca weberiana importati dalla colonizzazione europea e sanciti dalle indipendenze della seconda metà del ‘900.

 

Tale assetto ha ulteriormente alimentato la reciproca diffidenza fra le popolazioni “metropolitane” e quelle sahariane, risultante del combinato disposto di tradizioni distinte, sistemi produttivi alternativi, e percezioni di divergenze etniche rimarcate dalla pigmentazione cutanea variabile in funzione della latitudine: presi nel mezzo, i sahariani sono spesso visti come neri in Nordafrica, e come bianchi nel Sahel: comunque come estranei.

 

Non a caso, la toponomastica regionale è un elenco di sineddochi, dove l’assunzione della parte per il tutto traduce in maniera eloquente lo straniamento e lo spaesamento, in senso letterale, delle entità sahariane, che pure spesso coprono la maggior parte della superficie degli Stati regionali: Algeri è più vicina a Londra che al confine Sud dello Stato che ne porta il nome, come se ne fosse banalmente il retroterra; il fiume Niger attraversa solo l’estrema periferia Sud-ovest dell’omonimo Stato; il nome Mali allude a un regno pre-coloniale imperniato nell’estremo meridione dello Stato odierno; e il Nord del Ciad dista diversi giorni di jeep dal lago che dà il nome all’intero Paese.

 

In regioni in cui lo Stato moderno arriva a portare strutture e servizi solo un secolo fa, imponendo la propria legge ma venendo a patti con la tradizione in ragione di esigenze di stabilità, i tentativi assimilazionisti portati avanti dai regimi autoritari della prima ondata di indipendenze, a colpi di sedentarizzazione forzata e deportazioni, hanno ottenuto l’unico risultato di scatenare spinte centrifughe in tutto il bacino sahariano, dal Mali al Ciad, dal Sahara Occidentale al Niger.

 

In tal modo, la constatazione della debole coesione dei nuovi Stati, e la carenza di risorse materiali e simboliche in grado di assicurare la proiezione delle prerogative vestfaliane sulla totalità di territori tanto estesi, hanno imposto nel corso degli anni la progressiva sostituzione del progetto statuale indipendentista e centralizzato – elaborato da élite concentrate nelle capitali – con un contratto sociale informale in grado di accomodare le diverse sensibilità regionali e i relativi centri di potere. Sebbene sia possibile ravvisare una tendenza regionale comune in questo senso, le specificità politiche ed economiche maturate nel frattempo hanno prodotto risultati ed assetti diversi e peculiari in ogni Stato affacciato sul Sahara, a partire da quelli più esposti alle dinamiche di in/sicurezza che investono oggi la regione: il Mali, il Niger e la Libia.

Il Mali

In Mali, il regime autoritario di Moussa Traoré, al potere dal 1968, è travolto nel 1991 da un’insurrezione popolare, a cui dà un contributo sostanziale la rivolta dei Tuareg nel Nord del Paese. Con la fine della Guerra Fredda, nel pieno di quella che verrà globalmente chiamata la ‘terza ondata di democratizzazione’, la nuova costituzione del Mali del 1992 si propone di ricostruire la stabilità del Paese a partire dalla partecipazione e dal decentramento amministrativo.

 

Il nuovo assetto istituzionale, tuttavia, ha finito per perpetuare e consacrare il ruolo dominante delle autorità tradizionali, nella misura in cui i leader delle tribù settentrionali – come Tuareg, Arabi e Peul – sono stati di fatto cooptati nella gestione del potere statuale. Il riconoscimento politico ottenuto in cambio della loro docilità ha garantito ai notabili locali una sostanziale impunità a dispetto del coinvolgimento sempre più evidente in attività extra-legali, fra cui la gestione personalistica dei fondi di aiuto allo sviluppo, il contrabbando, il land-grabbing e l’imposizione di tasse “tradizionali”, di fatto una forma di racket. Una sorta di contratto sociale informale ha quindi cementato l’alleanza fra autorità pubbliche e chefferies tradizionali nell’ambito di reti clientelari capillarmente diffuse, determinando l’ibridazione del neonato regime democratico.

