La privatizzazione, l’indifferenza religiosa e il laicismo sono solo alcuni dei derivati della secolarizzazione. Per intendere qualcosa del rapporto tra secolarizzazione e cultura europea è necessario andare oltre

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:26

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Origine e processo

Credo che sia possibile individuare l’origine di un fenomeno epocale così complesso come la secolarizzazione a livello delle forme di pensiero (conoscenze e pratiche epistemologiche), senza pretendere di giudicare tutto l’immenso intreccio storico dei fatti. Le forme di pensiero – l’ordine dei discorsi, direbbe Foucault – d’altra parte sono anch’esse decisive forze motrici degli eventi: la secolarizzazione infatti è iniziata a partire da una certa riorganizzazione dell’idea stessa di umanesimo. L’essenza della secolarizzazione, a questo livello, può essere identificata – usando la categoria di H. Blumenberg – come una progressiva delegittimazione dell’idea di umanesimo cristiano. La delegittimazione dell’idea di umanesimo cristiano riguardò il suo nucleo centrale, che consiste nel paradosso del valore universale della singolarità cristiana: qualcosa di “singolare” – come avrebbe detto Kierkegaard contro Lessing – qualcosa di storicamente particolare e di ontologicamente eccezionale, come fu la persona di Gesù di Nazareth, si rivela quale principio generatore e rinnovatore dell’umano universale. Infatti, dalla fede sono sempre scaturite forme di interpretazione e di promozione dell’umano, opere sociali, economiche, culturali, educative, assistenziali, ecc., sino a dar fisionomia al vivere storico di una civiltà (quella tardo romana, quella medievale occidentale e bizantina orientale, quella umanistica e poi barocca della prima modernità). La secolarizzazione prende avvio come progressiva messa in discussione di tale nesso tra fede e civiltà.

 

In cerca di un denominatore comune

I motivi della delegittimazione sono molti e complessi, e certamente non solo di ordine “teorico”; elementi come le guerre di religione (smentita storica della capacità unificante del Cristianesimo), il conflitto tra il sapere scolastico, quello umanistico e quello della nuova scienza (smentita della capacità d’integrazione unitaria del sapere), la scoperta del nuovissimo mondo americano e dell’antichissimo mondo asiatico (smentita dell’unità genetica e cronologica dell’umanità, rispetto al racconto biblico letteralisticamente interpretato) furono fattori determinanti. Da ciò si comprende che la secolarizzazione non nacque come antitesi diretta al Cristianesimo, bensì, da una parte, come “sfiducia” in molte e influenti élites culturali della capacità cristiana di far fronte a interessi vitali di sapere e di convivenza; dall’altra, lungo il XVII secolo, come convinzione che, se la fede non costituiva più l’orizzonte dei valori universali condivisi, allora s’imponeva il compito di reperire altre vie e altre garanzie di universalità, cioè nuove sintesi culturali, in cui gli uomini potessero convergere, comunicare e progettare la loro storia, indipendentemente dalla religione. In sintesi, se la fede non può più essere l’elemento di coesione universale, è urgente reperire un nuovo denominatore comune. Questa origine della secolarizzazione spiega perché essa sia stata un lungo e travagliato processo di ricerca di un nuovo umanesimo e di nuove sintesi culturali, che si configurò nel tempo secondo tre tendenze fondamentali, che costituiscono le metamorfosi storiche dell’unico processo globale di secolarizzazione moderna.

 

Privatizzare, attaccare, svuotare

La privatizzazione della credenza è la prima forma pratica della secolarizzazione, a cui peraltro corrisponde uno nuovo e più spinto utilizzo pubblico politico della religione. Una volta divenute le Chiese “confessioni” religiose, divise fra loro e al loro interno, la credenza è di fatto privatizzata, mentre chiede, allo stesso tempo, sempre più sostegno e protezione al potere politico. Privatizzazione e funzione politica della religione si trovano così ad essere complementari e complici (sanzionati nel principio del cuius regio eius et religio di Westfalia, 1648). La privatizzazione è un effetto che sarà ricorrente, ma che, in rapporto all’universo del Cristianesimo storico, resta comunque un compromesso. Per un nuovo progetto di civiltà non basta privatizzare e usare l’umanesimo cristiano, si tratta di sostituirlo, o attaccandolo frontalmente fino alla sua abolizione oppure subentrando ad esso attraverso una sua trasformazione interiore. Queste sono le due macrodirettive in cui si suddivide la cultura secolarista della modernità. Nel primo caso si tratta delle varie forme di materialismo e di ateismo “costruttivo” (dal libertinismo sino agli ateismi delle grandi ideologie scientiste illuministe o politiche otto-novecentesche). Nel secondo caso si tratta, invece, delle grandi cattedrali speculative della seconda modernità (illuministe, positiviste, idealiste), di cui il sistema hegeliano è la forma più matura e potente. In questo secondo caso la secolarizzazione coincide con la ricomprensione della religione e del cristianesimo come parti di una più vasta totalità razionale.

