Nell’attuale contesto l’educazione manifesta la “crisi del senso”

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Riceviamo molta formazione al comportamento e nessuna alla libertà. La società chiede competenze ed efficienza e in cambio garantisce qualunque tipo di diritto e pretesa. Il tema fondamentale è la concezione dell’uomo.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:36

L'educazione è di sua natura sintesi significativa dell’esperienza e rivelatrice di un’idea antropologica vissuta. Ma nel contesto culturale odierno – ormai globalmente occidentale – l’educazione è divenuta un luogo privilegiato di senso e di crisi, il più delle volte un luogo di crisi del senso. Luogo di senso, perché è nell’educazione che diventa visibile quale sia il significato unitario del vivere anzitutto sociale; l’educazione, infatti, è nel suo insieme trasmissione intergenerazionale di un patrimonio umano, stimato come dotato di valore e di essenziale utilità. Ma anche luogo di crisi, in quanto è oggi universalmente vero che i processi educativi stentano a raggiungere i loro scopi. Fattore di tale difficoltà è per esempio la dislocazione della funzione educativa-formativa in agenzie che non sarebbero deputate a tale scopo e che invece funzionano da sostituti efficaci e incontrollabili, come il sistema massmediatico, i più diversi siti e funzioni della rete informatica, la tifoseria sportiva, la cultura musicale, le più varie aggregazioni giovanili autoreferenziali, ecc… tutte situazioni in cui potenti forme di influenza e di condizionamento si accompagnano a una sostanziale solitudine della libertà dei singoli; in cui, cioè, menti e cuori ricevono molta formazione del comportamento e nessuna educazione della libertà. E rispetto alle quali le agenzie educative tradizionali, famiglia, scuola, comunità religiosa, conservano un ruolo solo settoriale, quando non sono marginalizzate o addirittura messe completamente fuori gioco. Più ampiamente, è facile verificare che le grandi trasformazioni mondiali della globalizzazione tecnologica, in particolare informatica, biotecnologica e finanziaria, tendono di per sé a privilegiare un modello culturale di tipo tecnocratico, che affida il potere reale a potentissime élites e che consegna il mondo e i popoli alla tecnostruttura e alla “società trasparente” della comunicazione e dello spettacolo, rispetto alle quali la tradizione dell’umanesimo occidentale sembra sopravvivere come un nobile residuo di nicchia, a cui dovrebbero ricondursi docilmente anche le grandi tradizioni religiose. In questa (preoccupante, ma realistica) prospettiva l’educazione non ha ragion d’essere se non come formazione adatta al funzionamento di tale mondo tecnocratico, che esige alti livelli di competenza, di efficienza e di creatività tecnica, ma bassi livelli di socialità primaria, di eccentricità ideologica, di visioni d’insieme alternative. In sintesi, una formazione secondo criteri di razionalità tecnoscientifica, che si integrano in modo complementare con forme di emotivismo affettivo, di spontaneismo relazionale, di permissivismo etico generalizzato. Due metà del vivere odierno, quella dell’oggettivismo razionale tecnologico “diurno” e quella del soggettivismo irrazionale “notturno”, che dovrebbero poter convivere mediante un apparato di regole giuridiche che funzionano da mediazione, come progressivo ampliamento dello spazio del permissivismo soggettivo compatibile con il funzionamento della macchina tecnocratica. Espansione compatibile che coincide con l’idea “progressista” dei “diritti civili” o dei “diritti di libertà”, come viene normalmente interpretata la legislazione relativa al divorzio, all’aborto, al pluralismo delle forme famigliari, alla manipolazione genetica, all’eutanasia, ecc. Tutto ciò non è un futuribile letterario (alla Orwell o alla Huxley), ma è un trend in atto in tutto l’Occidente (visibile per chi ha gli occhi per vederlo), di cui una compiuta tecnocrazia non sarebbe che la sua coerente razionalizzazione. Realtà Irriducibile Se le cose sono così orientate, è chiaro che la possibilità di educare va ripensata a partire dal suo significato originario (come è per altro vero, oggi, di ogni rilevante fattore antropologico). Non si tratta, infatti, di migliorare o aggiornare metodi pedagogici, ma di decidere quale siano natura e fine dell’educare stesso; quale sia, appunto il suo significato antropologico. Innanzitutto decidendo se di educazione abbia senso parlare come adattamento del soggetto umano al suo ambiente umano, quindi come perfezionamento cognitivo di competenze e pratico di abilità, oppure se educare, senza nulla togliere a un impegno di perfezionamento operativo, significhi invece aiutare il soggetto all’accesso alla sua stessa umanità e al perfezionamento della sua identità e della sua relazione al mondo. Perché questa alternativa sia consistente è necessario, però, che sia salda la convinzione della realtà irriducibile della soggettività umana. Ma è proprio questo il punto di crisi radicale dell’oggi, in cui un diffuso soggettivismo psicologico si accompagna con un’altrettanto diffusa negazione epistemologica e ontologica