Il Niger

Il Niger esibisce una traiettoria simile. Anche qui il regime militare al potere è stato costretto a capitolare nel 1991 di fronte alla pressione della società civile e alle rivolte dei Tuareg del Nord. Analogamente, anche in Niger il processo di pacificazione e democratizzazione non è stato esente da pratiche redistributive che includono la cooptazione, sebbene – a differenza che in Mali – a beneficiarne siano più spesso gli ex-ribelli che non i leader tribali. A ciò va aggiunta un’allocazione meno squilibrata dei proventi dell’estrazione dell’uranio dalle importanti miniere del Nord, che rappresenta evidentemente una caratteristica peculiare del caso nigerino.

La Libia

Il 1991 costituisce uno spartiacque anche in Libia, sebbene in modo meno vistoso che per il Mali e il Niger. Proprio in quell’anno vengono infatti avanzate le prime accuse di terrorismo internazionale da parte degli Stati Uniti, che porteranno le Nazioni Unite a decretare l’embargo nei confronti del regime di Mu’ammar Gheddafi dall’anno successivo. Il colonnello libico cerca allora sponda presso i vicini africani, facendo leva sui petrodollari accumulati, e ne approfitta per smussare la politica pan-arabista, perseguita con fervore non solo su scala regionale ma anche all’interno della Libia, per favorire l’integrazione delle minoranze etniche berbere e soprattutto tuareg ospitate in Libia, a cui agevola il riconoscimento della cittadinanza.

 

Al di là degli atti simbolici e dei proclami retorici, Gheddafi si assicura la fedeltà delle tribù situate nelle aree periferiche del Paese cooptandole nel dispositivo di difesa, e patrocinando (leggi: controllando) il loro coinvolgimento nei traffici trans-sahariani di benzina, tabacco, droga e migranti. In questo contesto, le ramificazioni tribali diffuse su scala regionale consentono alle comunità protette dal Colonnello di prosperare, e ne garantiranno la fedeltà.

 

Questi esempi illustrano una tendenza più ampia: nei due decenni a cavallo del cambio di secolo, mano a mano che la diffusione di GPS e 4x4 rendono le propaggini desertiche facilmente raggiungibili, l’intera regione sahariana si trova coinvolta in una fitta rete di relazioni clientelari, contemporaneamente politiche e commerciali, che connettono le capitali, poste lungo il ‘litorale sahariano’, alle regioni periferiche del deserto centrale. Queste ultime, a loro volta, si riconnettono alle capitali degli altri Stati regionali al di là del deserto in ragione del differenziale economico fra la fascia mediterranea, cui le rendite petrolifere garantiscono potere d’acquisto e attrattività commerciale, e la fascia saheliana, dove confluiscono i prodotti nord-africani sovvenzionati attraverso un sistema di frontiere deliberatamente permeabili alle reti di scambio tribali e clientelari.

 

In altre parole, la notevole ricchezza pro-capite della Libia (ma un simile ragionamento potrebbe estendersi ragionevolmente a Algeria e Marocco) e la drammatica povertà degli Stati saheliani ‘fanno sistema’, creano un intenso meccanismo di offerta e domanda, ed entrano in risonanza con l’economia mondo lungo le direttrici del traffico regionale e internazionale. A dispetto dell’apparenza di marginalità e inerzia politica, quindi, è proprio nelle regioni sahariane che si estraggono le risorse necessarie a consolidare i contratti sociali informali in grado di assicurare il consenso agli ordini politici ibridi locali: la produzione uranifera, la protezione degli asset petroliferi, la diversione degli aiuti allo sviluppo, e soprattutto l’economia del contrabbando. Si tratta di una soluzione originale al problema della costruzione e dell’integrazione degli stati post-coloniali, che per alcuni anni garantisce una relativa stabilizzazione della regione. Pigramente, gli analisti finiranno per considerare il Sahara una regione geopoliticamente pacific(at)a.

