Perché nel corso degli ultimi cinquecento anni le società musulmane non sono riuscite a tenere il passo dell’Occidente e ancora oggi sono in buona parte ostaggio di sottosviluppo e autoritarismo? Ahmet T. Kuru prova a dare una risposta

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:41

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Ahmet T. Kuru, Islam, Authoritarianism and Underdevelopment. A Global and Historical Comparison, Cambridge University Press, New York 2019

 

Perché nel corso degli ultimi cinquecento anni le società musulmane non sono riuscite a tenere il passo dell’Occidente e ancora oggi sono in buona parte ostaggio di sottosviluppo e autoritarismo? La domanda, che da almeno due secoli anima il dibattito – e spesso la polemica – tra studiosi di vario orientamento, accompagna anche Ahmet Kuru, politologo della San Diego State University, da quando una sera del 1989 suo padre Uğur ebbe uno scambio piuttosto acceso con un generale dell’esercito turco sul contributo dei musulmani alla civiltà moderna.

 

Incuriosito dall’accaduto, il giovane Ahmet iniziò ad approfondire personalmente l’argomento, dando inizio a una ricerca che si sarebbe conclusa solo trent’anni più tardi con la pubblicazione del suo Islam, Authoritarianism and Underdevelopment. Il libro prende le distanze in particolare da due approcci dominanti: da un lato quello essenzialista, secondo il quale è l’Islam stesso a impedire l’avanzamento delle società in cui è radicato; dall’altro la teoria della dipendenza, che riconduce i problemi del mondo musulmano allo sfruttamento coloniale di cui esso è stato vittima. La prima tesi è smentita dal fatto che fino all’XI secolo le società musulmane erano più sviluppate e intellettualmente vivaci di quelle europee; la seconda dal successo economico di alcuni Paesi, in particolare quelli dell’Estremo Oriente, a cui non sono stati risparmiati né la dominazione coloniale né l’autoritarismo.

 

Per Kuru la questione è dunque più complessa, e deve tenere conto di altri elementi, ad esempio del fatto che in epoca contemporanea l’abbondanza di idrocarburi ha indotto in molti Paesi a maggioranza musulmana un’economia della rendita e questo ha a sua volta favorito la nascita di sistemi autoritari. Non è questa però la tesi di fondo del libro. Secondo lo studioso turco, autoritarismo e sottosviluppo sono infatti ultimamente riconducibili a due fattori, strettamente interconnessi, che da un millennio zavorrano le società musulmane: l’alleanza tra Stato e ulema e l’assenza di una classe mercantile indipendente dal potere politico.

 

A differenza di quello che sarebbe successo in seguito, nei primi quattro secoli dell’Islam le grandi personalità religiose tendevano a rifiutare la collaborazione con lo Stato, sopportando minacce e persecuzioni pur di non sottomettersi al potere politico. Come ricorda Kuru, questa sorte toccò in particolare ai fondatori delle grandi scuole giuridiche: «Abu Hanifa morì in prigione, Malik fu flagellato, Shafii imprigionato e incatenato, Ibn Hanbal picchiato in prigione e Jafar al-Sadiq morì avvelenato» (p. 72). Per mantenere la propria autonomia, gli esperti religiosi rifiutavano di essere finanziati dallo Stato, dedicandosi personalmente al commercio.

 

Quest’attività era all’epoca molto florida, potendo beneficiare delle condizioni create dall’espansione islamica: «una lingua comune (l’arabo), un sistema condiviso di leggi e la motivazione religiosa a viaggiare (il pellegrinaggio alla Mecca)» (p. 80). Lo stesso profeta dell’Islam, Muhammad, era stato un mercante, e questo conferiva una particolare legittimità religiosa a chi intraprendeva questo mestiere. La prosperità che ne derivò permise e stimolò a sua volta lo sviluppo delle scienze. Indipendenza intellettuale e prosperità dei commerci furono i motori del dinamismo dei primi secoli dell’Islam, e in particolare dell’effervescenza culturale dell’epoca abbaside, quando con i suoi medici, matematici, astronomi, geografi e filosofi, l’impero islamico era all’avanguardia del sapere del tempo.

 

Nello schema proposto da Kuru, quest’ascesa s’interrompe intorno all’anno mille. Il regime economico fondato sul commercio inizia a declinare, lasciando spazio a un sistema feudale fondato sulla rendita fondiaria e sull’assegnazione di terre da parte dello Stato, che comincia a usare sistematicamente questo strumento per remunerare le classi militari. Allo stesso tempo, l’ortodossia sunnita, che andava formandosi in quegli anni, fissò tra i suoi principi l’alleanza tra esperti religiosi e potere politico, anche perché intanto agli ulema venne a mancare la possibilità di salvaguardare attraverso il commercio la propria indipendenza finanziaria. Suggello del connubio tra libro e spada fu l’attribuzione apocrifa a Muhammad della massima di origine persiana “La monarchia e la religione sono gemelli”.

 

La figura che, secondo Kuru, più di altre segna lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo sistema è al-Ghazālī (1058-1111), il cui atteggiamento nei confronti del potere politico è emblematico della traiettoria assunta dal sunnismo. In un primo momento, il grande teologo musulmano ebbe infatti rapporti stretti con i sultani selgiuchidi, che gli affidarono un importante incarico d’insegnamento a Baghdad. Dopo quattro anni al-Ghazālī rinunciò però a questa posizione e, visitando la tomba di Abramo, giurò che non avrebbe mai più accettato il denaro di un governante, per poi tornare a insegnare in una madrasa finanziata dallo Stato alla fine della sua vita. Con la sua opera teologica, inoltre, al-Ghazālī integrò il sufismo all’interno dell’ortodossia sunnita, e allo stesso tempo ne espulse la filosofia e contribuì a legittimare la possibilità di dichiarare apostati, e quindi condannare a morte, i musulmani che deviavano dalle formulazioni dottrinarie del sunnismo.