dell’essere-soggetto. L’incertezza o la negazione della soggettività – come capace di verità, dotata di libertà e quindi portatrice di una dignità non negoziabile – è il principio dell’antiumanesimo di cui si diceva e l’origine di una incredulità sostanziale quanto alla sensatezza dell’educare. L’educazione non ha a che fare direttamente con l’identità metafisica del soggetto, benché la presupponga essenzialmente, ma si occupa del suo divenire storico, del suo apparire nel mondo, appunto, essendo che l’uomo, in quanto realtà spirituale, non diviene se stesso in modo automatico, ma ha bisogno di altri “chi” in grado di aiutarlo nel suo cammino verso se stesso. L’educazione in quanto educazione della persona, esalta la centralità “singolare” dell’uomo, così preziosa in una società sempre più dominata dall’anonimato della tecnostruttura. Che cosa significa, dunque, educare in quanto relazione antropologica primaria? Qual è il suo oggetto proprio? Ciò a cui propriamente si educa è all’esperienza, al far esperienza, a farla in modo autentico e secondo verità. Vi è esperienza, se si dà unità dell’esperienza, come unità di vissuto, unificato e qualificato dalla coscienza e come unità di senso, cioè come vissuto riferito a un significato in grado di dar senso, cioè di iscrivere in un ordine più vasto tutto il contenuto dell’esperienza. Esperienza, dunque, come sinonimo del vivere consapevole in quanto dotato di senso, fornito di connessione interna e di direzione. Di qui il fatto che l’esperienza non è mai neutra, ma ha sempre “valore”, cioè riguarda l’agente nel suo insieme, come totalità soggettiva in gioco nel suo fare esperienza. Il nesso, poi, tra vissuto e senso è dato dalla libertà, in rapporto alla quale si decide del valore di ciò di cui si fa esperienza.  Nesso Strettissimo Il fare esperienza, però, non è autosufficiente. La capacità di fare esperienza è originaria nel soggetto umano, ma allo stesso tempo ha anche bisogno di essere attivata. Il soggetto deve essere in un certo senso generato alla sua esperienza: l’esperienza in tutta la sua complessità umana ha un essenziale significato generativo: solo l’esperienza suscita esperienza e quindi genera l’uomo alla capacità del suo compierla; solo l’esperienza già in atto suscita esperienza nuova e abilita l’altro uomo a compierla nel suo modo proprio e differente. Per questo nulla è sostituibile alla capacità attivatrice e comunicativa di una sintesi vivente dell’esperienza, che si rivolga ad altri perché questi sia messo in grado di compiere a sua volta la propria. Sotto questo profilo si evidenzia la componente fiduciale del fare esperienza. In ciò si gioca l’inevitabile dialettica del riconoscimento tra soggetti, l’istituirsi della loro identità, il determinarsi della loro libertà, il rischiarsi della loro fiducia. La relazione educativa appartiene a questo universo antropologico, come iniziativa normale e specifica di attivazione, collaborazione e cura della competenza di esperienza, innanzitutto rivolta alle nuove generazioni. Se la generazione è il senso primo della relazione umana, allora vi è un nesso strettissimo tra generazione ed educazione: l’educazione è quell’agire con cui i genitori per primi rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo (G. Angelini) e gli adulti attestano il valore del mondo che consegnano alle generazioni successive (H. Arendt). Così che, al contrario, dove la procreazione non continua nell’atto educativo, si smentisce: il procreare non è il primo atto del generare, bensì un gesto di abbandono. L’educazione, perciò, ha bisogno di avere alla sua base un’esperienza elementare di positività, di relazioni semplici e buone, in cui sia tangibile la stima per l’uomo, la (com)passione per il suo cammino e il suo travaglio, la speranza forte nelle sue risorse; relazione dunque di fiducia creativa. L’accoglienza, che si esercita nella relazione educativa, non può avvenire, perciò, se non alla luce di un senso di sovrabbondanza dell’esistenza; quello per cui si può dire che l’esistenza è «cosa buona». Questo spiega perché le relazioni educative autentiche vissute diventano indelebili e indimenticabili nella vita. E rende ragione, al contrario, del fatto che quando Benedetto XVI ha parlato della “emergenza educativa”, ne ha indicato la «radice» in «una crisi di fiducia nella vita».[1] Si comprende con ciò ancora meglio perché l’educazione sia questione capitale per l’uomo della società tecnologica globalizzata, che ha bisogno di una radice di esperienza vitale per attivare e far crescere la sua umanità, altrimenti minacciata. Un’autentica relazione educativa si stabilisce tra soggetti personali che possono fare appello a un’apertura della mente e del cuore, che è un’apertura d’intelligenza e di desiderio insieme.[2] L’educazione non può non essere educazione dell’intelligenza e all’intelligenza. All’intelligenza, anzitutto, in quanto attivazione delle capacità intellettuali di ascolto, di interrogazione e di comprensione e, quindi, delle capacità razionali di ragionamento e di argomentazione, che evitino il blocco della mente sul caleidoscopio delle informazioni, sull’immaginario virtuale, sulla comunicazione informatica, su una razionalità solo analitica e calcolante, senza nulla togliere all’utilità strumentale di queste cose.  