Da quando il presidente egiziano ha invocato la necessità di riformare il discorso religioso, continua il dibattito su questo tema. La domanda su “cosa non va” torna di continuo, ma le risposte divergono

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:59

Da quando è caduto il presidente Morsi e si è inasprito il kulturkampf contro i Fratelli Musulmani e i salafiti (o piuttosto la risposta al kulturkampf messa in atto da questi ultimi), e dopo che Abd al-Fattah al-Sisi ha lanciato il suo appello per una riforma radicale del discorso religioso – in cui affermava sostanzialmente che il discorso dominante ispira, produce e alimenta un clima di guerra dei musulmani contro il resto del mondo e della modernità –, i circoli che frequento discutono spesso la questione della presunta crisi del discorso religioso.

 

Devo innanzitutto sottolineare che io sono cristiano e che questo incide in qualche modo sui dibattiti: alcuni temi che vengono sollevati in mia presenza non lo sarebbero davanti a dei musulmani, così come è vero il contrario. Inoltre io frequento ambienti precisi: ricercatori, giornalisti, alti funzionari e membri delle classi medio-alte che hanno preoccupazioni di tipo culturale. E in questi ambienti ci sono teste molto fini.

 

Innanzitutto c’è sempre una certa nostalgia: «Siamo cresciuti in un Egitto diverso, ma che era comunque molto religioso» è uno dei leitmotiv, a cui segue l’elenco dei sintomi del presunto degrado: rapporti negativi tra comunità, spesso sempre più separate; una fede che cerca innanzitutto di incarnarsi in simboli esteriori, formali e a volte grotteschi, invece di essere un imperativo che sgorga dall’anima; imperialismo degli uomini di religione, che si pronunciano o sono spinti a pronunciarsi su argomenti di ogni tipo, sia futili che molto seri, e i cui discorsi sono privi di argomenti, se non peggio; una  tendenza a considerare chiuse (nel senso di un’interpretazione rigorista od ottusa) questioni che non lo sono, e a considerare aperte questioni che invece sono state risolte. Questa nostalgia può volersi “popolare” e fare riferimento a uno stile di vita minacciato che era diffuso nei quartieri popolari; ma può volersi anche meritocratica o aristocratica e sostenere che gli ignoranti utilizzano la religione ridotta a qualche formula per contestare i discorsi dei diplomati o di altri presunti esperti, o che la religiosità ostentata non riesce a mascherare un materialismo sempre più avido.

 

Insomma, un ordine morale e mite è stato soppiantato da un disordine caotico camuffato da un formalismo aggressivo e dall’imperialismo culturale dei religiosi. Non credo di avere sentito discussioni sulle ripercussioni psicologiche di questa “rivoluzione”: paura e ansia di fronte a un futuro sfuggente e a una globalizzazione tanto destabilizzante. In realtà una sì: un amico e collega afferma che ormai tutti, nel mondo, si sentono una minoranza, una minoranza minacciata, che vuole allo stesso tempo integrarsi e sottolineare la sua differenza.

 

La nostalgia non è solo un sentimento degli anziani, dal momento che questi ultimi trasmettono anche ai giovani una memoria che mitizza il passato liberale e nasseriano ed è incline a giudicare il presente basandosi su degli esempi certamente reali, ma di cui non si riesce a determinare la natura “tipica” o “estrema”. Per fare un esempio, i segni esteriori di religiosità non escludono – anzi è vero il contrario – un comportamento irreprensibile, integro, degno.

 

Quanto ai giovani, sono sempre di più quelli delle classi medie urbane che dicono: «siamo musulmani, molto credenti, musulmani che vogliono restare musulmani, ma il nostro Islam non è quello che ci propongono al-Azhar e gli islamisti». Imbaldanziti dalla formula «consulta il tuo cuore» (un principio riportato da un famoso hadīth attribuito a Muhammad, NdR), essi si rifiutano di ammettere che i discorsi dominanti riflettono la loro fede. Per non parlare di coloro che, più o meno temporaneamente, si dicono atei per indicare la loro ribellione contro il principio della sottomissione, la sottomissione indiscussa a un “discorso religioso” o all’autorità (paterna o clericale). Provate a consultare le pagine Facebook della gioventù egiziana: spesso sono prese in giro delle dichiarazioni di alcuni ulema, scherni provenienti tanto da credenti dispiaciuti quanto da individui che si dicono liberi pensatori o esprimono il loro disagio.

 

Per quanto soffocata e repressa, la domanda lancinante «cos’è che non va?» torna di continuo. Molti ne contestano la legittimità: è tutto in ordine, va tutto bene, ma è pieno di ignoranti, anche tra gli ulema. È un po’ l’ottica che domina l’atteggiamento egiziano in materia di de-radicalizzazione: si individuano i concetti utilizzati dagli islamisti nelle loro argomentazioni, si mostra che, intenzionalmente e per fini politici, sono utilizzati male e che in realtà esiste un’altra interpretazione, più antica, più centrista e più plausibile. Questo approccio viene criticato dagli altri, che vi vedono soltanto un’attenuazione, ma non una mentalità diversa. Ma è vero?

 

Io credo che le cose siano più complicate… Alcuni, soprattutto tra gli atei, dicono la stessa cosa: «non c’è nulla da riformare», ma per ragioni opposte: non è possibile alcuna riforma. La impedisce lo statuto del Corano, che è Parola Divina increata e sigillo delle rivelazioni. Il peso della storia e gli esempi del passato complicano ulteriormente il compito. Altri, senza contestare la legittimità dell’interrogativo, pensano che “riformare il discorso” porterà, nel migliore dei casi, a proporre un’ennesima interpretazione, che non farà scomparire le precedenti, ma si giustapporrà a esse.

