È giordana, ma si è formata musicalmente a Beirut. Crede fortemente nei classici ed è convinta che l’arte non possa essere separata dalla politica. La canzone che presentiamo qui è un condensato di storia mediorientale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 12:34:10

Macadi Nahhas, soprannominata la “Diva di Petra” e la “madrina del folclore arabo, è un’artista giordana nata nel 1977 ad Amman, ma originaria di Madaba. È figlia di Salem al-Nahhas (a cui dedicherà il suo disco Ilā Sālim), politico e scrittore giordano che la educherà in modo esigente a una cultura raffinata, imprimendole una forma mentis che marcherà profondamente la sua carriera, davvero “indipendente” e “alternativa” nelle sue scelte di qualità senza compromessi.

 

Tutto ha inizio intorno ai vent’anni: la giovane Macadi studia nel dipartimento di inglese dell’Università di Damasco, cantando con il coro ‘al-bāl e il collettivo kullunā sawā; in Giordania, si esibisce al famoso Festival di Jarash con il suo gruppo Al-nagham al-asīl (“La melodia originaria”); in Libano, negli stessi anni, partecipa a una competizione radiofonica con un pezzo di Fayrouz. Queste esperienze la convinceranno a formarsi musicalmente proprio a Beirut, raccogliendo la già importante eredità di dive come Fayrouz e Julia Boutros, spingendosi però un po’ più in là: in linea con questa formazione “panaraba”, Macadi dedicherà i suoi primi due album a rivivificare il patrimonio arabo tradizionale della regione.

 

Proprio il suo disco d’esordio è il frutto di questa decisione coraggiosa, finanziata in parte dal padre e dall’Iraqi Heritage: dare nuova linfa alle “vecchie” canzoni della tradizione irachena. Kān yā mā kān è registrato e prodotto nel 2001, ma vede la luce solo nel 2003/2004, a causa degli eventi che portarono in guerra l’Iraq. All’album partecipa l’Orchestra Nazionale Irachena, diretta da Mohammad Amin Izzat.

 

Allo stesso modo, il suo secondo album KhilKhāl (2006) recupera e riarrangia alcune canzoni folcloristiche arabe (e in particolare giordane) grazie alla collaborazione con diversi musicisti della regione.

 

Macadi non vuole però fossilizzarsi nel ruolo della “cantante folcloristica: nel 2009 produce il terzo album, intitolato Juwā al-ahlām, nato dalla sua esperienza con organizzazioni non-governative impegnate nei campi profughi giordani: un disco che si rivolge in particolare ai bambini e alle loro famiglie. Nel 2014, con Nūr, la musica cambia ancora: è il primo disco in cui la cantante scrive e compone interamente i suoi brani. Infine, nel 2019, l’artista torna con un singolo intitolato Ya khyam (“O tende”), ancora una volta dedicata ai campi profughi della regione, da un testo del poeta siriano Hani Nadeem.

 

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La cantante giordana si definisce giustamente un’artista eclettica, senza compromessi, dal fiero repertorio “panarabo”, e crede fortemente nei “classici” e nella “tradizione”, ossia in quelle canzoni senza tempo che, anche se da lei presentate in chiave più moderna, parlano a tutti poiché scritte per tutti.

 

Ma Makadi ricorda spesso di esser figlia di un politico, e lei stessa si infuoca quando discute di politica, affermando: «L’arte non può essere separata dalla politica […] negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un degrado della scena artistica e culturale araba, risultato del degrado e della pochezza della situazione politica».

 

Per questo motivo, oggi lasciamo stare le sue magnifiche canzoni struggenti (della tradizione o più moderne), i suoi pezzi più folcloristici (giordani, palestinesi o iracheni) i brani “matrimoniali” e i suoi tributi a città famose come Amman o a figure più particolari, come quella del pilota Mu‘ādh al-Kasasbeh.

