Poco conosciuto in Occidente, Abdallah Bin Bayyah è una delle personalità musulmane più attive nel contrastare l’ideologia jihadista. La sua opera intellettuale si richiama alla wasatiyya (moderazione) e si fonda su valori umani condivisi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:53

La Dichiarazione di Washington

Tra il 5 e il 7 febbraio 2018 si è tenuto a Washington un importante convegno dal titolo Alliance of Virtue for the Common Good (“Alleanza di virtù per il bene comune”). Ospitato dal Forum for Promoting Peace in Muslim Societies, con sede ad Abu Dhabi, e promosso dal presidente di questa istituzione, Abdallah Bin Bayyah, il convegno ha riunito centinaia di delegati, rappresentanti delle tre religioni abramitiche. Ha infine prodotto un documento in lingua inglese, dal titolo “Alliance of Virtue for the Common Good. The Washington Declaration”. In apertura, questo documento richiama come precedente illustre il patto sottoscritto da Muhammad a Mecca nel 590 d.C. – dunque prima dell’investitura profetica – e da alcuni eminenti capi appartenenti alla grande tribù dei Quraysh. Questo patto, annoverato dalla tradizione islamica tra i quattro della cosiddetta “Era dell’Ignoranza”, mirava a sanare gli odi e la violenza suscitati dai precedenti conflitti intertribali. La tradizione lo ricorda appunto come hilf al-fudūl, “alleanza di virtù”.

 

Memore di questa esperienza, la Dichiarazione di Washington propone

 

una rinnovata alleanza di virtù, di natura globale, aperta a uomini e donne di ogni fede, etnia e nazionalità, e dedicata – come la sua antica omonima – a un’azione congiunta a favore della sostenibilità della pace, della giustizia, della compassione e del reciproco rispetto[1].

 

Questo, in vista di una riconciliazione che vada oltre la mera tolleranza, degli individui e dei governi, operando trasversalmente alle divisioni confessionali. E, soprattutto, riconoscendo che i valori condivisi dai tre monoteismi sono, specie nella contemporaneità, più importanti delle rispettive differenze formali, e che pertanto occorre divulgare e sostenere quelle convinzioni etiche che sono centrali in tutte e tre le tradizioni monoteiste, come la pace, la misericordia, il perdono, la compassione, la giustizia, e non ultima la verità, avversando i tentativi di mistificare o diffamare le diverse culture ed etnie. A tale scopo, la Dichiarazione di Washington chiama con forza

 

tutti i settori, inclusi il servizio pubblico, la religione, gli affari, il mondo accademico, la società civile e le arti, a condividere la responsabilità di incoraggiare la comprensione internazionale e interculturale.

 

La Dichiarazione di Marrakesh

Oltre che con l’antico patto di Mecca, la Dichiarazione di Washington si è espressamente posta in continuità con un convegno ad essa di poco precedente, tenutosi a Marrakesh tra il 25 e il 27 gennaio 2016 sotto gli auspici di Re Mohammed VI e in collaborazione con il Ministero per gli Affari Islamici del Regno del Marocco. Anche allora, l’incontro avvenne per iniziativa di Bin Bayyah, sempre in qualità di presidente del Forum for Promoting Peace in Muslim Societies, ed ebbe anch’esso dimensioni globali, però inter-islamiche; vide infatti la partecipazione di centinaia di esponenti del mondo culturale e politico di tradizione islamica, provenienti da almeno 120 Paesi. I lavori erano dedicati ai diritti delle minoranze religiose presenti nel mondo a maggioranza islamica (huqūq al-aqalliyyāt) e al loro pieno riconoscimento, nonché allo sviluppo di una giurisprudenza radicata sì nella tradizione e nei suoi principi giuridici, ma attenta anche ai cambiamenti globali in atto e fondata su un concetto di cittadinanza inclusivo dei diversi gruppi. I lavori della commissione terminarono con la sottoscrizione comune di un documento noto appunto come “Dichiarazione di Marrakesh”, in arabo I‘lān Marrākush. Questa Dichiarazione si appellava ai valori sciaraitici fondamentali della saggezza, della misericordia, della giustizia e della promozione del bene comune, e, significativamente, insisteva anch’essa sulla necessità di superare la semplice “tolleranza” (tasāmuh) per le religioni e le culture diverse dall’Islam, come pure la nozione di “rispetto” (ihtirām), e chiamava i musulmani alla cooperazione, all’azione condivisa e al reciproco supporto, con l’impegno di ogni realtà – mondo della cultura, dell’arte, l’intera società civile – a operare in base a una “parola comune” (cfr. Cor. 3,64) per la necessaria affermazione dei diritti e delle libertà di tutti, senza costrizione, senza intransigenza fanatica e senza arroganza[2].