Educare ed educarsi alla razionalità significa avere il senso della verità e nello stesso tempo saper sostare nella condizione dell’incertezza che la complessità e la specificità dei saperi comportano. Proprio il senso della verità aiuta a mantenere il confronto con la problematicità e a sostenere il peso della difficoltà.  Risveglio dell’Affettività L’educazione non può non essere educazione al desiderio e dell’affettività. Non come questione a parte rispetto alla ragione, ma come dimensione sempre attiva in tutto l’arco dell’esperienza. Anche da questo lato si tratta di educare anzitutto al desiderio, risvegliando nell’affettività la sua profondità di desiderio del bene e del bene umano nella sua pienezza, in cui tutte le persone, ciascuna secondo la sua sensibilità, cultura e storia, comunicano. Educazione perciò dell’affettività a regolarsi su questa ampiezza, profondità ed estensione del desiderio umano, contro la tendenza verso un’affettività emotiva strappata dalle radici del desiderio e della sua propria ragionevolezza; affettività dunque episodica ed errabonda, frenetica o depressa, comunque fiaccata nella sua energia propulsiva di tutto l’umano e snervata nella sua capacità di relazione. Un’affettività dunque restituita a se stessa, cioè alla sua capacità di essere legame, in cui identità  e differenza cercano la loro conciliazione,  come nel caso paradigmatico dell’identità-differenza sessuale, e alla sua capacità di amare in modo intenso, stabile, generoso.  L’educazione non può non essere educazione alla libertà e della libertà. Anzitutto nei confronti di una visione dell’uomo che da una parte incentiva ed esaspera la ricerca e la  rivendicazione della libertà, soprattutto a livello individuale, e dall’altra proclama culturalmente il determinismo neuronale, psichico, sociale. Un messaggio contraddittorio, che sembra fatto apposta per motivare una sorta di nevrosi collettiva, lanciata a inseguire l’impossibile, con effetti pesantemente negativi soprattutto in ambito giovanile. Educare alla libertà vuol dire anzitutto non fare discorsi sulla libertà, ma far fare esperienza della libertà, come appello rivolto alla libertà e insieme come una sua messa alla prova nello spazio della relazione educativa. Educare la libertà, poi, significa liberare la libertà dalla disastrosa idea di essere tutta e solo potere di scelta e non anche capacità di adesione al bene, e capacità di relazione con l’altra libertà. Senza la giusta dialettica tra le due forme della libertà, l’esperienza oscilla negativamente tra l’autoritarismo del bene e l’arbitrarietà della volontà. L’educazione della/alla libertà è anche essenzialmente educazione alla relazione tra le libertà ed esperimento della loro convivenza. Per questo un processo educativo vivente è sempre in qualche misura parte di una comunità educante, alla quale anche sempre rinvia. Inoltre, educare alla libertà significa formarne l’attitudine alla socialità secondo le sue virtù (lealtà, iniziativa, servizio, solidarietà, ecc.) e secondo la sua naturale apertura “politica”, locale, nazionale, mondiale. Non è possibile, infatti, educarsi alla libertà senza avvertire il legame che la propria ha con quella degli altri e di tutti gli altri. Da tutto ciò risulta con una certa chiarezza che l’educare implica una struttura antropologica complessa e ricca di senso, preziosa risorsa di trasmissione di ogni autentica cultura, costituita dalla relazione di tradizione – autorità – libertà. In essa l’autorità dell’educatore è funzione di proposta e di coerenza, che fa da mediazione fra libertà e tradizione, tra la capacità di comprensione, di critica e di adesione di chi è oggetto dell’iniziativa educativa e il patrimonio ereditario di saperi e valori, costumi e pratiche che danno contenuto all’educazione e forniscono anche i criteri di valore della funzione dell’autorità.  L’equilibrio interno di questa struttura è decisivo per la qualità dell’impresa educativa stessa. In un contesto socio-culturale come quello contemporaneo, infatti, l’umanesimo pedagogico è minacciato sia da una tendenza a rendere tutto funzionale all’idea di una libertà soggettiva, cioè a un soggettivismo libertario pensato in opposizione al vincolo che i beni del patrimonio della tradizione portano con sé, sia, per reazione a questo, dalla tendenza opposta, che accentua le funzioni della tradizione e dell’autorità a scapito della libertà (in varie forme di tradizionalismo, autoritarismo, fondamentalismo). La relazione educativa, che sia autenticamente generativa di soggettività umana matura, ha bisogno di una saggezza che ricrei continuamente l’equilibrio dinamico tra le sue funzioni fondamentali. Saggezza pratica che è parte integrante del patrimonio di una cultura dell’educazione, di cui è augurabile non spezzare il filo della continuità storica.


[1] Benedetto XVI, Lettera  alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.  [2] Cfr. La sfida  educativa, Laterza, Roma-Bari 2009, cap. 1.  

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