Dall'ottavo al decimo secolo il pensiero musulmano affronta in maniera sempre più approfondita il rapporto tra la rivelazione e la struttura razionale dell'intelletto. L'opera dell'andaluso Ibn 'Abd Rabbih si prefigge di comporre in armonia questi due elementi.

Questo articolo è pubblicato in Oasis 5. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:49

La ragione è un'antica scoperta greca, nel senso che sono stati i filosofi greci a dichiarare il primato del pensiero su altre forme di sapere, per il fatto che esso ci permette di percepire la realtà universalmente e senza parzialità. La ragione è indivisibile e incontestabile, sostengono i suoi adepti moderni: scienziati che possono ben essere nel giusto, dal momento che la loro riflessione sul mondo fisico lo ha trasformato in un modo decisivo per noi tutti, e filosofi e politologi occidentali che, con più probabilità, hanno torto dal momento che trattano soltanto una porzione della realtà umana. È difficile, come suggeriscono questi esempi, separare la ragione dal ragionamento e dall'oggetto su cui si esercita il ragionamento; e proprio come discipline differenti hanno le loro procedure logiche proprie, lo stesso vale per le diverse culture. Mohammed Arkoun ha scritto, com'è noto, sulla "ragione islamica", riferendosi ad alcuni grandi dotti sunniti1, ma nel pensiero islamico classico ci sono molte altre varietà di ragione. Per gli eredi del neoplatonismo, la ragione, circonfusa di aureole di gloria, era molto più un concetto mistico che scientifico: l'illuminazione della mente e dell'anima da parte dell'"intelletto agente" sarebbe stata la nozione centrale delle teosofie islamiche del tardo Medioevo e della prima modernità. Questa sintesi fu il frutto dell'attrito prolungato tra filosofi e scritturalisti. Fin dall'inizio, l'idea di ragione risultò problematica in un ordine sociale e politico fondato sulla rivelazione. La ragione completava la rivelazione, era intuitiva, offriva una guida morale su cui fare affidamento? Oppure il ragionamento era un'astuzia, un mezzo per piegare la fede e la legge ai desideri del singolo, una via che conduceva alla dannazione l'intelligente e il semplice insieme? Il buon senso riconobbe che l'intelligenza era un dono di Dio, che migliorare le proprie facoltà mentali era un'impresa morale e che la sapienza, che riconosciamo spontaneamente, non può essere dannosa anche quando deriva da fonti non scritturali. Questo consenso empirico usava un vocabolario che non distingueva tra l'intelligenza di un individuo, i metodi di ragionamento e l'intelletto o la ragione come astrazioni. Su questo sfondo comune si disposero una serie di interessi acquisiti che si svilupparono man mano che le discipline islamiche specializzate crescevano in sofisticazione, fiducia e ambizione. Ciascuna di esse creò i propri termini di discorso, formulò i propri requisiti di coerenza e si misurò con le altre per la supremazia e nella definizione della competenza intellettuale (e morale). L'idea di una pietra di paragone cognitiva universale dall'autorità assoluta suonava inaccettabile a tali specialisti. Una Legittimazione per i Principi Nel pensiero islamico, dall'ottavo al decimo secolo dell'era volgare, la ragione fu prima di tutto un'arma politica e ideologica e si identificò con le preoccupazioni di un'élite. Verso la metà dell'ottavo secolo, un grande funzionario, Ibn al-Muqaffa', consigliò al secondo califfo abbaside di dar vita a uno Stato religioso ma razionale; tuttavia fu ignorato2. L'inizio del nono secolo vide il tentativo fallito di al-Ma'mu_n, alla fine di un regno trionfale (833), di ridurre il seguito popolare di cui godevano i tradizionisti (i muh.addith) e il loro letteralismo, razionalizzare la dottrina islamica ed esercitare un dominio esclusivo sulla comunità3. Un secolo più tardi, la mappa politica era cambiata oltre ogni immaginazione, perché nel Nord Africa si era stabilito un contro-califfato sciita e altrove le province avevano voltato le spalle a Baghdad una dopo l'altra. Il Corano non offre alcun mandato ai principi e dunque dove trovare una legittimazione per questi nuovi staterelli? Il ricorso alla ragione offrì gli elementi di una risposta. Ecco come la ragione ('aql) è evocata da Ibn 'Abd Rabbih (m. 940), la cui carriera ruotò attorno alle corti principesche di al-Andalus (separate ormai da lungo tempo dal califfato di Baghdad) e che dedicò il suo opus magnum, al-'Iqd (La collana), ad 'Abd al-Rah.ma_n III di Cordova, dopo che questi ebbe adottato il titolo di califfo nel 929: «Una tradizione (h.adith) racconta che quando Dio creò la Ragione, le disse: "Vieni avanti!" ed essa avanzò e poi: "Torna indietro!" ed essa si ritirò. Allora Egli disse: "Per il Mio potere e la Mia gloria, non ho creato nulla che mi sia più caro di te e ti darò solo alla creatura che mi sia più gradita". Ma quando creò la Stupidità e le disse di avanzare, essa andò indietro e venne avanti quando Egli le disse di ritirarsi. Dio disse: "Per il Mio potere e la Mia gloria, tu sei la cosa più odiosa che io abbia creato e ti darò solo alla creatura che odio di più"... E quando Dio gettò Adamo, su di lui sia la pace, giù sulla terra, Gabriele venne da lui e gli disse: "Adamo, Dio ti ha dato la scelta fra tre cose, di cui ne potrai ricevere una sola: Pudore, Pietà e Ragione". Ed Adamo disse: "O Dio! Sceglierò la Ragione". Allora Gabriele disse al Pudore e alla Pietà di ritornare in paradiso, ma esse si rifiutarono. Le rimproverò per la loro disobbedienza, ma ribatterono: "Abbiamo ricevuto l'ordine di non abbandonare mai la Ragione, ovunque essa si trovi"» [Al-'Iqd, ed. A. Amin et al., Il Cairo 1956, II, pp. 244-245]. Queste sono parole toccanti, che attingono a diversi strati di pensiero di grande antichità, di cui Ibn 'Abd Rabbih può o meno essere stato conscio (conosciamo molto poco della storia intellettuale di al-Andalus in quell'epoca). In ogni caso, egli fa risalire queste parole fino alla creazione e alla caduta. Potrebbero essere viste come puramente ireniche: una riconciliazione poetica di ragione e rivelazione espressa in un'allegoria di grazia universale. E di fatto lo scopo che Ibn 'Abd Rabbih si prefigge nel comporre La collana è di comporre ragione e rivelazione in armonia nelle menti dei lettori, attraverso la mediazione della tradizione. Ma la sua tradizione non è quella dei letteralisti. L'opera che Ibn 'Abd Rabbih offrì al suo principe, e per la cui comprensione l'esaltazione della ragione che egli attua è essenziale, era una novità sfarzosa: un immenso compendio della sapienza di tutti i tempi filtrata attraverso citazioni dei migliori scritti arabi. Prima delle lunghe fatiche di Ibn 'Abd Rabbih sul suo libro, in quella che era allora la zona intellettualmente depressa di al-Andalus, cose di questo tipo erano state fatte soltanto nel mondo arabo orientale e mai su una tale scala o con una tale elaborazione. Ibn 'Abd Rabbih, lui stesso di origine non araba, invitava con ciò i suoi compatrioti "arabi" andalusi, la maggior parte dei quali discendeva da matrimoni misti, a entrare per la prima volta nella pienezza della loro eredità, come lettori di parole arabe che, seppur non scritturali, portavano in sé una scintilla della profezia, scintilla che passerà anche al lettore che applicherà loro le sue capacità di discernimento razionale: «Se uno considera