 

Il triplice processo di militarizzazione del potere politico, emarginazione dei mercanti e asservimento dell’Islam allo Stato continuò nei secoli successivi, sospinto dalla pressione crociata e dalle invasioni mongole. Ne risultò la fine della vivacità commerciale e intellettuale dei musulmani, e quindi l’impossibilità di vedere nascere nelle società islamiche una borghesia simile a quella che avrebbe svolto un ruolo cruciale nel progresso dell’Europa.  

 

Lo sviluppo che fino all’XI secolo aveva caratterizzato il mondo musulmano si rovesciò così in un lento ma inarrestabile declino. Agli studiosi revisionisti che relativizzano la portata di tale decadenza, postulando in particolare una ripresa della civiltà islamica in epoca ottomana, Kuru oppone una lunga e articolata serie di considerazioni: Ibn Khaldūn (1332-1406), il geniale pensatore maghrebino che molti considerano un precursore della sociologia moderna, fu sostanzialmente ignorato dai suoi contemporanei, rappresentando per i musulmani «un’opportunità mancata di rivitalizzare il loro declinante dinamismo intellettuale» (p. 143); la stampa dei libri, determinante per l’alfabetizzazione e quindi per lo sviluppo dell’Europa, faticò non poco a farsi strada nel mondo islamico, tant’è vero che, a causa del veto degli ulema, solo nel 1729 i musulmani poterono ricorrervi in territorio ottomano; anche l’astronomia, un tempo fiore all’occhiello delle scienze islamiche, dovette migrare in Occidente per continuare il suo progresso: intorno agli anni ’80 del Cinquecento, mentre il re di Danimarca patrocinava la costruzione dell’osservatorio di Tycho Brahe, gli ottomani facevano distruggere il loro su richiesta della massima autorità islamica dello Stato, che accusava la struttura di «portare sfortuna» (p. 174).

 

Secondo Kuru, neanche il grande sforzo riformista dell’epoca moderna è riuscito a invertire la rotta, e così molti Paesi musulmani si trovano ancora oggi a fare i conti con i problemi del passato. Il punto di vista del politologo, ribadito a più riprese, è tuttavia netto: la civiltà islamica è in crisi a causa di fattori storici contingenti e non per un difetto genetico dell’Islam. Questa conclusione è sostenuta nel libro da una quantità considerevole di dati provenienti da varie discipline, da un confronto metodico e sistematico con le tesi di altri studiosi e da una stimolante comparazione con altre civiltà.

 

Nonostante il grande valore dell’opera, alcune delle sue posizioni meritano di essere dibattute. In diversi passaggi il libro sembra per esempio far propria una visione tipicamente illuminista, spesso assunta anche da molti riformisti musulmani, che legge il progresso europeo come un percorso di emancipazione della “ragione” dall’autorità della Chiesa. Tale prospettiva tende a valorizzare, anche nell’Islam, i pensatori razionalisti ed eterodossi, considerati un possibile rimedio all’effetto paralizzante delle dottrine religiose “ufficiali”.

 

Ricorrente in questo senso è l’apprezzamento per l’apertura filosofica di Averroè (percepibile anche nel libro di Kuru), contro il dogmatismo di al-Ghazālī. Benché non priva di ragioni, questa lettura non tiene conto di alcuni aspetti decisivi. Nel suo La filosofia nel Medio Evo, per esempio, Étienne Gilson suggerisce esser stato proprio il distanziamento della Chiesa dall’averroismo, sancito dalla condanna del 1277, a significare per l’Europa la liberazione delle menti «dal quadro finito in cui il pensiero greco aveva chiuso l’Universo», aprendo così la strada alla scienza moderna. In questo senso, piuttosto che stabilire una generica opposizione tra il dinamismo della filosofia e delle scienze e il dogmatismo della teologia o della mistica, varrebbe la pena esplorare più a fondo gli esiti a cui conducono i diversi sistemi di pensiero.

 

Per quanto Kuru insista sulla forza delle idee, tuttavia, il suo interesse non si rivolge tanto alle potenzialità e ai limiti dei singoli filoni intellettuali, quanto ai rapporti che essi intrattengono con il potere. Per questo la sua proposta, contenuta nelle ultime righe del volume, è promuovere «sistemi meritocratici a competitivi», in cui «intellettuali creativi» e una «borghesia indipendente» (p. 235) possano controbilanciare l’influenza di ulema e autorità statali. Si nota in filigrana che il termine di paragone di Kuru è la modernità nord-europea di matrice protestante, con il suo forte accento sulla dimensione economica del legame sociale. Ci si può chiedere se, per fondare un sistema autenticamente liberale, prima della concorrenza non venga il riconoscimento della dignità inviolabile della persona.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Michele Brignone, L’alleanza che soffoca il mondo musulmano, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 146-149.

 

Riferimento al formato digitale:

Michele Brignone, L’alleanza che soffoca il mondo musulmano, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/alleanza-che-soffoca-il-mondo-musulmano

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