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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:08

Autore: Arjun APPADURAI Titolo: Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione Editore: Meltemi, Roma 2005. Come mai il processo di globalizzazione non ha spalancato le porte a un mondo più giusto e pacifico, ma sembra piuttosto aver liberato forze che oscure che in Iugoslavia, in Iraq, nelle repubbliche dell'Asia centrale, in India, in Ruanda hanno prodotto parossismi di violenza quasi inimmaginabili? Perché questa spirale di conflitti identitari invece di attenuarsi si è intensificata, fino alla catastrofe dell'11 settembre, e di lì alle guerre contro l'Afghanistan e l'Iraq? Rispondendo alle critiche di chi riteneva Modernity at Large (London 1996) un approccio troppo ottimistico al fenomeno della globalizzazione, Appadurai individua la novità della violenza odierna nella sua specificità "culturale": «anche se nel corso della storia umana la linea tra "noi" e "loro" è sempre stata sfumata lungo i confini e confusa in caso di vasti territori e grandi numeri, la globalizzazione esaspera queste incertezze e produce un nuovo impulso alla purificazione culturale, mano a mano che un numero crescente di nazioni perde l'illusione della sovranità economica nazionale o del benessere» (p. 11). Ora, proprio questo fatto mostra chiaramente che la violenza su larga scala non è semplicemente la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui viene prodotta l'illusione di identità univocamente definite ed emotivamente coinvolgenti, in parte per attenuare le incertezze sull'identità che i flussi globali producono continuamente. In tal senso, è possibile provare a spiegare l'orrendo fenomeno della violenza etnica: lo storpiamento e la mutilazione dei corpi etnicizzati rappresenta - secondo Appadurai - un disperato tentativo di ristabilire la validità dei marcatori somatici dell'"alterità" di fronte alle incertezze poste dalle etichette dei censimenti, dei mutamenti demografici e di quelli linguistici, ognuno dei quali rende l'affiliazione etnica meno somatica e fisica, e più sociale ed elettiva. In questo scenario, è allora inevitabile che i fenomeni di "meticciato", soprattutto biologico, diventino elementi di possibile scatenamento della violenza: «I matrimoni misti, come quelli che avvengono da tempo in molte aree cosmopolite e nelle città, sono il maggiore ostacolo per una verifica immediata dell'"alterità" etnica. Sono pratiche di questo tipo che pongono le premesse a che il corpo divenga il luogo per risolvere l'incertezza attraverso forme brutali di violazione, investigazione, decostruzione e distruzione» (p. 60). Con questo studio, Appadurai torna a mostrare la sua finezza interpretativa. Vale perciò la pena far emergere il nucleo della sua argomentazione. Appadurai incentra la sua analisi intorno al famoso saggio di Freud sul "narcisismo delle piccole differenze": nella sua originaria formulazione, le "piccole" differenze sono elementi preziosi per la costituzione della soggettività, tratti da salvaguardare con particolare attenzione, dato che permettono di distinguerci dagli altri. La globalizzazione ha deformato questa dinamica identitaria, perché ha confuso il rapporto tra identità cosiddette "di maggioranza" e "di minoranza": infatti, la duttilità dei censimenti e delle costituzioni, i mutamenti ideologici dei concetti di inclusione ed equità, fanno sì che le categorie di maggioranza e minoranza possano facilmente invertirsi di posto. A causa di questa continua oscillazione, le "piccole" differenze possono diventare del tutto inaccettabili, dato che rendono ancora più ambiguo e insidioso il confine tra le due categorie: «la radice dell'odio assoluto contro l'"altro" etnico - conclude allora Appadurai - si situa in quello spazio ridotto che separa condizione di maggioranza dall'idea di completa o totale purezza etnonazionale» (p. 169). È così che nascono le identità "predatrici", ossessionate da un'"ansia di incompletezza" che spinge non più ad un esasperato attaccamento alle "piccole" differenze, ma all'eliminazione della differenza in quanto tale. Come difendersi dal proliferare incontrollato di questi "narcisismi predatori"? Appadurai intravede soltanto un modo: rifiutare l'istanza purificatrice ed essenzializzante che sta alla base di certe ideologie dell'identità. Insomma, sarebbe già qualcosa, secondo Appadurai, mettere in conto il fatto che la nostra identità, qualunque sia, è sempre - in certa misura - incompleta e che questa "incompletezza" non è un difetto cui porre furiosamente rimedio, ma è una condizione umana inevitabile, da accettare e - nei limiti del possibile - da condividere.

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