Le recenti dichiarazioni di Mohammad bin Salman lasciano intendere che l’Arabia Saudita potrebbe avviarsi verso un’era post-wahhabita, caratterizzata dalla limitazione dell’applicazione della sharia e da una riforma del sistema della giustizia saudita

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:12

A fine aprile il principe ereditario Mohammad bin Salman (MBS) ha rilasciato un’intervista alla TV saudita Rotana con l’obbiettivo di fare il punto della situazione cinque anni dopo il lancio della Visione2030, il piano di sviluppo socio-economico pensato per diversificare l’economia del Paese. Inaspettatamente, dopo aver parlato dell’economia del Regno, dei progetti realizzati e di quelli da realizzare nei prossimi anni, l’erede al trono si è dilungato su alcuni aspetti religiosi, in particolare sul ruolo della sharia nello Stato saudita.

 

Ribadito che la Costituzione del Regno è il Corano, come stipula peraltro l’articolo 1 della Legge Fondamentale promulgata nel 1992 da re Fahd, MBS ha fatto alcune importanti precisazioni sulla Sunna, la raccolta di detti e fatti del Profeta Muhammad a cui l’Islam attribuisce valore normativo. Se in teoria la Sunna è la seconda fonte del diritto, inferiore al Corano, nei fatti è la più importante, perché orienta l’interpretazione del Libro sacro islamico e soprattutto perché il Corano contiene, contrariamente a quello che a volte si pensa, solo poche disposizioni giuridiche. Più di un milione sono invece gli hadīth, la gran parte dei quali con ricadute giuridiche. Il gran lavoro dei giuristi è da sempre distinguere, in questa massa di tradizioni, il vero dal falso, per poter derivare le norme solo ed esclusivamente dalla Sunna autentica, un programma su cui in linea di principio concordano quasi tutti i musulmani.

 

Mentre nella maggior parte dei Paesi musulmani la sharia non è più direttamente applicata, pur ispirando il diritto positivo dei singoli Stati, le considerazioni di MBS potrebbero avere dirette ricadute nel contesto saudita, un regno che non dispone di un codice penale e civile e in cui i giudici si pronunciano in alcuni ambiti sulla base della giurisprudenza islamica, con ampi margini di discrezionalità. A questo proposito, MBS ha specificato che nel Regno si deve «applicare una pena solo in presenza di un testo coranico chiaro o di un hadīth mutawātir» ovvero un detto del Profeta dell’Islam trasmesso nei secoli da una serie ininterrotta e numericamente significativa di trasmettitori. Come spiega il principe, questi hadīth sono vincolanti, a differenza invece degli hadīth ahādī (trasmessi cioè da singoli narratori), che lo diventano soltanto in presenza di un versetto coranico corroborante, e degli hadīth khabar (racconti il cui nucleo è identico tra le diverse versioni ma che variano in alcuni dettagli e nella loro formulazione), la cui autenticità è dubbia e che dunque non possono essere invocati come fonti del diritto, pur potendo servire per l’edificazione personale.   

 

Quello a cui fa riferimento MBS è un antico sistema di classificazione in cui il criterio per valutare l’autenticità di un hadīth non è l’affidabilità dei singoli trasmettitori, come nella compilazione delle sei raccolte canoniche sunnite, ma il numero di persone o gruppi che lo hanno trasmesso. Si tratta, se vogliamo, di un criterio probabilistico, storicamente sviluppato soprattutto nella scuola hanafita: più un hadīth è diffuso, più difficile è che sia stato inventato, soprattutto se si tiene conto delle difficoltà di comunicazione tra le varie regioni geografiche nel mondo premoderno.

 

Sottigliezze da giuristi? Non proprio. L’effetto di questo cambiamento epistemologico è notevole: con il criterio “probabilistico” il numero delle tradizioni considerate autentiche e quindi normative si riduce drasticamente da diverse decine di migliaia – le due raccolte di hadīth più autorevoli (i Sahīh di Muslim e al-Bukhārī) comprendono più di 7.500 detti ciascuna – a poche decine o centinaia, secondo che si considerino soltanto gli hadīth trasmessi alla lettera o anche quelli riportati con parole diverse ma con lo stesso significato. In generale, la maggior parte delle tradizioni considerate mutawātir rientrano nell’ambito delle pratiche rituali, trattandosi di detti che regolano la preghiera, la purificazione, il pellegrinaggio, il jihad, la sepoltura, il matrimonio e così via.

 

Una riforma del diritto?

