Quarto appuntamento della rubrica T-arab con la cantante tunisina Emel Mathlouthi. La sua Kelmiti Horra è stata definita (un po’ frettolosamente) l’“inno della Primavera araba”

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 11:48:29

Ci sono libertà che, letteralmente, parlano e devono parlare da sole. È il caso della libertà di espressione, di manifestazione del pensiero e di stampa, che non hanno bisogno di grandi presentazioni. Dati alla mano, mancano un po’ ovunque nel mondo arabo (e non solo lì, eh…) e la loro richiesta torna ciclicamente nei vari moti di protesta sull’altra sponda mediterranea.

 

Ci sono poi canzoni che parlano da sole. Un po’ per la loro musica, un po’ per il loro testo, un po’ per la loro storia. Kelmti Horra (“la mia parola è libera”, qui in versione “quarantena” con una cinquantina di artisti diversi) è una di queste.

 

È significativo che il testo del brano, scritto dal poeta, romanziere e regista tunisino Amine al-Ghozzi, sia stato composto anni prima della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini. Così come è interessante che a interpretarlo così magistralmente sia stata una musicista tunisina, Emel Mathlouthi, residente in Francia dal 2007 (e ora a New York). Su di lei torneremo più avanti nella nostra rubrica (forse). Per il momento accontentiamoci di sapere che è una giovane cantante che è passata dal gridare per le strade di Tunisi a cantare alla cerimonia del Premio Nobel per la Pace 2015 (assegnato appunto al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino).

 

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Inizialmente non avevo previsto di inserire questa canzone nella rubrica T-arab. Si tratta di un brano molto conosciuto, già tradotto più volte in italiano e, soprattutto, un po’ frettolosamente elevato a “inno della primavera araba”, così come con troppa facilità si è etichettata Emel come una protest singer e una catalyst for change. Giudizi parziali e, a mio parere, limitanti.

 

Oggi prendiamo questo brano per quello che è: una voce potente e straordinariamente precisa, una canzone dagli accordi semplici ma efficaci, quasi marziale, un testo poetico e universale basato sull’anafora più essenziale di tutte, anā “io (sono)”. E soprattutto un grido tristemente attuale.

 

È l’attualità infatti che ci ha convinto a proporvelo. Perché, infine, ci sono persone la cui eredità parla da sola. È questo il caso di Lokman Slim, l’intellettuale libanese assassinato la settimana scorsa, a cui dedichiamo tutta la forza e la bellezza di questa canzone. Non serve aggiungere altro.

 

Buon tarab!

 

Canzone: Kelmti Horra

Artista: Emel Mathlouthi

Data di uscita: 2011

Nazionalità: Tunisia

 

Questa è la versione “celebrativa”, realizzata in occasione della consegna del Nobel per la Pace al Quartetto tunisino per il Dialogo nazionale. La canzone può essere ascoltata anche nella sua versione originale, in quella “intima” o in stile “Joan Baez”.


  

La mia parola è libera

Io sono la persona libera che non ha paura

Io sono il segreto che non muore

Io sono la voce di chi non si piega

Io sono il senso in mezzo al caos

Io sono il diritto degli oppressi

svenduto da questi cani

che tolgono al popolo il pane quotidiano

e sbattono la porta in faccia

al divampare delle idee[1].

 

Io sono la persona libera che non ha paura

Io sono il segreto che non muore

Io sono la voce di chi non si piega

Io sono libero e la mia parola è libera

Io sono libero e la mia parola è libera

Non dimenticarti il prezzo del pane![2]

Non dimenticarti la causa della nostra agonia![3]

Non dimenticarti del maledetto traditore!

 

Io sono la persona libera che non ha paura

Io sono il segreto che non muore

Io sono la voce di chi non si piega

Io sono il segreto della rosa rossa

Di quel rosso amato per tanti anni

il cui profumo, un giorno, è stato sepolto

ma che ora è sbocciato, di fuoco vestito

chiamando a sé tutti gli uomini liberi.

 

Io sono una stella in mezzo alle tenebre

Io sono una spina in gola all’oppressore

Io sono un vento infuocato[4]

Io sono la voce di chi non ha dimenticato

Io sono lo spirito di chi non è morto

Trasformiamo il ferro in argilla

Con la quale costruire un nuovo amore

che diventi uccelli

che diventi case

che diventi una brezza leggera

che diventi pioggia.

 

Io sono le persone libere del mondo intero

Io sono un proiettile

Io sono le persone libere del mondo intero

Io sono un proiettile

 

 

كلمتي حرّة

أنا أحرار ما يخافوش
أنا أسرار ما يموتوش
أنا صوت اللي ما رضخوش
أنا وسط الفوضى معنى

أنا حقّ المظلومين
يفكّوا فيه ناس كلاب
اللي تنهب في قمح الدار
وتسكّر في البيبان
قدّام وهج الأفكار

 

أنا أحرار ما يخافوش
أنا أسرار ما يموتوش
أنا صوت اللي ما رضخوش
أنا حرّ وكلمتي حرّة
أنا حرّ وكلمتي حرّة

ما تنساش حقّ الخبزة
وما تنساش زارع الغُصّة

وما تنساش خاين الويل

 

أنا أحرار ما يخافوش
أنا أسرار ما يموتوش
أنا صوت اللي ما رضخوش
أنا سرّ الوردة الحمرا
اللي عشقوا حُمرتها سنين
اللي دفنوا ريحتها نهار
وخرجت بلحافها النار
تنادي عالأحرار

 

أنا وسط الظلمة نجمة
أنا في حلق الظالم شوكة
أنا ريح لسعتها النار
أنا صوت اللي ما نسيوش
أنا روح اللي ما ماتوش

نصنع من الحديد صلصال
نبني بيه عشقة جديدة
تولّي أطيار
وتولّي ديار
وتولّي نسمة و أمطار

أنا أحرار الدنيا واحد
أنا واحد من كرتوش
أنا أحرار الدنيا واحد
أنا واحد من كرتوش

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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[1] Il sostantivo wahaj indica “ardore”, “calore”, “splendore abbagliante” o il “fulgore” delle idee. Deriva dal verbo wahaja, con il senso di “bruciare”, “divampare”, “ardere”, “sfavillare”.
[2] Si noti il possibile gioco di parole dovuto all’ambivalenza del termine haqq, che può significare al contempo “prezzo” del pane e “diritto” al pane, due termini di una medesima equazione più volte riecheggiata negli slogan delle cosiddette “primavere arabe”.
[3] Zāri‘ al-ghussa, lett. il “coltivatore”, del (nostro, qui sottointeso) “soffocamento”, e per estensione “angustia”, “tormento”, “agonia”.
[4] Las‘a, lett. “morso” o “punto” dal fuoco.

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