Tunisina, fiera delle sue molteplici radici e proiettata verso il mondo, ha fatto della musica una forma di “artivismo” non solo politico, ma contro la mediocrità in ogni sua forma

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 12:42:46

 

Badiaa Bouhrizi Ouerghi è una cantante difficile da presentare brevemente, e il suo percorso personale e artistico in continua evoluzione non facilita il compito: non sorprende leggere che i suoi artisti di riferimento spaziano dalla maliana Oumou Sangaré all’islandese Björk, fino alla specificità palestinese sperimentale di Kamilya Jubran. L’ultima artista tunisina della rubrica T-arab si distingue per un motivo importante: alle “Primavere arabe” è arrivata particolarmente preparata. Anzi, ha contribuito a dissodarne il terreno artistico. Ma facciamo prima un passo indietro.

 

Badiaa nasce nel 1980 in Tunisia, nella provincia di El Kef, alle pendici del Monte Ouargha, nel Nord-Ovest del Paese. Ci tiene a sottolineare le sue origini berbere (chaoui), ricordando come questo gruppo etnico si trovi sia in Algeria sia in Tunisia, segno dunque di identità e appartenenza transnazionali (in una sua recente intervista menziona la Numidia, che arrivò ad estendersi all’incirca dall’attuale Marocco alla Tunisia).

 

Già all’età di sette anni si distingue per la sua voce, solista in un coretto locale, per poi unirsi al gruppo di cantori dello spazio culturale Tahar Haddad, dove si cimenta con stili classici della musica araba, in particolare andalusa (come le muwashshahāt) e più in generale maghrebina (come il ma’lūf).

 

Dopo varie esperienze rock (nel 1988 con i Black Angels, e successivamente con i Dayrib e i Kheprae), si trasferisce a Parigi, per studiare musicologia all’Università di Parigi VIII e continuare la sua carriera artistica. Ma il suo trasferimento non avviene per meri motivi accademici e artistici: Badiaa ha dichiarato di essersene andata perché stanca di essere una ragazza in Tunisia, dove aveva subito ripetutamente molestie sessuali e non si sentiva né libera né al sicuro.

 

Una volta a Parigi, in un viaggio introspettivo, rivendica gradualmente tutte le sue identità: le radici berbere, le influenze africane e mediterranee, il suo essere una donna tunisina emigrata a Parigi e proiettata verso il mondo (compie alcuni viaggi in Centro e Sudamerica).

 

È in quel periodo che Badiaa trova una sua formula musicale propria, che definisce «un belcanto afro-arabo-mediterraneo», autentico e minimalista. I suoi primi brani sono in effetti essenziali (chitarra e voce), ma, in dieci anni, il suo suono si evolve in molte direzioni. Rifiutando etichette come world-music ed ethno-music, Badiaa oggi arricchisce la scena tunisina alternativa con una miscela esplosiva di musica araba tradizionale e classica, sonorità africane, neo-soul, jazz, funk, elettronica e reggae, e ovviamente la sua voce melodica e piena di sentimento. Nome d’arte? Neyssatou o Neysatu, anagramma di Tounsseya, ossia “Tunisina” pronunciato con un accento Amazigh. Lingua utilizzata? Principalmente l’arabo standard, con il quale riesce a esprimere con precisione tutta la sua intensità, ma non disdegna l’arabo colloquiale tunisino, e neppure il tunisino con accento “berbero”.

 

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Da circa quindici anni, dunque, Badiaa non ha paura di cantare, anche se motivi di aver paura ne avrebbe: alcuni suoi concerti sono stati interrotti dalla polizia; il fratello, Khaled Bouhrizi, è un rapper finito in prigione per sette anni, accusato di detenzione di stupefacenti; anche a Parigi, Badiaa ha ricevuto telefonate minacciose. Nonostante ciò, divisa tra le due sponde del Mediterraneo, non ha mai rinunciato a criticare nelle sue canzoni il regime di Ben Ali e fino al 2008 (anno del suo concerto legato alla rivolta di Gafsa) attacca apertamente il Capo di Stato tunisino durante i suoi spettacoli. È a quel punto che le viene proibito di esibirsi nel suo Paese, proprio mentre le sue canzoni cominciano a circolare in maniera più diffusa su internet, mentre i media e la gente iniziano a descriverla come un’artista “impegnata” (multazima). “Esiliatasi” a Londra, non perde tempo, e collabora con la band afrobeat Awalé.

 

Solo nel 2011 riuscirà a salire di nuovo su un palco “arabo”, in Egitto, sull’onda dell’euforia generale delle “Primavere”. Nello stesso anno vince alcuni premi per la sua canzone Ilā Selma, scritta dalla poetessa della resistenza palestinese Fadwa Touqan e dedicata alla scrittrice palestinese Salma Jayyusi. Il brano le vale la borsa di studio di Al Mawred El Thaqafy, con la quale finanzia il suo primo album, Anoujad.

 

Nove anni dopo quel disco, uscito nel 2012, Badiaa ha fatto molta strada: oggi è descritta come la regina della musica underground tunisina e la diva dell’inclusione sociale. Il suo percorso artistico è descritto infatti sulla pagina della Aga Khan Foundation, che nel 2019 ha deciso di assegnarle l’Aga Khan Music Awards per aver usato «il suo talento musicale per promuovere la giustizia sociale e i valori del pluralismo e della democrazia».