Lo shock del 2011

Tuttavia, nel 2011 una serie concomitante di shock fondamentalmente esogeni determinerà il crollo di questo equilibrio precario. I contratti sociali informali che avevano cementato i blocchi storici nei diversi Stati della regione saranno spazzati via, portando a esasperazioni le contraddizioni inerenti al sistema di governance dello spazio sahariano, e catalizzando una reazione di cui l’instabilità contemporanea è il precipitato ancora instabile.

 

Il regime di Gheddafi è travolto dall’ondata delle rivolte arabe originatesi nei Paesi confinanti, non senza il fondamentale contributo militare delle petromonarchie del Golfo e della Nato. Il crollo della Jamahiriya si ripercuote sul Mali: uomini e armi in rotta dalla Libia – fra cui spiccano i Tuareg rimasti orfani della protezione politica di Tripoli – intercettano le istanze del malcontento locale nei confronti di un regime in cui la pervasività della corruzione in ogni settore della vita pubblica svuota di senso la facciata democratica.

 

Nel corso dei due decenni precedenti, infatti, l’alleanza fra autorità tradizionali e autorità pubbliche maliane ha mortificato l’iniziativa economica e la rappresentanza politica dei nuovi ceti emergenti, determinando una nuova polarizzazione sociale che contrappone le élite ai cosiddetti cadetti sociali, ovvero i segmenti del medesimo gruppo che restano al margine dei meccanismi della distribuzione e della protezione clientelari. È in questa prospettiva che conviene interpretare tanto l’ennesima rivolta dei Tuareg maliani, quanto il golpe a Bamako del 2012, quanto infine – e soprattutto – la progressiva radicalizzazione di segmenti sempre più vasti della popolazione, al Nord come al centro del Paese, esasperati dalla corruzione dei ceti di governo e disillusi delle capacità di rinnovamento del regime sedicente democratico.

 

In questo contesto Il Niger anticipa, riproducendola specularmente, la traiettoria del Mali. Tuttavia, sono soprattutto le oscillazioni spettacolari del prezzo dell’uranio che contribuiscono a corrodere il patto sociale sancito nel 1991-92. Da una parte, il notevole incremento di valore della materia prima negli anni 2000 acuisce gli appetiti degli attori locali, regionali e internazionali, alimentando tanto l’ennesima insurrezione dei Tuareg, quanto il golpe militare che nel 2010 porterà alla deposizione del presidente Mamadou Tandja, reo di aver rimesso in discussione il sostanziale monopolio francese sulle risorse della ex-colonia.

 

D’altra parte, quando il nuovo presidente Mahamadou Issoufou prende il potere nel 2011, sulla base di una nuova costituzione e di una nuova legge elettorale, il disastro di Fukushima fa precipitare il corso mondiale dell’uranio. Issoufou è così costretto a diversificare l’economia del Paese e il cocktail politico alla base del suo consenso, e decide di appoggiarsi alle classi mercantili (e trafficanti) in ascesa. Ne consegue la consacrazione di un inedito blocco storico, e anche in virtù della solidità di questa alleanza il Niger riesce ad assorbire l’onda d’urto della conflagrazione del vicino libico. D’altra parte, la stabilità del regime di Niamey si trova a dipendere sempre più esplicitamente dai desiderata dell’economia del contrabbando trans-sahariano. Negli ultimi anni in effetti il Niger è diventato lo snodo fondamentale del traffico regionale di droghe, armi, oro, medicinali contraffatti e migranti, che connette l’Africa all’Europa e al Medio Oriente.

 Ciò palesa le contraddizioni dell’ambizione di Bruxelles di allineare gli Stati locali alla costruzione di un modello di sicurezza regionale che spinge l’esternalizzazione del confine europeo fin nel cuore del Sahara per isolare il vecchio continente dalle minacce del terrorismo e della migrazione, presuntamente sovrapponibili. In Niger, arginare il traffico di migranti rischia di rimettere in discussione lo status quo, e di minare le fondamenta dell’alleanza sociale che ha consentito al Paese di conseguire una precaria stabilità in una regione in profondo sommovimento.

