Nel dicembre 2019 è stata presentata negli Emirati la Carta della Nuova Alleanza delle Virtù. Il documento, accanto a formulazioni più tradizionali, presenta alcuni elementi di novità, nel solco della riflessione etica avviata dallo shaykh Bin Bayyah

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:10

Dal 9 all’11 dicembre 2019 ho avuto l’opportunità di partecipare ad Abu Dhabi al Forum per la promozione della pace nelle società islamiche. L’imponente manifestazione, avviata nel 2014 e giunta alla sua sesta edizione, ha riunito più di 500 persone sotto la guida dello Shaykh Bin Bayyah, presidente del Consiglio della Fatwa degli Emirati. Pensata come chiusura dell’Anno per la Tolleranza, ha visto tra i partecipanti diversi ministri degli affari religiosi, mufti, ulema, professori di università islamiche, ma anche alcune realtà non musulmane – tra cui Oasis – e un consistente gruppo di rabbini.

 

In particolare, il Forum è stata l’occasione per presentare pubblicamente la Carta della Nuova Alleanza delle Virtù. Concepita nell’ambito dell’American Peace Caravan e presentata in una sua prima formulazione a Washington nel febbraio 2018, la Carta s’inserisce nell’ormai nutrita serie di dichiarazioni prodotte da parte musulmana negli ultimi anni: Dichiarazione sulla Fraternità Umana  del febbraio 2019 e Dichiarazione di Marrakech del gennaio 2016, solo per citarne due.

 

Prima ancora che per i contenuti, questo nuovo documento merita attenzione per il piano universale su cui intende collocarsi e che supera i confini delle sole “religioni abramitiche”. La Carta infatti si richiama, fin dal nome, a un episodio poco noto della vita di Muhammad, che vale la pena riportare per intero.

 

Un commerciante frodato

Secondo la tradizione islamica, quando Muhammad aveva circa vent’anni, si verificò alla Mecca una grave ingiustizia che coinvolse uno dei capi dei Quraysh, la tribù dominante della città, a cui anche Muhammad apparteneva.

 

«Un uomo di Zabīd – lasciamo la parola all’esegeta medievale Ibn Kathīr (1301-1373) – giunse alla Mecca con la sua merce. [Il notabile meccano] al-‘Ās Ibn Wā’il gliela acquistò, ma non gli versò il prezzo convenuto. L’uomo di Zabīd chiese aiuto a una fazione dei Quraysh[1] […], ma essi si rifiutarono di soccorrerlo […] e anzi lo minacciarono. Vedendo che le cose prendevano una brutta piega, l’uomo salì sul monte Abū Qubays al sorgere del sole, mentre i Quraysh si stavano radunando intorno alla Ka‘ba, e gridò ad alta voce:

 

O gente di Fihr[2], un oppresso vi è nella valle di Mecca

con la sua merce, che piange la casa e la gente lontana,

e un pellegrino che, scarmigliati i capelli, il suo pellegrinaggio non ha compiuto.

O uomini e voi che state nel benedetto recinto, la sacertà è per il nobile,

ma non vi è sacertà per l’abito del frodatore.

 

Allora al-Zubayr Ibn ‘Abd al-Muttalib[3] si alzò in piedi ed esclamò: “Questo non è più tollerabile!”. Con lui si riunirono Hāshim, Zahra e Taym Ibn Murra nella casa di ‘Abd Allāh Ibn Ǧud‘ān. Dopo che questi ebbe preparato loro un pasto, contrassero alleanza, nel mese sacro di Dhū l-Qa‘da, prendendo questo impegno davanti a Dio: “Saremo una mano sola con l’oppresso e contro l’oppressore fino a quando riceverà ciò che gli spetta, finché durerà il mare e finché i monti Thabīr e Hirā’ staranno fissi al loro posto. E ci daremo mutuo sostentamento”.

 

I Quraysh chiamarono quel patto “alleanza dei Fudūl perché dicevano “questi hanno sottoscritto un patto aggiuntivo” (dakhalū fī fadl min al-amr). Poi andarono da al-‘Ās Ibn Wā’il, gli strapparono la merce e la restituirono all’uomo di Zabīd»[4].

