Da Romania e Israele sono arrivate opere che guardano indietro e non trovano altro che desolazione. Ma se non c’è una tradizione cui appartenere, come si può arrivare ad integrarsi? Così in America ci si interroga sulla persona che bussa alla nostra porta. Per arrivare a domandargli: «Cosa sai della vita e della morte?»

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:51

Da dove si ricomincia quando una guerra – fredda o calda che sia – finisce, quando una guerra inizia, o quando ci si trova nel bel mezzo di una guerra, come accade a Fabrizio del Dongo ne La Certosa di Parma, «non comprendendo un’acca in tutto ciò che gli stava succedendo»? Dove guardare? A cosa? «Devo ricominciare tutto da capo» dice Anica, la ragazza di Belgrado protagonista del film Amore e altri crimini (Ljubav i drugi zloãini), che racconta il desiderio di fuggire da un paese senza tetto né legge, la Serbia, per approdare a un altro, la Russia, messo ancora peggio. «Anch’io» risponde la nonna morente. Non è un problema generazionale, quello della tradizione, della memoria, delle radici su cui fondare una -ripresa. Riguarda tutti e ovunque. Basta dare un’occhiata veloce alle cinematografie emergenti: quelle dei paesi che una volta si chiamavano dell’Est europeo, quelle del Medio Oriente, il cinema indipendente americano. Il mondo pare un paese in transito, dall’Europa all’Asia: un grande paese dove tutto è ancora possibile ma non per molto, non per sempre. Dove non si Combatte più In Romania la guerra, che guerra non è stata, è finita con la condanna a morte del dittatore Nicolae Ceauflescu, il 25 dicembre 1989. Vent’anni fa. E se per le strade rumene si riparte dall’effigie della lupa che allatta Romolo e Remo, per riallacciarsi a una lontana e improbabile tradizione latina, al cinema i registi rumeni provano a ridere sul loro passato prossimo. Ovviamente è un riso amaro fin dal titolo, Racconti dell’età dell’oro (Amintiri din Epoca de Aur), firmato da quattro registi guidati da Cristian Mungiu che nel 2007 aveva portato a casa da Cannes la Palma d’Oro con un piccolo film terribile, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (4 luni, 3 saptamini si 2 zile), dedicato all’aborto di una ragazzina a Bucarest. Per chiuderla col passato – e anche con un presente difficile, quello rappresentato dallo stereotipo dell’immigrato cattivo, denunciato da un altro film rumeno, Francesca, che a Venezia se l’è presa con l’Italia razzista – Mungiu e i suoi rievocano le leggende sorte al tempo della dittatura: i villaggi rimessi a nuovo per le visite dei dirigenti comunisti, i camionisti trafficanti di polli, le foto del gran capo ritoccate ad arte per farlo sembrare più alto vicino al “compagno” d’Estaing. Fuor di metafora, l’argomento è tristissimo: fame, censura, violenze in un paese fisicamente devastato dall’ideologia, dove anche i colombi sono grigi, e pazienza per le parate che li vorrebbero bianchi. Nonostante il tono leggero e autoironico, la nuova libertà si presenta opprimente nel paese più povero d’Europa. «Siamo condannati a essere liberi» scriveva Sartre. Senza una tradizione cui aderire, senza una memoria da ritrovare, e consegnare ai bambini, davvero la libertà pare condanna. Dove la Guerra Infuria Uno sguardo claustrofobico è anche quello che Samuel Maoz, esordiente israeliano premiato a Venezia 2009 per il suo Lebanon, rivolge al passato. Quattro soldatini dentro un carro armato s’inoltrano in un villaggio libanese che l’aviazione israeliana ha ridotto in macerie. Il film è girato alternando i volti dei militari ventenni – l’età che aveva il regista quando si trovò a fare l’artigliere in una guerra che non capiva – alle immagini di una tragedia spiata in soggettiva attraverso il mirino del tank. Il gioco di parole contenuto nel termine inglese to shoot, che significa sparare, e anche girare, diventa la chiave per l’impossibile racconto del conflitto. Come collegare la grande storia del proprio paese al sentimento di impotenza che segna il quotidiano? Un puzzle impossibile da ricomporre, un incubo che si fa linguaggio, proprio