 

Il Niger è in effetti circondato da ogni lato da Paesi in preda a conflitti interni (non solo Libia e Mali, ma anche Nigeria e Ciad), nei quali l’instabilità favorisce il radicamento di gruppi jihadisti. Per questi ultimi, paradossalmente, la guerra europea al traffico di migranti, portata avanti per il tramite di forze di sicurezza locali tutt’altro che irreprensibili, potrebbe fornire un’ulteriore opportunità di radicamento sociale.

 

L’onda lunga degli sconvolgimenti del 2011, in larga parte importati dalle regioni limitrofe, ha destabilizzato il patto sociale che ha garantito l’ordine ibrido dello spazio sahariano negli ultimi due decenni. Le aspirazioni democratiche di fasce di popolazione sempre più ampie, in senso sia relativo che assoluto, sono entrate in rotta di collisione con le limitate capacità di assorbimento e allocazione delle reti clientelari al potere, la cui legittimità è stata nel frattempo erosa dai profondi mutamenti socio-economici e dalla rapida urbanizzazione (la nascita delle Saharatown).

 

D’altra parte, la proliferazione di armi scatenata dalla crisi libica ha favorito la paramilitarizzazione dello scontro politico e l’ulteriore frammentazione dei centri di potere. In questo contesto, l’intrusione pervasiva di attori esterni alle dinamiche regionali (l’Europa in primis) rischia di promuovere modelli di governance poco coerenti con le esigenze locali, affidandosi a istituzioni delegittimate che potrebbero finire per aggravare, anziché risolvere, le tensioni esistenti.

Le minacce alla stabilità

In prospettiva, al di là delle contingenze di cronaca, è possibile identificare almeno tre fattori che minacciano l’assestamento di equilibri alternativi nel medio periodo: in primo luogo, le popolazioni Tuareg escono grandi sconfitte – ma grandemente armate – dalle ridefinizioni politiche in corso, e rappresentano oggi una tessera particolarmente difficile da incastrare nel mosaico di una soluzione di pace duratura.

 

In secondo luogo, l’incapacità del regime algerino a esprimere un rinnovamento politico desta fondate inquietudini. Il patto sociale forgiato nel sangue della guerra civile degli anni ’90 ha resistito ai venti di cambiamento della primavera araba. E tuttavia la rielezione di Abdelaziz Bouteflika, al quarto mandato dal 1999, è l’eloquente illustrazione di un equilibrio politico congelato di cui la precaria salute del presidente e il crollo dei prezzi del petrolio esibiscono le limitate speranze di vita. Una crisi di transizione nel Paese più grande, più armato e più popoloso della regione potrebbe determinare uno scenario ben peggiore di quello libico odierno. D’altro canto, se una transizione indolore fosse possibile, probabilmente sarebbe già avvenuta.

 

In terzo luogo, la ridefinizione degli assetti politici domestici e regionali apre uno spazio d’azione senza precedenti per l’islamismo politico di marca jihadista, soprattutto al-Qaeda, che nel Sahel è in fase espansiva mentre nel Maghreb è in fase di riorganizzazione, protezione delle proprie forze e attesa dell’opportunità. In questo contesto, le declinazioni più o meno rivoluzionarie di discorsi e pratiche dell’Islam “riformista” (come spesso è designato localmente ciò che in Europa – significativamente – è tacciato di radicalismo) offrono un linguaggio in grado di delegittimare l’autorità delle classi dominanti, e si presentano a tutti gli effetti come una risposta alla domanda locale di porre fine a corruzione e impunità.

 

Il rispetto dei diritti umani fondamentali e la promozione della good governance, insomma, non sono un lusso trascurabile, ma l’essenza di politiche oculate per il contrasto alla cosiddetta radicalizzazione. L’azione esterna dell’Unione europea, tuttavia, sembra orientarsi verso ben altre e meno ambiziose priorità, mostrando una miopia politica di cui rischiamo di pentirci, al di là e al di qua del Sahara.

 
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

 

 


[1] Il Sudan unitario rappresenta ovviamente un’eccezione. Tuttavia, la sua appartenenza alla regione sahariana è controversa, in ragione della collocazione del Paese nel cuore del sistema nilotico orientato longitudinalmente. 

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