 

Il documento terminava con una decisa asserzione: «Non è ammissibile l’impiego della religione per giustificare qualsivoglia rivendicazione lesiva dei diritti delle minoranze religiose nei Paesi musulmani». Come accadrà poi a Washington con “l’alleanza di virtù”, anche allora si fece riferimento a un patto antico, del quale correva l’anniversario dei 1400 anni dell’egira, quella Carta – sahīfa di Medina che alcuni, leggendola come un’espressione di proto-costituzionalismo, designano con il termine di Costituzione.

 

Il Messaggio di Amman

Occorre ricordare che Abdallah Bin Bayyah, promotore di entrambe le dichiarazioni ricordate sopra, quella di Marrakesh (2016) e quella di Washington (2018), era stato anni prima tra i più convinti firmatari di un altro documento capitale, la Risālat ‘Ammān o “Messaggio di Amman”[3], siglato nel luglio 2006, nel quale duecento tra i più accreditati dotti musulmani concordarono sulla definizione di musulmano, affermando la legittimità di otto scuole di pensiero islamiche: le quattro scuole giuridiche sunnite, le scuole sciite degli ja‘fariti e degli zayditi, gli ibaditi e gli zahiriti.

 

In seconda istanza, il Messaggio di Amman proclamava il divieto di anatema o takfīr contro chiunque aderisca alla scuola teologica ash‘arita, oppure al sufismo “vero” (haqīqī), oppure al pensiero salafita “sano” o “autentico” (sahīh). A questo proposito, gli estensori del Messaggio ebbero cura di illuminare la bontà della differenziazione interna, evocando il noto detto profetico sulla misericordia divina che sta a capo delle divergenze intra-islamiche.

 

Si dedicarono infine a un altro argomento capitale, cioè la definizione di muftī o “giureconsulto autorizzato a rilasciare una fatwā”: per essere legittimamente riconosciuto tale dichiararono gli estensori del Messaggio di Amman il muftī deve possedere le qualifiche, personali e intellettuali, richieste dalla scuola giuridica alla quale afferisce; deve adottare la metodologia normalmente in uso tra le scuole accreditate; e non può reclamare un ijtihād (ragionamento giuridico indipendente) privo di vincoli e limiti, né creare una nuova scuola giuridica o rilasciare una fatwā che possa condurre i musulmani oltre i principi sciaraitici e oltre la tradizione delle scuole che a quei principi si richiamano.

 

Il documento terminava con l’invito a diffondere ampiamente le proprie conclusioni e direttive, inserendole nei curricula degli imam e nei sermoni delle moschee; e si appoggiava per questo a un passo coranico, nella sura delle Donne, dove è detto che

 

[…] nei colloqui segreti non c’è alcun bene, solo se qualcuno invita a fare la carità o una buona azione oppure a beneficare degli uomini, e a chi lo farà per desiderio di compiacere Dio daremo una ricompensa enorme (Cor. 4,114)[4].

 