come quello ricostruito sotto forma di cartoon, nella passata stagione, da Valzer con Bashir (Waltz With Bashir), il film dove il regista israeliano Ari Folman raccontava la strage di Sabra e Shatila. Due registi giovani che, come ha dichiarato Maoz ricevendo il premio a Venezia, «sono tornati dalla guerra apparentemente sani e salvi», dopo avere però dovuto «imparare a vivere e a sorridere con il dolore». Una condizione analoga a quella che segna la biografia di un loro vicino e coetaneo, il regista palestinese Elia Suleiman, nato a Nazareth, vissuto a Gerusalemme, espatriato a Beyruth, ora a Parigi. Un’ironia surreale permea The Time That Remains, riflessione sulla storia degli arabo-israeliani dal ’48 ad oggi. Un giudizio che, mediato dalla storia bella di una famiglia araba, arriva a profondità inaspettate, sempre espresse attraverso flash fulminanti. Dove la Guerra è Appena Cominciata… Se non ci sono tradizioni cui appartenere, se non c’è qualcosa per cui spendere la libertà, come si fa a parlare di integrazione? Lo ha scritto anche Martin Amis, inglese irriverente, recentemente messo all’indice come razzista per i suoi giudizi sferzanti sul fondamentalismo: «La speranza sta nell’educazione» ha detto. In arrivo c’è una nuova ondata di film sul tema, a cominciare da Crossing Over di Wayne Kramer, dove Harrison Ford è l’agente dell’immigrazione posto di fronte alle storie disperate di chi entra illegalmente negli States, soprattutto a Los Angeles, la città dalle 140 etnie. Ma c’è un altro piccolo film indipendente che non bisogna dimenticare, Gran Torino. Non tanto perché sia passato inosservato, quanto perché il suo significato – oscurato in parte dal mito dell’autore, Clint Eastwood – ¬coglie il cuore del problema più di altri. Da ¬gente con la faccia un po’ così puoi aspettarti di ¬tutto, quando arriva agli ottanta. Anche una -domanda sulla vita e la morte brontolata sputacchiando tabacco. E infatti la domanda arriva a 5’ ¬dall’inizio del film. «Cosa sai tu della vita e ¬della morte?». Si potrebbe anche chiuderla qui e togliersi il cappello davanti al vecchio operaio polacco che la rivolge al pretino irlandese. È la domanda che Pasternak aveva osato rivolgere a Stalin durante un sorprendente colloquio tele¬fonico. E si era sentito chiudere il telefono in ¬faccia. Il prete invece risponde, nel film. Continua a bussare alla porta del vecchio Kowalski. E se all’inizio lo fa solo per obbedire alla ¬promessa fatta a una donna in punto di morte che gli chiede di confessare il marito, poi ritorna ¬perché dietro quel giardino ordinato, quelle persiane socchiuse, c’è qualcosa d’interessante. C’è un uomo. …Dove la Guerra Finisce Gente strana, gli americani. Partono da lontano e se la prendono comoda, prima di arrivare. Sarà che vanno a cavallo anche quando guidano una scintillante Gran Torino del ’72, mitica ammiraglia della Ford. Anche quando vivono a Detroit, così lontana così vicina alle praterie del Texas. Galoppano sonnolenti per giorni e giorni in mezzo al polverone. Ma quando arrivano alla meta, colpiscono al cuore. Così, con ritmo leggero – quasi un ballabile – Eastwood trascina lo spettatore, tra il riso e il pianto, dentro la storia bella di un’educazione sentimentale. Inutile chiedersi chi educhi e chi venga educato, nell’intreccio affettivo che cresce tra un vecchio immigrato in America, che ha speso la giovinezza in Corea a combattere i musi gialli, e gli immigrati dagli occhi a mandorla che, anni dopo, assediano fastidiosi la sua casetta a schiera. La risposta è ovvia: non esiste nessun tipo di educazione reale – a scuola, a casa o in strada – che non comporti un cambiamento da parte di tutti. Questione di preferenza, questione di cuore, l’educazione. Di qui all’epilogo durissimo il passo è breve. Siamo ancora nella prateria, quell’orizzonte infinito, quella polvere che si alza a confondere il bersaglio. Quel dito che punta al cuore, al proprio cuore, e impone silenzio a tutti: perché a volte basta niente, il sacrificio di uno, e la guerra finisce.

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