 

Ci concentriamo piuttosto su una canzone molto particolare. Yā zalām al-sijn (“O buio della prigione”) è una poesia (qui tradotta in inglese e spiegata in modo dettagliato) composta dallo scrittore e poeta siriano Najib al-Rayyes nel 1922, mentre era incarcerato nella prigione dell’isola di Arado, a tre chilometri da Tartus, sulla costa siriana. Al-Rayyes era infatti un attivo oppositore del mandato francese in Siria, un progetto politico che si stava concretizzando in quegli anni, spazzando via il sogno di una Siria indipendente.

 

La poesia fu in seguito musicata e divenne un riferimento “classico” e “senza tempo”, sia nel suo testo che nella sua melodia, per chi ha vissuto storie di ingiustizia e di prigionia sull’altra sponda del Mediterraneo (recentemente è apparsa  nel film 3000 notti di Mai Masri ed è stata recitata dall’attivista del Bahrain Hussain Jawad durante la sua detenzione).

 

Ma da chi fu musicata? La risposta per anni è stata sempre: dal grande Mohamed Flayfel, fondatore del conservatorio libanese, compositore della celeberrima Mawtinī, scopritore di Fayrouz… insomma, uno che ci sapeva fare. In realtà, come ci tengono a sottolineare gli ascoltatori turchi nei commenti al video di YouTube e come spiegato bene in questo articolo, la melodia di questa canzone proviene da una marcia militare ottomana suonata per la prima volta nel 1910, incentrata sull’assedio della città di Plevna in Bulgaria durante la guerra russo-ottomana del 1877-1878 (il nome del compositore turco però è ancora dibattuto!).

 

Insomma, un “classico” ottomano, poi siriano, libanese, giordano e panarabo, interpretato magistralmente da Macadi, un’artista sui generis, come il suo nome di battesimo (che significa “libertà” e la cui storia ci costringerebbe ad andare prima in Nigeria e poi a sfogliare delle poesie di ‘Abd al-Bāsit al-Sūfī). Ma per il classico di oggi, può bastare.

 

Canzone: Yā zalām al-sijn

Artista: Macadi Nahhas

Anno: 2002 [melodia originale: 1910]

Nazionalità: Giordania

 

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

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O buio della prigione[1]

 

O buio della prigione, coprici!

Noi non temiamo il buio

Non v’è altro dopo la notte

se non il levarsi di un’alba gloriosa

 

O rumore di catene, prolunga per me

questa melodia che affligge il mio cuore

Poiché il tuo suono dà senso

al dolore e all’oppressione

 

O buio della prigione, coprici!

Noi non temiamo il buio

Non v’è altro dopo la notte

Se non il levarsi di un’alba gloriosa

 

Non fui mai malvagio

Mai tradì il regime

Bensì l’amore per il mio Paese

dimora nel mio cuore

 

Ci promettemmo l’uno con l’altro

Quel giorno giurammo:

Mai tradiremo la nostra terra

Poiché prendemmo l’amore a nostra religione

 

 

 

يا ظلام السجن

 

يا ظلام السجن خيّم

نحنُ لا نخشى الظلامَ

ليس بعد الليل إلا

فجرُ مجدٍ يتسامى

 

يا رنينَ القيدِ زدني نغمةً تُشجي فؤادي

إن في صوتك معنىً للأسى والاضطهادِ

 

يا ظلام السجن خيّم

نحنُ لا نخشى الظلامَ

ليس بعد الليل إلا

فجرُ مجدٍ يتسامى

 

لم أكن يومًا أثيمًا لم أخن يومًا نظاما

إنما حب بلادي في فؤادي قد أقام

 

وتعاهدنا جميعًا يومَ اقسمنا اليمينَ

لن نخون الأرضَ يومًا واتخذنا الحب دينا

 


[1] Si noti che la versione di Macadi è solo una parte della poesia originale, la quale tra l’altro ha subito delle modifiche nell’arrangiamento musicale. Il termine zalām indica “buio”, “oscurità”, tenebra”, dalla medesima radice del verbo zalama, “agire iniquamente”.

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