La figura di Abdallah Bin Bayyah

Bin Bayyah è dunque un personaggio di grande spicco nel panorama islamico contemporaneo. Nato nel 1935 a Timbedra[5], nella parte sud-orientale della Mauritania non lontano dal confine con il Mali, si è formato nei diversi campi dell’istruzione islamica presso i principali istituti culturali del suo Paese e a Tunisi. In seguito, ha rapidamente ottenuto numerosi incarichi istituzionali in patria, tra i quali la vice-Presidenza della Repubblica e i ministeri dell’Istruzione, delle Risorse umane e della Giustizia. Nel 1977 si è trasferito negli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi, come Presidente del tribunale penale della città. Sempre ad Abu Dhabi, è stato successivamente presidente della Corte d’Appello, presidente della Corte sciaraitica e, fino al pensionamento avvenuto nel 1999, vice-Presidente del Dipartimento di giurisdizione religiosa, il più alto grado concesso dall’ordinamento emiratino a chi non abbia la cittadinanza del Paese. Sempre negli Emirati, ha fondato la Conferenza Islamica per la Biografia del Profeta, ed è membro dei Consigli di sorveglianza per la Banca Islamica e per la Mezzaluna Rossa. Al di fuori degli Emirati, ricopre a tutt’oggi, e fin dagli anni ’80, la docenza nell’Università “Re ‘Abd al-‘Azīz” di Gedda, in Arabia Saudita.

 

Bin Bayyah compare inoltre con un ruolo rilevante all’interno delle più prestigiose istituzioni mondiali – dalla Royal Aal al-Bayt Institute for Islamic Thought di Amman, al Muslim League’s International High Council of Mosques di Mecca, dallo European Research & Fatwa Council di Dublino, al network Religions for Peace di New York. È fondatore e presidente del Global Centre for Renewal and Guidance con sede a Londra; figura nel comitato direttivo del Maqasid Research Centre, nuovamente nella capitale britannica; ed è Membro della International Fiqh Academy dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC). L’International Union of Muslim Scholars (al-Ittihād al-‘ālamī li-‘ulamā’ al-muslimīn, IUMS), presieduta da Yūsuf al-Qaradāwī (n. 1926) e con sede in Qatar, lo ha visto come membro dalla sua fondazione nel 2004, fino al 2014, quando presentò le dimissioni da vice-Presidente in seguito a divergenze di vedute con lo stesso al-Qaradāwī[6].

 

La normalizzazione della giurisprudenza islamica

Dal 26 giugno 2018 Bin Bayyah è presidente di un nuovo Consiglio, dedicato al rilascio di responsi giuridici o fatwe conformi alla sharī‘a (Majlis al-imārāt li-l-iftā’ al-shar‘ī), nato allo scopo di istituzionalizzare e normalizzare il sistema della giurisprudenza islamica; di avversare i responsi di ispirazione estremista e terrorista; e di arginare, di conseguenza, la diffamazione dell’Islam. Lo stesso Bin Bayyah ha prodotto un discorso inaugurale molto dotto e letterariamente pregevole, di grande interesse teoretico, su cui vale la pena di soffermarsi. Ecco, qui di seguito, i suoi contenuti per sommi capi.

 

Il discorso si apre richiamando l’importanza capitale dell’istituto dell’iftā e il peso che il suo cultore – il muftī – possiede nella società islamica. I pareri giuridici distorti e non ufficializzati sono vere e proprie armi nelle mani dei terroristi, perché spalancano la strada alle ideologie estremiste e alimentano odio, violenza e distruzione, nel mondo islamico come tra le minoranze sparse per il mondo; occorre dunque rispondere con le stesse armi, quelle del lavoro giurisprudenziale. È un compito urgente che chiama in causa il potere politico, il quale, utilizzando lo strumento del responso giuridico, può prevenire la cultura dell’odio e immunizzare le varie componenti della società.

 

L’istituto dell’iftā ha lo scopo di calare le disposizioni della sharī‘a nella realtà della vita umana; ciò significa da un lato che il dovere del muftī è quello di mantenere saldi e vitali tra i suoi contemporanei gli obbiettivi della Legge, e dall’altro che la sua attività non può che essere strettamente collegata al bene, anche materiale, della gente nella sua epoca. La necessità di rapportare l’emissione di responsi alla realtà concomitante ha precedenti illustri: si pensi all’epoca del Profeta e dei suoi Compagni, e soprattutto ai Califfi ben guidati (632-661), i quali dovettero fronteggiare rapidi mutamenti e, consapevoli appunto dell’impatto della realtà sulla visione giurisprudenziale e del necessario processo di adeguamento nell’applicazione della Legge, impiegarono l’iftā per scongiurare il pericolo della secessione intracomunitaria (fitna).