 

Nello specifico, diverse pene tuttora applicate in Arabia Saudita sono prive di fondamento coranico e non sono menzionate in alcun hadīth mutawātir. Prendiamo il caso dell’adulterio. La pena prevista dal Corano per l’adultero celibe e l’adultera nubile sono cento frustate (Cor. 24,2) mentre per gli adulteri sposati è prevista la lapidazione in forza di un detto del Profeta e di un presunto versetto coranico che i giuristi ritengono abrogato nella lettera (e dunque assente dal Corano nella forma in cui è letto oggi da tutti i musulmani), ma tuttora efficace nei suoi effetti legali.

 

Il principio menzionato da MBS consentirebbe di abolire la lapidazione, dal momento che nella Sunna questa pena, tecnicamente, trova fondamento in un detto ahādī, dunque non vincolante. A questo punto rimarrebbe naturalmente il problema della fustigazione, che il principe nell’intervista cerca di risolvere in maniera un po’ rocambolesca. Egli afferma infatti che le norme coraniche devono sempre essere applicate seguendo l’esempio del Profeta. Concretamente ciò significa che se il Corano prescrive chiaramente una pena ma il Profeta non la applicava, la sanzione coranica decade. Partendo da questo presupposto, secondo l’erede al trono la donna adultera non dovrebbe incorrere nella pena prevista dal Corano in virtù di un detto del Profeta secondo il quale Muhammad avrebbe risparmiato il castigo a una donna venuta da lui più volte proclamandosi adultera. Ora, lo hadīth menzionato da MBS non è tra quelli mutawātir e quindi, secondo la logica introdotta da lui stesso, non dovrebbe essere preso in considerazione. E soprattutto, il finale del detto (che il principe non menziona) racconta che la donna da ultimo viene lapidata dopo aver partorito il figlio che portava in grembo.

 

In questo passaggio l’erede al trono finisce quindi per contraddirsi. In effetti, il terreno sul quale si muove è molto accidentato e scivoloso e la situazione è complicata dal fatto che la classificazione degli hadīth è un sapere a pretesa scientifica ma che nei fatti non lo è, dato che gli stessi giuristi, esegeti e teologi musulmani divergono profondamente sulla classificazione delle tradizioni, ciò che genera interpretazioni molto diverse. La stessa questione di quanti e quali siano gli hadīth mutawātir non raccoglie il consenso unanime degli esperti. Per Muhammad ‘Abduh, uno dei padri del riformismo islamico di inizio Novecento, i detti mutawātir si conterebbero sulle dita delle mani, il teologo ed esegeta al-Suyūtī (m. 1505) ne indica 113, mentre il tradizionista e giurista marocchino al-Kattānī (m. 1927) ne annovera 310.

 

Il principio della validità dei soli hadīth mutawātir potrebbe far decadere anche la pena prevista per il consumo di alcol, attualmente sanzionato con la fustigazione (40 o 80 frustate secondo le scuole giuridiche). Questa pena infatti trova fondamento in un detto, non mutawātir, secondo il quale Muhammad avrebbe inflitto 40 frustate con due fruste a un uomo che aveva bevuto del vino. Il Corano dal canto suo vieta esplicitamente il consumo di vino – «opera di Satana» (5,90) – ma non stabilisce un castigo corporale e rimanda il giudizio del peccatore all’aldilà.

 

Lo stesso vale per l’apostasia (ridda) per la quale il Corano non prevede alcun castigo terreno, rimandando la punizione all’aldilà, ma che oggi è sanzionata con la condanna a morte sulla base di due detti, anche in questo caso non mutawātir, che recitano: «Se qualcuno cambia religione, uccidetelo» e «il sangue di un musulmano non è lecito tranne che in tre casi: adulterio tra sposati, taglione e abbandono della religione e della comunità». La questione dell’apostasia in Arabia Saudita in realtà era già stata sollevata a dicembre 2017 dal Centro della guerra intellettuale afferente al ministero della Difesa saudita e preposto a «combattere le radici dell’estremismo e del terrorismo e illustrare i valori e i principi islamici corretti». Riprendendo l’interpretazione, piuttosto diffusa tra i giuristi contemporanei, che equipara l’apostasia al reato di alto tradimento, in una ventina di tweet il centro aveva precisato che l’apostasia, intesa come rinuncia formale all’Islam, doveva essere punita solo qualora fosse assimilabile a un atto pubblico di secessione o ribellione nei confronti della comunità islamica. Nelle intenzioni del centro questa precisazione doveva confutare le interpretazioni jihadiste dell’apostasia, che prescrivono l’uccisione di chiunque abbandoni l’Islam, ma di fatto finiva per legittimare le campagne di arresti condotte da MBS nei confronti dei dissidenti interni, accusati di minare l’ordine pubblico e dividere la comunità.