 

Ma la domanda rimane. Una prima risposta, esplosiva, è stata proposta da Islam Behery in una serie di trasmissioni televisive che hanno fatto audience: sono gli hadīth – raccolti in particolare da al-Bukhārī, la cui autenticità è spesso dubbia non solo perché lo è la catena dei trasmettitori, ma anche perché il loro insegnamento è ritenuto contrario a quello del Corano – a costituire la causa della crisi. Si può immaginare lo scandalo ma anche la boccata d’ossigeno che questo ha rappresentato per tutti coloro che «vogliono restare musulmani senza aderire al discorso dominante». Lasciando da parte le esternazioni, i dubbi, gli attacchi provenienti da ogni parte, la trasmissione di Behery ha anche contribuito a diffondere la diagnosi secondo cui “qualcosa non va”, e a porre la questione della validità del ricorso ai metodi della filologia, dell’ermeneutica e delle scienze sociali moderne per l’interpretazione e la comprensione dei testi sacri. Il Grande Imam dell’Azhar ha tagliato corto dicendo “no”. Ma alcuni ulema confidavano in privato che il numero di hadīth affidabili probabilmente non supera il centinaio, ma dirlo provocherebbe una levata di scudi.

 

Un dibattito correlato, che ricorre spesso senza mai veramente “attecchire”, è quello che pone il problema dell’interpretazione. Ci sono troppe fatwe, che dicono troppe cose contraddittorie: su questo c’è unanimità. Che fare? Qui emergono le divergenze. Sono i “laici” (in senso cristiano) la causa del male? Sono autorizzati a interpretare? O bisogna lasciare questi argomenti complessi ai detentori del sapere religioso? O sono questi ultimi la causa del problema? Se sì, occorre introdurli alle scienze profane, fisiche e umane? Non si corre forse il rischio di vederli “islamizzare” e “castrare” queste scienze, mentre si vorrebbe diffondere tra loro uno spirito critico? Viene allora ricordato che l’esperimento è stato tentato, con risultati che ognuno giudica diversamente. Io ricordo, senza esplorare ognuna di queste diverse piste, che dopo la prima dichiarazione del presidente sulla riforma del discorso religioso uno scontro aveva opposto il ministero della cultura all’Azhar, per decidere chi avrebbe dovuto farsi carico di questa missione (i secondi pensavano che i primi non fossero né desiderosi né in grado di farlo). Allora lo scontro è stato vinto dall’Azhar, ma la questione non è sepolta. Certamente alcuni si chiedevano se una riforma efficace intrapresa dall’Azhar non sarebbe stata accompagnata dalla richiesta di ulteriori prerogative circa la possibilità di pronunciarsi su ciò che è dicibile e ciò che non lo è, invece che da una separazione tra politica e religione, che loro considerano paradossalmente facilitata dal livello attuale del discorso religioso. Si nota anche che il giudizio sul “lavoro” dell’Azhar gioca un ruolo non trascurabile nelle discussioni, con valutazioni che vanno da quelle molto elogiative (si ritrovano anche tra i modernisti riformatori secondo i quali l’opera silenziosa del Grande Imam sta portando lentamente i suoi frutti) a quelle molto critiche. Gli elogi sottolineano ad esempio il fatto che l’Azhar abbia organizzato una conferenza di ulema sunniti durante la quale si sono tessute le lodi, testi religiosi alla mano, del pluralismo e della democrazia e in cui è stata difesa e auspicata la presenza dei cristiani del Medio Oriente. I più critici affermano invece che gli equilibri interni all’istituzione tra le diverse correnti (mu‘tazilismo, maturidismo, ash‘arismo, salafismo) sono stati infranti (con l’aiuto dei soldi del Golfo) a beneficio delle correnti salafite e islamiste

 

Vengono inoltre sollevati alcuni punti generali, in particolare da storici che padroneggiano la filosofia. Forse non è possibile separare politica e religione, ma occorre almeno far ammettere che il progetto universalistico dell’Islam non passa per una conquista politico-militare del pianeta e la creazione di un impero. Finché questo punto non verrà risolto, non si arriverà a nulla. Ma io credo che questo punto sia già stato chiarito, anche se forse solo in modo tacito, eccetto che dagli islamisti: che sia perché si pensa che ciò che era permesso al Profeta e ai suoi santi Compagni non lo è per i fedeli; o che questa conquista era giustificata dall’impossibilità di predicare in territori soggetti a imperi teocratici mentre quest’ueimpossibilità è oggi venuta meno; o ancora perché si ritiene di poter raggiungere gli stessi obiettivi con mezzi diversi, la maggior parte dei miei interlocutori ha già fatto la distinzione. Ma alcuni amici pensano che io sia ottimista…

 

Infine, alcuni interlocutori pensano che la riscoperta della grande tradizione, dei dibattiti di alto livello che hanno caratterizzato i primi secoli dell’Islam siano un prerequisito assoluto: è assolutamente necessario tornare a includere nei testi scolastici i classici della tradizione che in precedenza erano stati eliminati perché esigevano un livello troppo elevato per gli studenti.

 

Testo tradotto dal francese.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

Tags