Tale atteggiamento ha due forme principali, legate tra loro da una certa logica consecutività. La prima forma, ancora limitativa, consiste nell’identificazione illuminista del contenuto essenziale del Cristianesimo con un insegnamento etico, anzi con l’espressione compiuta e insuperabile dell’eticità umana (cfr. Lessing, Rousseau, Kant). La seconda forma di ricomprensione tenta invece una più profonda reinterpretazione anche delle dimensioni religiosa, metafisica e storica del Cristianesimo, emarginate dal pensiero illuminista. Il Cristianesimo sarà allora inteso come la forma mitico-religiosa per eccellenza della coscienza metafisica dell’umanità, cioè espressione mitologica dell’identità dell’umano e del divino e allegoria della piena autorivelazione dell’Uomo-Dio. Il pensiero idealista non è tuttavia un pensiero anticristiano, ma al contrario, una sua massima celebrazione entro i limiti di un forte razionalismo (per il quale è la ragione il senso e la misura della fede). La secolarizzazione idealista è dunque una secolarizzazione ancora religiosa, nei contenuti e negli intendimenti; ma per sua logica interna essa rappresenta il perfetto contrario dell’umanesimo cristiano, in quanto sottopone il significato della fede a una misura esterna e superiore che rovescia il senso della signoria di Cristo: tutto ciò che è di Cristo e della sua Chiesa viene attribuito alla Ragione e al suo divenire storico come Spirito (cfr. Karl Barth).

 

Il cuore della vicenda

In sintesi, il mainstream della seconda modernità è leggibile come grande fenomeno di reinterpretazione secolarizzata dell’universale cristiano, in funzione di un nuovo e più alto progetto universalistico, cioè di un progetto che conserva molti contenuti dell’etica o della metafisica cristiane, in una chiave di ragione speculativa universale; in concreto, come affermazione della piena universalità della ragione moderna e dei suoi prodotti: scienza e metafisica, tecnica ed economia, diritto pubblico e Stato, legge morale e politica, a cui sono connessi anche importanti e nobili acquisizioni, come il riconoscimento dell’autonomia dei saperi, il principio di libertà individuale e sociale, il valore del pluralismo socio-culturale e politico, l’idea di democrazia e di laicità dello Stato, ecc. A mio avviso, è questo atteggiamento costruttivo di trasformazione dell’umanesimo cristiano e della sua sostituzione con una forma di umanesimo razionale superiore, il cuore della secolarizzazione e del suo processo storico e quindi una chiave interpretativa meno inadeguata. A esso corrisponde, in termini di senso comune, la lunga stagione di una circolazione ancora importante di valori cristiani antropologici-etici o metafisici-religiosi, ai quali però non corrisponde più la logica dell’umanesimo cristiano, cioè il suo metodo di costruzione. Potremmo parlare in proposito di una certa interpretazione di forme di civiltà cristiana a prescindere da Cristo e dalla Chiesa. D’altra parte la grande sintesi hegeliana è internamente esposta al rischio dell’ateismo. Se il Cristianesimo, e in generale la religione, non sono che un momento della coscienza di sé da parte dell’umanità, al culmine della sua autocoscienza critica, l’uomo si scopre solo con se stesso. E se la religione non è che il momento mitico della sua identità, la trascendenza religiosa appare come “alienazione” dell’uomo da se stesso. La totale immanenza dello spirito umano nello Spirito divino, proclamata dall’idealismo può avere anche il senso della totale riduzione del divino all’umano e alle sue forme storiche (cfr. Sinistra hegeliana, Feuerbach e Marx). Su questo fronte le due linee, del neoumanesimo idealista e quella dell’ateismo, si unificano.