 

Oggi è anche tra le protagoniste di un documentario sulle donne tunisine; la si vede esibirsi dai balconi della Cité Internationale des Arts de Paris, dove è stata in residenza artistica; in un live organizzato dall’Unione Europea a Tunisi; in uno spettacolo più intimo nello studio di BalaFeesh ad Amman; nella maratona al femminile di Hiya Live Session (alla quale hanno partecipato anche nostre vecchie conoscenze come Lynn Adib e Felukah); oppure la si può ascoltare nelle sue conferenze universitarie in giro per il mondo.

 

Le canzoni di Badiaa spaziano dalla protesta alla Joan Baez (il brano che parla del fratello in prigione è un esempio) alle cover di Bob Marley in arabo standard, passando di recente per qualcosa di più elettronico e sperimentale. Insomma, dopo un decennio di composizione e produzione musicale, Neysatu ha dimostrato di saper ben destreggiarsi con il suo miscuglio di patrimoni culturali, libera da classificazioni e ancora profondamente parte di un certo attivismo, o meglio, “artivismo” non solo politico, ma contro la mediocrità in ogni sua forma, e in particolare artistica. In un processo che lei stessa ha descritto come «il passaggio dall’arte della liberazione all’arte libera».

 

Vi lascio allora a una delle sue primissime canzoni, Labess (“Tutto bene” o più letteralmente, “Nessun problema”) – che come lei si è evoluta musicalmente nel tempo (da così a così) – e a una citazione dell’artista, che ben accompagna il brano:

 

«Una canzone non è certo una soluzione, né un modo di arrotondare lo stipendio. Non è abbastanza né per pagare il pane quotidiano né per gli studi dei propri figli. Eppure, gridare l’ingiustizia significa rifiutarla, riconoscere la sofferenza dell’altro come propria, offrirgli parole […] soprattutto per rompere il suo isolamento. Canto per portare in alto le parole dei senza voce, ma anche la mia stessa sofferenza. Perché per me l’ingiustizia non è una “leggenda metropolitana”, il ritorno di una dittatura non è una chimera; la corruzione non è una fake news. Sono le mie ferite, come quelle di tutti i miei cari, di coloro che amo e di tutto il mio popolo».

 

Buon tarab!

 

Canzone: Labess

Artista: Badiaa Bouhrizi (Neysatu)

Anno: 2011

Nazionalità: Tunisia

 

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

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Tutto bene

Tutto bene, finché il cavallo scarta, impaurito[1]

Tutto bene, finché i cavalieri restano indifferenti

Tutto bene, finché filano i proiettili e piovono le bombe

Tutto bene

 

Tutto bene, finché le rose sono piene di sangue

Tutto bene, finché la mente è inconsapevole, persa

Tutto bene, finché il gelsomino viene tormentato[2]

Tutto bene

 

Tutto bene, finché chi dovrebbe stare sveglio giace,[3]

e i vili dormono sonni tranquilli[4]

Tutto bene

 

Tutto bene, finché gli avvoltoi neri volteggiano nell’aria

Tutto bene, Tutto bene

 

Tutto bene, finché i germogli di nuove idee non restano altro che pensieri in testa

e le parole, discorsi pronunciati davanti a un bicchiere[5]

Tutto bene

Tutto bene

Tutto bene

Finché il male è radicato.[6]

لا باس

 

لا باس مادام الخيل جافلة

ولا باس ما دام الفرسان غافلة

ولا باس ما دام الرصاص يخيّط والقنابل حافلة

ولا باس

 

لا باس ما دام الورد بالدمّ يفيّع

لا باس مادام البال غافل يضيع

لا باس مادام الياسمين مليّع

لا باس

 

ولا باس ما دام الفايق راقد

والنعاس مكحّل العينين السافلة

ولا باس

 

لا باس ما دام العقبان السود في الأفّام دافلة

ولا باس

لا باس

لا باس مادام النوّار في الراس والكلام في الكاس

لا باس

 

ولا باس مادام العروق في الساس

 


[1] Il verbo jafala indica precisamente lo scartare di lato di un cavallo per paura.

[2] Il gelsomino (yāsmīn) è spesso associato a città e Paesi arabi (si pensi a Damasco, Beirut, etc.) ed è qui riferito certamente alla nazione tunisina.

[3] Rāqid, lett. “sdraiato”, ma anche “assopito”, “dormiente”, “fiacco”, “fermo”.

[4] Lett. “la sonnolenza conforta gli occhi della persona vile”, dove il verbo “confortare” traduce “colui i cui occhi sono tinti di antimonio” (kuhl, ossia il kohl), segno di serenità. La persona vile, nonostante le sue malefatte, dorme dunque sonni tranquilli.

[5] Più poeticamente, “idee luminose”, che “fanno fiorire, fanno crescere” (nuwwār, dalla stessa radice di “luce” e con il senso qui di “fiori” e “fioritura”).

[6] La traduzione di quest’ultima frase non è certa: il termine sās è stato qui considerato asās (base, fondamenta, fondo) mentre ‘urūq dovrebbe tradurre il plurale di “radice”, ma potrebbe anche essere “stelo”, “gambo”, “vena”, “arteria”, o ancora “stirpe”, “ceppo”, “razza”. I mali finora elencati sembrano dunque essere molto ben radicati.

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