con equanimità... i libri che abbiamo messo in ordine e se prende la propria ragione come giusto arbitro... allora dovrà riconoscere che essi sono un albero buono dai rami alti nel cielo, che cresce in una buona terra e porta frutti maturi. Chiunque mangi la porzione di questi frutti è erede della profezia e cammina lungo una via di sapienza che non farà mancare consolazione a nessuno di quanti la seguiranno né farà errare alcuno di quanti si tengono saldi ad essa» [al-'Iqd, I, 1]. Questa eredità di sapienza virtuosa è l'adab, non solo una tradizione libresca, ma anche un modello pratico. Questo adab non ha bisogno, afferma Ibn 'Abd Rabbih, delle garanzie tecniche di provenienza sempre più richieste dagli esperti della tradizione puramente religiosa («Mi è stato riferito da X, che l'ha sentito da Y, che l'ha ricevuto da Z, che egli ha sentito il Profeta dire...»): il motivo è che la verità è autoevidente. Ordine Sociale e Ordine Divino Tale nozione di verità autoevidente ha un ruolo di primo piano nel pensiero di Ibn 'Abd Rabbih ed egli utilizza diversi espedienti per suggerire che essa è una forma di rivelazione. Il suo «albero buono» echeggia una similitudine coranica: «Non vedi come Dio assomiglia una buona parola a un albero buono che ha radice salda e i rami alti nel cielo / che dà i suoi frutti in ogni stagione col permesso del Signore?» [XIV, 24-25]4. Allo stesso modo «tenersi saldo» echeggia l'idea coranica della «impugnatura saldissima» [II, 256; III, 103; XXXI, 22]. La verità autoevidente è propria del regno della creazione che, sia essa muta o dotata di parola, porta testimonianza dell'unità e sovranità di Dio, un'idea che Ibn 'Abd Rabbih tesse nel magnifico e finissimo credo con cui apre la sua opera e che rappresenta un Dio giusto, di modo che l'uomo può esercitare il suo libero volere in un'attesa razionale di premio e punizione: «Egli ha reso un obbligo il riconoscerLo [allusione al patto primordiale di Corano VII, 172], ma una libera scelta l'adorarLo, e ha donato alle sue creature il linguaggio per riconoscere la Sua unicità o le ha rese mute in umile testimonianza della Sua divinità... Egli ha unito grazia alla Sua misericordia e giustizia alla Sua retribuzione, di modo che la Sua gente è soggetta o alla Sua grazia o alla Sua giustizia, sapendo che dovrà lasciare questo mondo di prove per un mondo di ricompense... Egli si è degnato nella Sua grazia di accettare la lode come mezzo per acquistare le Sue numerose e grandi benedizioni: Egli l'ha resa la chiave per la Sua misericordia e un contraccambio per la Sua bontà» [al-'Iqd, I, 1]. L'ordine sociale, e con esso il governo del principe, riflette anch'esso l'ordine divino. L'autorità politica, o il principe (as-sult.a_n), è «l'asse su cui il mondo ruota... su di lui si fondano i comandi divini» e «come hanno detto i sapienti, ... il controllo che Dio esercita per mezzo del principe è più grande di quello che esercita per mezzo del Corano» [al-'Iqd, I, 7] una "verità" spesso trasformata in un h.adith nelle innumerevoli citazioni dei teorici politici musulmani che sono venuti successivamente. Ibn 'Abd Rabbih continua con un h.adith apocrifo: «Dio disse a Davide: Io sono il re dei re; i loro cuori sono in mano Mia. Per quanti Mi obbediscono, farò dei re una benedizione; per quanti Mi disobbediscono, farò dei re una punizione». Possiamo riassumere nei termini seguenti il ragionamento di Ibn 'Abd Rabbih sulla triade ragione, tradizione e rivelazione, che convergono nell'adab, e la loro relazione con l'autorità politica, prendendo gli elementi nell'ordine in cui sono presentati nelle prime pagine di al-'Iqd: la giustizia di Dio è razionale, come rivelano