 

La decisione di rendere vincolanti solo i detti mutawātir potrebbe infine avere delle ripercussioni anche sul divieto, tutt’ora in vigore, di costruire luoghi di culto non islamici in Arabia Saudita. Lo hadīth sul quale si fonda tale divieto («Non possono coesistere due religioni nella penisola arabica») non sembra infatti rientrare nella categoria dei mutawātir. Negli ultimi anni questo problema è stato sollevato più volte: nel 2018 una delegazione di evangelici americani ha incontrato l’erede al trono per discutere della questione e pare che in quell’occasione MBS si sia impegnato a chiedere ai suoi ulema di definire la «penisola arabica», riaprendo di fatto il vecchio dibattito se con questa espressione si debba intendere tutto il Regno saudita o soltanto le città di Mecca e Medina.

 

Oltre alle loro implicazioni pratiche in ambito giuridico, le dichiarazioni di MBS mettono in discussione i fondamenti stessi del wahhabismo, la dottrina ufficiale del Regno, che si fonda proprio sulla centralità della Sunna e sullo studio sistematico delle tradizioni, quelle centinaia di migliaia di hadīth che il principe dice di voler relegare in secondo piano. Nel corso dell’intervista, MBS arriva a relativizzare l’eredità wahhabita del Regno ritorcendo contro di essa il classico argomento dell’idolatria, centrale nell’Islam: alla domanda infatti se segua la scuola di pensiero di Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb, padre fondatore del wahhabismo, MBS specifica che «seguire una scuola o un ulema in particolare equivale a divinizzare gli esseri umani», e rivendica la libertà di ciascuno di praticare autonomamente l’ijtihād, l’interpretazione delle fonti islamiche. Da questo punto di vista, MBS si colloca in una posizione più vicina ai riformisti di inizio Novecento, come Muhammad ‘Abduh e Rashid Rida, che a quella wahhabita. Con la differenza, però, che i riformisti chiedevano anche una maggiore partecipazione popolare allo spazio pubblico, ciò che il principe invece non sembra affatto disposto a concedere.

 

Verso uno Stato post-wahhabita

 

Le dichiarazioni del principe lasciano intravvedere la possibilità di un’Arabia Saudita post-wahhabita. Un Regno non meno autoritario di quanto lo sia ora, uno Stato che continuerà a reprimere la dissidenza, negare la partecipazione allo spazio pubblico e controllare gli organi di stampa, ma in cui l’establishment religioso wahhabita, che ha giocato un ruolo fondamentale nei 250 anni di storia del Regno saudita, sarà sempre più confinato a un ruolo marginale o comunque coinvolto solo nella misura in cui il suo intervento risulterà funzionale al raggiungimento degli obbiettivi fissati dal principe. Questo processo in realtà era già iniziato già nell’aprile 2016, quando la Commissione per la promozione delle virtù e la prevenzione del vizio, più semplicemente nota come polizia religiosa e incaricata di vigilare sul rispetto della sharia nei luoghi pubblici e privati, era stata privata di molte prerogative di cui godeva da decenni.

 

Limitare l’incidenza degli hadīth sulla legislazione saudita è un atto preliminare alla riforma giuridica prospettata da MBS già da alcuni mesi. Prima di rilasciare questa intervista, infatti, il principe aveva annunciato l’intenzione di creare uno statuto personale, un codice penale e un codice civile al fine di limitare la discrezionalità dei giudici e creare le condizioni per attrarre gli investimenti esteri, che al momento pare essere una delle preoccupazioni principali di MBS. Non meno significativo è il momento storico in cui il principe ha annunciato queste riforme: a pochi mesi dall’elezione di Joe Biden, per il quale il rispetto dei diritti umani è una questione prioritaria, e a un anno dalla grave crisi economica innescata dalla pandemia e dal crollo dei prezzi del petrolio, la principale fonte di introiti del Paese. La soluzione a questi problemi passa necessariamente attraverso la riforma strutturale del sistema saudita, che non può prescindere da quella religiosa. Tali riforme sono evidentemente funzionali ai progetti del principe, ma se dovessero essere portate alle estreme conseguenze potrebbero significare una revisione complessiva della dottrina e della giurisprudenza islamica con un netto depotenziamento del ruolo degli hadīth. Per il momento si tratta soltanto di un’intervista, che oggi c’è e domani passa. Saranno i prossimi sviluppi a confermarla o smentirla.

 

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