 

Verso un diritto naturale

La narrativa islamica delle origini ama la precisione del dettaglio e il lettore occidentale può rimanere disorientato dalla profusione di nomi e luoghi. Ma i punti importanti qui sono due, a prescindere dalla storicità o meno dell’accaduto.

 

Innanzitutto, il patto si situa prima dell’inizio della predicazione di Muhammad, in un contesto che, se dobbiamo credere alla tradizione islamica, sarebbe stato ancora quasi completamente pagano. Proprio per questo – ed è il secondo elemento – i contraenti del Patto non fanno appello ad alcuna rivelazione, ma invocano una concezione naturale di giustizia: «Saremo una mano sola con l’oppresso e contro l’oppressore».

 

Nella teologia islamica dei primi secoli una delle questioni più controverse fu proprio il legame tra la Legge (la sharī‘a) e il Bene. Per dirla con un apparente scioglilingua, le azioni sono buone perché le comanda la sharī‘a o la sharī‘a comanda certe azioni perché sono buone? Dopo lunghe controversie la questione, nel Sunnismo, fu risolta a vantaggio della prima opzione, coerentemente con il prevalere del volontarismo della scuola teologica ash‘arita. Non esisterebbero quindi un bene o un male in sé, ma sarebbe Dio a fissare nella Sua rivelazione i criteri etici dell’agire. Questa posizione, se ha l’apparente pregio di accentuare la libertà divina – rendendola però una libertà senza forma – ha il difetto non piccolo di precludere ogni conversazione etica con i non-musulmani. O più precisamente: mantiene uno spiraglio aperto con ebrei e cristiani nella misura in cui essi condividono alcune prescrizioni rivelate, ma chiude totalmente al dialogo con chi si collochi al di fuori una prospettiva teista. E nel mondo di oggi, non è un problema da poco.

 

Guardandosi bene dall’evocare il dibattito medievale, gli estensori della Carta presentata ad Abu Dhabi hanno scelto di muoversi implicitamente nella direzione di una riattivazione di quello che, nel pensiero cattolico, si chiamerebbe “diritto naturale”. Lo possono fare grazie a un formidabile asso nella manica, cioè l’approvazione esplicita del Patto da parte del Profeta dell’Islam. Secondo l’importante tradizionista al-Humaydī (morto nell’834), Muhammad avrebbe infatti affermato: «Fui testimone nella casa di ‘Abd Allāh Ibn Jud‘ān di un patto che, se mi venisse proposto ora nell’Islam, certamente sottoscriverei: essi si accordarono per dare a ciascuno il suo e perché non vi fosse ingiusta oppressione»[5].

 

Con questa citazione non viene messa in discussione la priorità del dato scritturale – ciò che ha consentito l’approvazione del documento da una platea di ulema perlopiù appartenenti, almeno in linea teorica, alla scuola ash‘arita. Tuttavia si rinviene nel dato scritturale un pronunciamento a favore di una concezione naturale del diritto.

 

È a ben vedere lo stesso procedimento messo in atto nella Dichiarazione di Marrakech, in cui la moderna concezione di cittadinanza è stata islamicamente sanzionata tramite il riferimento alla cosiddetta Costituzione di Medina. Solo che questa volta il riferimento appare molto più pertinente. Mentre infatti ritrovare nel Patto di Medina i fondamenti di uno Stato moderno – o addirittura la prima Costituzione dell’umanità – è un’operazione anacronistica frutto della tendenza alla tawfiqiyya (“concordismo”) che affligge il pensiero islamico contemporaneo, nella storia del commerciante frodato di Zabīd il riferimento a una concezione naturale del diritto c’è tutto.