la Sua creazione e la Sua provvidenza; l'adab è la ragione manifestata in una tradizione: come tramite di "profezia" presenta delle analogie con la rivelazione scritturale; il sult.a_n è lo strumento della giustizia razionale di Dio in questo mondo in questa funzione, esso supera per importanza la rivelazione scritturale ; il ruolo del sult.a_n nel piano di Dio per l'umanità può essere compreso solo attraverso la triade propria dell'adab di ragione, tradizione e quasi-rivelazione, perché anche se Ibn 'Abd Rabbih non lo dice non è discusso nella rivelazione scritturale. Minaccia Sciita Il tentativo di radicare la ragione tanto nella rivelazione quanto nella tradizione e di offrire una patente divina per un'istituzione politica priva di una base scritturale, può sembrare fuori luogo, dal momento che, dopo tutto, lo stesso califfato non è coranicamente fondato. La parentela con il profeta può sembrare una forma di legittimazione più decisiva, che Ibn 'Abd Rabbih avrebbe potuto avanzare per 'Abd al-Rah.ma_n III, dato che gli Omayyadi di Cordova erano membri della tribù del profeta. Ma un argomento basato sulla parentela avrebbe aperto la porta alla sempre crescente minaccia sciita e in ogni caso Ibn 'Abd Rabbih, che non aveva sempre servito gli Omayyadi, era preoccupato di legittimare l'idea di sult.a_n più che un particolare principe o una dinastia specifica. Circa settant'anni più tardi, nell'Iran Nordorientale, dall'altra parte del mondo musulmano, al-Tha' alibi (m. 1038) nel suo Adab al-Muluk5 cita testi d'appoggio simili e ripete più chiaramente lo stesso messaggio. Di fronte all'abominevole concezione di regalità propagata dai missionari sciiti fatimidi, che (egli afferma) incoraggiavano i governanti a immaginarsi come esseri semi-divini e sopra la legge, anche al-Tha' alibi combina tradizione e prova razionale per asserire il mandato divino dei prìncipi religiosi (cioè, ogni principe che non si associ ai Fatimidi): di tutti i prìncipi religiosi, simultaneamente o successivamente l'idea di un califfato unitario era quasi scomparsa perché la successione delle dinastie fa parte del saggio piano divino per l'umanità. Quanto tempo Dio permetta loro di mantenere il potere è determinato dalla loro abilità e comprensione degli "adab dei principi" [Adab al-Muluk]. Adab e ragione offrono in tal modo una teoria coerente per un governo secolare legittimo e per l'ascesa e caduta di dinastie legittime, ma, una teoria che, dal punto di vista di ogni principe cui si può applicare, è piuttosto impietosa: non è infatti pensata per far posto ai perdenti. Ciò che invece l'adab riuscì a fornire per molti secoli e per un pubblico molto più ampio dei principi e delle élites connesse fu una patria dell'immaginazione, stimolante e nello stesso tempo confortante, come quella che Ibn 'Abd Rabbih contribuì a creare per gli abitanti di al-Andalus di lingua araba. In essa la ragione, o a ogni buon conto la ragionevolezza, costituisce un quadro entro cui riflettere sull'esperienza umana. -------------- 1. Mohammed Arkoun, Le concept de la raison islamique in Annuaire de l'Afrique du Nord, 18, 1979, 305-339, ristampato in idem, Pour une critique de la raison islamique, Maisonneuve et Larose, Paris 1984, pp. 65-99. 2. Cfr. il testo arabo e la traduzione francese di Charles Pellat, Ibn al-Muqaffa'... "conseilleur" du calife, Maisonneuve et Larose, Paris 1976. 3. Vedi anche Richard C. Martin e Mark R. Woodward con Dwi S. Atmaja, Defenders of Reason in Islam. Mu'tazilism from Medieval School to Modern Symbol, Oneworld, Oxford 1997. 4. Traduzione di Alessandro Bausani, BUR, 1988 e ristampe successive. 5. Ed. Jalil al-'At.iyya, Beirut 1990.

Tags