La comprensione attenta della realtà presente, in tutti i suoi particolari, è imprescindibile sia per il muftī sia per il governante affinché essi possano rispettivamente sentenziare e governare. E poiché la realtà presente altro non è che l’uomo nella sua vita quotidiana, la stessa attività del muftī non può prescindere dal contesto sociale.

 

Compito del muftī è quindi mediare tra i testi fondativi e la società in cui opera; pertanto egli deve saper soppesare con esattezza la realtà che lo circonda. A tale scopo, si gioverà di cinque parametri, fondati rispettivamente sulla lingua, la consuetudine, la sensibilità, la condizione intellettuale e quella naturale (lughawiyya, urfiyya, hissiyya, ‘aqliyya, tabīiyya). A questi criteri vanno aggiunti: la valutazione di quel che giova ovvero nuoce alla comunità (al-masālih wa al-mafāsid); la prosperità economica; e gli eventuali stati di necessità o di costrizione che rendono lecito ciò che normalmente è proibito (hājāt, darūrāt).

 

Sempre a proposito dell’attività giurisprudenziale, il discorso di Bin Bayyah richiama un elemento portante del suo pensiero giuridico, che è quello della “moderazione”, o meglio “medietà”, in arabo wasatiyya[7]. Egli osserva che l’ideale di equilibrio (i‘tidāl) è apprezzato da ogni uomo, qualunque sia la sua tradizione culturale; quanto ai musulmani in particolare, e specialmente negli Emirati Arabi Uniti, questo ideale coincide appunto con la wasatiyya, che è la lontananza dagli eccessi. Essa rappresenta il metodo islamico per eccellenza, la “bilancia sciaraitica” (al-mīzān al-sharī) in virtù della quale l’Islam, così come esso realmente è nei suoi valori e nell’interazione con gli altri uomini, concorre con le altre civiltà mondiali alla costruzione di ciò che è umano, condiviso e comune.

 

Moderazione, dunque, nei responsi giuridici come nelle opinioni personali: il muftī moderato o mediano è colui che non stimola intransigenza, non affligge la gente imponendo ciò che è evitabile, ma nemmeno consente ogni cosa. Riassumendone le caratteristiche, la prima, per Bin Bayyah, è la cultura religiosa (ilm); la seconda è la conoscenza della società reale affinché il responso sia ad essa adeguato; e la terza è la capacità di prevedere l’effetto futuro del parere espresso, valutando obbiettivamente benefici e svantaggi.

 

Il muftī moderato deve inoltre possedere alcune qualità personali in grado di mantenerlo sulla retta via: dottrina religiosa, un solido senso della giustizia, equanimità, e infine ragionevolezza. Nel corretto esercizio del suo lavoro, il muftī necessita poi di alcuni strumenti di misurazione che lo aiutino a non lasciarsi perturbare nel giudizio; tra questi: l’attenta valutazione degli obblighi e delle interdizioni, i quali non possiedono pari peso tra loro; le diverse condizioni dei destinatari del suo responso giuridico; le ripercussioni del responso sullo stato attuale delle cose (al-hāl wa-l-ma’l); il diverso peso del particolare e del generale, nonché del bene comune se individuato alla luce della ragione oppure della tradizione testuale (aql, naql). E ancora, il muftī deve considerare quel che spetta a Dio e quel che spetta all’uomo; e la dialettica tra intenzione ed esito delle azioni.

 

Bin Bayyah e i valori umani condivisi

Autore prolifico[8], Bin Bayyah si è dedicato specialmente alle discipline giuridiche, principalmente ma non unicamente secondo la scuola malikita. Tra le sue pubblicazioni più note al proposito, La prevenzione del danno e le sue applicazioni nelle transazioni finanziarie, pubblicato nel 1998 e dedicato specialmente alla finanza islamica[9]; I rapporti tra gli obbiettivi della sharī‘a e i principî del diritto, del 2006[10]; Per l’affermazione di un diritto della realtà attuale, del 2014[11]; e soprattutto i testi dedicati al cosiddetto diritto delle minoranze [musulmane] (fiqh al-aqalliyyāt)[12], primo tra i quali il voluminoso Il lavoro giurisprudenziale e il diritto delle minoranze, pubblicato nel 2007[13] ma risalente nei suoi contenuti al 1990[14].