 

Inoltre, mentre la Costituzione di Medina è rimasta lettera morta nella tradizione giuridica classica, per la quale va testo il ben più svantaggioso Patto di ‘Umar, il Patto delle Virtù può vantare almeno un illustre esempio di applicazione pratica. Sarebbe infatti stato invocato dal nipote di Muhammad, Husayn (m. 680), per rivendicare una proprietà usurpata da al-Walīd Ibn ‘Utba, il governatore omayyade di Medina. Secondo la testimonianza del celebre biografo Ibn Ishāq, Husayn avrebbe mandato a dire al governatore: «Se non mi tratterai equamente, prenderò la spada, mi alzerò nella moschea dell’Inviato di Dio e invocherò l’Alleanza delle Virtù». La minaccia avrebbe sortito un effetto immediato: «Quando la notizia fu riferita ad al-Walīd Ibn ʿUtba, il governatore fece giustizia a Husayn e gli diede soddisfazione»[6].

 

Limiti e silenzi

Come anticipato, è questo inquadramento sul piano del diritto “naturale”, aperto a tutta l’umanità, a rappresentare a mio avviso l’aspetto più interessante e più innovativo della dichiarazione: giustamente alcuni dei rabbini presenti l’hanno accostata al Patto di Noè, l’alleanza primordiale che nel Giudaismo rappresenta il fondamento delle relazioni tra ebrei e non-ebrei[7]. Significativo perciò che il documento sia stato sottoscritto anche da rappresentanti Sikh e Yazidi, questi ultimi considerati nella giurisprudenza islamica tradizionale come pagani (e per questo ferocemente perseguitati durante il regime del terrore di ISIS).

 

L’importante apertura va peraltro temperata con due messe in guardia: la prima, più filologica, riguarda il significato del nome arabo del patto, Hilf al-fudūl. Esso è spiegato in vari modi dalle fonti: “Alleanza della Giustizia” – questa è l’opinione di al-Suhaylī (1114-1185), con riferimento ai fudūl o eccedenze che i contraenti si impegnavano a restituire a chi ne aveva diritto – ma anche “Alleanza dei Fadl”, inteso come nome proprio di tre dei più importanti contraenti – questa è l’opinione di Ibn Qutayba (828-889) citata anche nel dizionario medievale Lisān al-‘arab – o ancora “Alleanza aggiuntiva”, perché, come suggerisce il finale del testo citato da Ibn Kathīr, si tratterebbe di un patto supplementare rispetto alla più antica alleanza dei Mutayyabīn, sottoscritto solo da una parte dei Quraysh. Insomma, la resa con Alleanza delle virtù è evocativa, ma non letterale.

 

Ma soprattutto, passando a esaminare i contenuti del documento, si deve constatare l’assenza di una dichiarazione esplicita a favore della libertà religiosa. A questo proposito, la Carta che era stata distribuita ai partecipanti durante il Forum presentava una discrepanza tra la versione inglese e araba. All’articolo 4.2 l’inglese infatti dichiarava: «Non vi è costrizione nella fede o nel credo. Le persone hanno il diritto di scegliere il loro credo e praticare la loro fede»[8], mentre l’arabo si limitava ad affermare «Non vi è costrizione nella fede», citazione parziale del celebre versetto coranico 2,256. Benché anche la formulazione inglese non risolvesse completamente la questione della libertà religiosa – si potrebbe infatti affermare che le persone siano libere di scegliere la propria religione, ma che una religione possa prevedere tra le sue clausole l’impossibilità di abbandonarla – essa rappresentava comunque un importante passo avanti, come tale salutato anche da alcuni dei firmatari non musulmani presenti al Forum, come il segretario della World Evangelical Alliance. Dopo alcune esitazioni però, a prevalere è stata la più prudente formulazione araba, su cui è stata corretta anche la versione inglese finale. Essa non apporta dunque nulla di nuovo alla controversa questione della libertà di coscienza nell’Islam.