 

Come già detto, Bin Bayyah si muove soprattutto nel campo del diritto, ma la sua attività intellettuale ha un respiro più ampio. Basta pensare a Terrorismo: diagnosi e soluzioni del 2005[15], oppure, tra le altre cose, a Responsi speculativi (in arabo Fatāwā fikriyya), pubblicato a Gedda nel 2000[16], dove si raccolgono testi di conferenze e seminari tenuti prevalentemente nei Paesi occidentali, ma anche in Arabia Saudita, dedicati a temi sintomatici quali, per esempio, le convergenze e le divergenze tra l’accezione comune di democrazia e l’istituto islamico della shūrā o consultazione (cfr. Cor. 3,159); la crisi e la confusione concettuale che paralizzano le società islamiche, situazione definibile perfino come fitna o sedizione; e i “valori condivisi” (al-qiyam al-mushtaraka).

 

A conclusione di questa breve panoramica sulla figura di Bin Bayyah, sembra interessante soffermarsi sulla sua riflessione attorno alla comunanza dei valori umani, percorrendo in estrema sintesi l’intervento appena ricordato e pubblicato in Fatāwā fikriyya[17]. Il discorso, di taglio filosofico e giuridico a un tempo, muove dalla domanda sulla possibilità o meno di assumere i valori etici quali principi condivisi unanimemente, e quindi come una base su cui costruire nel mondo la mutua comprensione, la vicinanza reciproca e l’armonia. La discussione si inaugura con la definizione di “valore” (qīma), nel senso comune del termine – ciò che conferisce pregio a una cosa o fa sì che una cosa presenti un beneficio[18] – e in accezione tecnica – i valori sono quei principi morali (al-mabādī’ al-khuluqiyya) che si lodano e si considerano un bene, mentre i loro contrari sono biasimati e considerati un male. Questi principi sono definibili come “caratteriali”, considerato che “caratteri” (akhlāq, il nome arabo per “etica” o “morale”) indica le peculiarità primarie dell’anima, e anche, secondo alcuni, i comportamenti che esse dettano all’individuo.

 

Bin Bayyah procede osservando che esistono dei valori fondati sulle consuetudini e abitudini, o sulla religione; si tratta allora di valori comuni, ma relativamente, perché sono riconosciuti tali solo all’interno di una data società. Accanto a questi, esistono però altri valori che sono comuni universalmente e riconosciuti dall’umanità intera. Alla base di quest’ultimo assunto c’è ovviamente il riconoscimento del “bene” (khayr) – quel bene sui cui si regge la bontà stessa dei valori – non come relativo a un individuo o a una determinata categoria di persone, ma a sua volta come assoluto e generale (mutlaq, āmm).

 

Dopo aver esposto gli argomenti degli “assolutisti” e dei “relativisti”, Bin Bayyah passa alla posizione dell’Islam: su basi scritturali, questa cultura religiosa riconosce il valore dell’assoluta uguaglianza (al-musāwāt al-mutlaqa) tra gli uomini[19]; esso riconosce inoltre, sempre in base al dato di tradizione, che l’impulso al bene, alla fede e alla verità è universale, perché attiene alla “natura prima” (fitra) dell’essere umano (cfr. Cor. 30,30). Dal piano tradizionale a quello razionale: l’esistenza di valori assoluti e universalmente condivisi è evidente all’intelligenza ed è provata altresì dall’argomento linguistico, giacché ogni intelletto e ogni lingua riconoscono la positività di termini quali giustizia, sincerità, libertà, tolleranza o lealtà (adl, sidq, hurriyya, tasāmuh, wafā’) e riconoscono per converso la negatività di termini quali ingiustizia, colpa, menzogna, intolleranza, slealtà o tradimento (jawr, zulm, kidhb, taassub, khiyāna, ghadr).

 

In conclusione, insegna Bin Bayyah, è possibile affermare, su basi tanto scritturali quanto razionali, che i valori condivisi esistono. Tuttavia

 

Il livello minimo per la convivenza umana non sta solo nel riconoscimento dei diritti umani, ma anche nel riconoscimento dei valori della moralità (qiyam al-akhlāq al-karīma), come l’affetto, la misericordia, l’altruismo e l’aiuto (ra’fa, rahma, īthār, musā‘ada) prestato a chi ne ha bisogno, senza guardare alla razza, alla religione o alle origini geografiche. Questo consente di dare alla parola “umanità” un significato nuovo.

 

A questo punto Bin Bayyah insiste sull’amore (hubb), un valore tanto bello quanto condiviso[20], perché ogni uomo ama essere amato, mentre è difficile trovare chi sia felice d’essere odiato dagli altri; e afferma che, dopo l’amore in se stesso, il valore più alto, autentica chiave per risolvere i problemi del mondo, è l’amore per la differenza, quest’ultima vista come un arricchimento, e come la base per eccellenza su cui costruire il “composto umano” (al-markab al-insānī). Disporre di un “codice della virtù” (qānūn al-fadīla) accanto al “codice dei diritti dell’uomo” consente di gettare le basi per i valori comuni e di trasformare la differenza in solidarietà e l’ostilità in affetto; è quel che afferma il Corano nella sura dei Chiari Precisi: «Tu respingi il male con un bene maggiore, e il nemico sarà per te un amico sincero» (41,33). Il codice morale (qānūn akhlāqī) dettato dal Corano è appunto quello della bontà (ihsān), la quale porta bontà, e dell’amore che genera amore, della generosità che induce generosità, insomma del bene (khayr) che chiama al bene.

 

Quindi, la grande questione umanitaria risiede per Bin Bayyah nel convincere gli altri a fare del bene. E qui occorre impiegare la persuasione (iqnā) e non la forza. Anziché guardare all’odio e alla violenza e sprecare l’energia e il coraggio dei giovani in guerre e operazioni suicide, occorre trarre ispirazione nei valori della tolleranza e indirizzare i giovani alla creatività e agli interessi collettivi, e non costringerli a combattere o a morire da suicidi.

 

Bin Bayyah conclude il dotto e lucido intervento chiamando i suoi interlocutori a quelli che ritiene tre obbiettivi capitali:

 

Il primo è fornire ai cittadini europei e in particolare ai giovani musulmani delle lezioni convincenti sui valori, lezioni che li trattengano una volta per tutte dalla follia del terrorismo e del crimine.

Il secondo è invitare le parti occidentali coinvolte a concedere ai musulmani i loro diritti, in particolare i diritti di ordine culturale (al-ḥuqūq al-thaqāfiyya), affinché i musulmani, nelle loro peculiarità (khasā’is), siano una componente efficace della società europea, e non confliggano con essa nelle sue direttive fondamentali.

Il terzo è invitare gli occidentali a riconsiderare il rapporto con il mondo islamico alla luce dei valori, così da raggiungere una convivenza più felice per tutti, perché più etica, più intelligente e generosa.

 

 

Note

[1] La traduzione italiana, che riporto qui e in seguito con qualche lieve modifica, è a cura della Co.Re.Is. (Comunità Religiosa Islamica Italiana), in http://www.coreis.it/wp/wp-content/uploads/2018/02/Dichiarazione-di-Washington.pdf (24 settembre 2018).

 

[2] http://www.marrakeshdeclaration.org/index.html, versione araba, in particolare art. 19 (24 settembre 2018). Esistono traduzioni ufficiali in diverse lingue occidentali (inglese, francese, olandese e italiano) che risultano però ampiamente ridotte e non sempre del tutto aderenti all’originale.

 

[3] Cfr. http://ammanmessage.com/?lang=ar (24 settembre 2018). La versione inglese, non sempre aderente all’originale arabo, è disponibile in https://bit.ly/2NgimcC (24 settembre 2018).

 

[4] Qui e in seguito la traduzione dei passi coranici è mia.

 

[5] Le notizie bio-biografiche che seguono sono tratte specialmente dal sito ufficiale http://binbayyah.net/arabic/archives/1417 (24 settembre 2018). Vedi anche Sarah Albrecht in Territoriality in Contemporary Islamic Legal Discourse on Muslims in the West. Dār al-Islām Revisited, Brill, Leiden 2018, pp. 171-174.

 

[6] Relativamente alle “primavere arabe” e all’eventuale impiego di azioni violente. Così Sarah Albrecht in Territoriality in Contemporary Islamic Legal Discourse, p. 172 e nota 21.