 

Una riforma religiosa (ma non chiamatela così)

La Carta della Nuova Alleanza delle Virtù nasce da un’opera di mediazione tra sensibilità anche molto diverse tra loro, come testimonia non solo l’iniziale disparità tra testo arabo e inglese, ma anche  la ricca pluriformità dei presenti in sala, nelle lingue, nei riferimenti dottrinali e perfino nell’abbigliamento. Non è ovviamente da sottovalutare neppure il dato politico, in questo caso una complessa triangolazione tra realtà americane di ispirazione evangelica – pur con qualche presenza cattolica, tra cui l’Arcivescovo Emerito di Abuja, S. Em. il Cardinal Onaiyekan – una delegazione ebraica di alto profilo e infine l’asse, sempre più chiaro, tra Emirati, Arabia Saudita – qui rappresentata dal Segretario Generale della Lega Musulmana Mondiale al-Issa – e Marocco, con una significativa presenza dall’Africa Sub-Sahariana e dall’Asia meridionale e un’altrettanto eloquente assenza turca e iraniana.

 

È evidente che, senza operare una rilettura della tradizione giuridica islamica, alcune affermazioni della Carta sono destinate a restare aperte a varie interpretazioni e dunque poco efficaci sul piano pratico. Per quanto riguarda in particolare la libertà religiosa, ci si può legittimamente chiedere se il documento non rappresenti il massimo a cui può giungere un pensiero che si voglia collocare in continuità con la tradizione giurisprudenziale premoderna. Tuttavia, pur rimpiangendo l’occasione perduta di una dichiarazione esplicita a favore della libertà religiosa, mi sembra preferibile – e anche più equanime – guardare al bicchiere mezzo pieno, costituito dall’apertura verso un’etica fondata sulla comune esperienza umana, anteriore alla rivelazione.

 

Alla fine dell’Ottocento il teologo riformista Muhammad ‘Abduh aveva scritto nella sua Epistola sull’Unicità divina: «La Legge è venuta a chiarire la realtà e non a creare il bene»[9]. Senza averne troppo l’aria, i 500 ulema di Abu Dhabi gli hanno dato ragione. E non è poco, considerando che non troppo lontano, tra Iraq e Siria, resistono ancora gruppi di combattenti del cosiddetto Stato Islamico.

 

Nel suo vivace intervento al Forum, l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ha osservato come per la prima volta le istituzioni religiose sunnite si siano poste alla guida della riforma (islāh), mentre in passato si erano attestate quasi sempre su posizioni conservatrici. «Non la chiamano riforma religiosa – ha concluso – ma è una riforma religiosa». Forse il pensatore libanese ha voluto esprimere un auspicio nella forma di una constatazione. Resta comunque un fatto importante.

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA


[1] Più precisamente l’arabo ha al-Ahlāf (“i federati”). Il termine designa alcuni clan della tribù dei Quraysh che si erano uniti per sottrarre il controllo della Ka‘ba al partito rivale dei Mutayyabīn, di cui faceva parte anche la famiglia di Muhammad.

[2] Fihr Ibn Mālik è il progenitore dei Quraysh.

[3] Si tratta di un prozio di Muhammad. Hashim, Zahra e Taym Ibn Murra citati subito dopo sono invece i capi di alcuni importanti clan dei Quraysh.

[4] Ibn Kathīr, al-Bidāya wa-l-nihāya, Fasl fī shuhūdihi ma‘a ‘umūmatihi hilf al-Mutayyabīn, Maktabat al-Maʿārif, Bayrūt 1990, vol. 2, pp. 291-292.

[5] Ibi, p. 291. L’espressione tradotta con “dare a ciascuno il suo” significa più letteralmente “perché le eccedenze andassero a chi ne aveva diritto”.

[6] Ibi, p. 293.

[7] Nella tradizione ebraica Noè, uscendo dall’Arca, avrebbe contratto un’alleanza con Dio impegnando tutti i suoi discendenti ad astenersi dall’idolatria, non uccidere, non rubare, non avere relazioni sessuali illecite, non bestemmiare, non mangiare animali ancora vivi e istituire tribunali giusti. Queste norme rappresenterebbero il terreno d’incontro tra ebrei e non-ebrei.

[8] «There is no compulsion of religion or belief—people have the right to choose their beliefs and to practice their faith».

[9] Muhammad ‘Abduh, Risālat at-tawhīd, a cura di Mahmūd Abū Rayyah, Dār al-Maʿārif, al-Qāhira 2003 (sesta edizione), p. 89.