 

[7] E questo è un grande punto di contatto con il pensiero di al-Qaradāwī. Sull’ideale della wasatiyya mi permetto di rimandare al mio Medietà e facilitazione. Note a margine di alcune fonti arabe islamiche contemporanee, «Annali di Ca’ Foscari», nuova serie orientale, 53 (2017), pp. 5-24, e alla bibliografia lì contenuta. Questo saggio è stato realizzato con il contributo del progetto “Non un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca” (2016), promosso da Fondazione Oasis.

 

[8] Le monografie principali sono scaricabili in http://binbayyah.net/arabic/downloadbooks (24 settembre 2018).

 

[9] Sadd al-dharā‘ī wa-tatbiqātuhu fī majāl al-mu‘āmalāt, Al-ma‘had al-islāmī li-l-buhūth wa-l-tadrīb – Al-bank al-islāmī li-l-tanmiya (Islamic Research and Training Institute – Islamic Bank for Development), Judda 1998.

 

[10] ‘Alāqat maqāsid al-sharī‘a bi-usūl al-fiqh, Al-Maqasid Research Centre in the Philosophy of Islamic Law – Al-Furqan Islamic Heritage Foundation, London 2006; 3a ed. 2013.

 

[11] Tanbīh al-marāji‘ ‘alā ta’sīl fiqh al-wāqi‘, Dār al-tajdīd li-l-nashr wa-l-tawzī‘, al-Riyād 2014.

 

[12] Sul “diritto delle minoranze” rimando in particolare a Tauseef Ahmad Parray, The Legal Methodology of “Fiqh al-Aqalliyyat” and its Critics: An Analytical Study, «Journal of Muslim Minority Affairs» (Aligarh Muslim University), 32/1(March 2012), pp. 88-107.

 

[13] Dār al-minhāj, Bayrūt/Judda 2007.

 

[14] Così Albrecht in Territoriality in Contemporary Islamic Legal Discourse, p. 173.

 

[15] Al-irhāb. Al-tashkhīs wa-l-hulūl, Dār al-‘ubaykān, al-Riyād 2005.

 

[16] Fatāwā fikriyya, Dār al-andalus al-khadrā’, Judda 2000. Abstract disponibile in http://binbayyah.net/arabic/archives/55 (24 settembre 2018).

 

[17] Questo intervento si trova in Fatāwā fikriyya, cap. III, pp. 87-106, ed è disponibile in http://binbayyah.net/arabic/archives/148 (24 settembre 2018). A sua volta molto dotto, si appoggia a diverse citazioni: da al-Tirmidhī a Cartesio, dal riformista egiziano Ahmad Amīn (m. 1954) al filosofo americano contemporaneo Hunter Mead, ad altri.

 

[18] L’autore cita qui due passi coranici: 6,161 e 4,5.

 

[19] Tra i passi coranici citati, Corano 49,13, dove si dichiara la creazione dell’umanità a partire dai medesimi progenitori – e ad alcuni detti profetici – ad esempio il noto: «Uomini, il vostro Signore è uno, il vostro padre è uno, tutti siete figli di Adamo che proveniva dalla terra, e il migliore di voi presso Dio è chi tra voi ha più timore di Lui (taqwā)». Tra i detti profetici: «Nessun arabo è meglio di un non-arabo o un non-arabo di un arabo, nessun rosso è meglio di un bianco o un bianco di un rosso, per altra cosa che non sia il timore di Dio». Il detto è riportato da Ibn Hanbal (m. 855), al-Bayhaqī (m. 1066) e Abū Nu‘aym al-Isfahānī (m. 1038).

Si veda ad esempio http://www.ahlalhdeeth.com/vb/showthread.php?p=61303#post61303.

 

[20] Si sofferma a questo proposito sulla “regola d’oro” nella sua caratteristica formulazione islamica, sulla quale mi permetto di rimandare al mio La règle d’or, in Josiane Boulad-Ayub, Mario Cazzaniga (a cura di), Traces de l’autre, ETS, Pise – Librairie philosophique J. Vrin, Paris, 2004, pp. 247-260.

 

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