 

Ateismo, fattore di nichilismo

L’ateismo, però, finisce a sua volta per ottenere un risultato paradossale: da una parte pretende di essere una concezione forte del mondo, dall’altra lavora per un pensiero che non può più appellarsi né a una rivelazione religiosa, né a un fondamento metafisico, finendo per abbandonare il problema del senso e un’idea costruttiva del mondo. Di fatto l’ateismo è, contro la sua intenzione, un potente fattore di nichilismo. Opportunamente F. Lyotard ha scritto che caratteristica del post-moderno, in quanto nichilista, è la caduta dei «grandi racconti» e la perdita di ogni spiegazione ultima. Si apre un nuovo scenario, quello della contestazione non solo del Cristianesimo e della religione, ma dello stesso tentativo di interpretare il mondo secondo una “visione” unitaria della storia e dell’uomo. Si apre cioè quello scenario in cui si delegittima non una qualche visione del mondo, ma l’idea stessa che vi sia un orizzonte inclusivo e comune. Si inaugura appunto l’età del nichilismo. Questa evoluzione s’incontra, a sua volta, con una terza tendenza moderna del processo secolarizzante, quella empiristica e pragmatista (a partire dalla matrice hobbesiana-lockiana-humiana) – decisiva per l’area anglofona – in cui alla crisi dell’universale umanistico cristiano non si è risposto né con l’opposizione, né con la sostituzione, bensì con una revisione radicale dell’idea stessa di universalità, alla luce dell’idea della sua piena dipendenza dall’esperienza empirica. La mentalità empiristica moderna propone come possibile un convivere umano a prescindere dal riconoscimento di una comunanza universale originaria, secondo il paradigma “liberale” classico individualista, tollerante e proceduralista. Questa tendenza, minoritaria lungo la modernità, assume un rilievo nuovo nell’attuale postmodernità, perché di questa condivide da sempre un’idea “debole” del pensiero, cioè la crisi dell’universalità antropologica, particolarmente funzionale a una riorganizzazione tecnocratica del mondo. È, infatti, il grande apparato tecnologico, la tecnostruttura di respiro mondiale, che, al tramonto delle grandi visioni moderne, sembra assumere oggi il ruolo del comun denominatore unificante, in virtù della sua universalità (sostitutiva di quella teologica e antropologica), che è in realtà solo un generalizzazione dei mezzi, incapace di per sé di fornire principi di senso e luoghi di riconoscimento; e perciò inadatta a unificare culturalmente e socialmente, se non nella forma temibile della totalità tecnocratica.

 

La fase attuale

Questo è il momento del processo in cui ci troviamo oggi. Momento caratterizzato da due dinamiche che si intrecciano continuamente nel concreto storico contemporaneo.

  • La coesistenza – in vario grado e modo secondo le culture e le circostanze – delle tendenze emerse e sedimentate lungo tutto il processo della secolarizzazione; per cui sono attive sia la tendenza alla privatizzazione religiosa, sia quella alla riduzione etica (per una religione a supporto di alcuni valori di libertà, tolleranza, solidarietà, …), sia quella all’avversione programmatica (per un mondo ipertecnologico o naturalista senza Cristianesimo e senza religione; l’“exclusive humanism” di Charles Taylor). Sembra oggi abbandonata, invece, l’idea – centrale nella modernità – di una cultura sostitutiva perché riassuntiva del Cristianesimo; cosa che si spiega con la seconda dinamica, cioè l’esito nichilista della secolarizzazione.
  • Il nichilismo, che coincide con la crisi postmoderna dell’universalità antropologica, vieta prospettive di edificazione globale (civiltà), ma permette solo riprogrammazioni tecniche del mondo (tecnocrazia). La sfida del nichilismo consiste, in questa prospettiva, nel tentativo di gestire razionalmente un mondo che non ha fondamento razionale, cioè di gestire un mondo di significati senza senso. Per questo il nichilismo è una “cultura della superficie” (emotiva, informativa, procedurale…), dove tutto ha cittadinanza, ma per giustapposizione; una cultura antidiscriminatoria, ma per assenza di giudizio valutativo e quindi avversa a tutto ciò che introduce valutazioni qualitative distintive. Una cultura che non è senza valori, ma ha i valori funzionali al mantenimento e all’ampliamento dell’indistinto, compresa l’inibizione a discutere il fondamento dei valori stessi: libertà e dignità, autodeterminazione e tolleranza, diritti e pluralismo, ecc., ma senza fondamento e qualità.

L’intreccio delle due dinamiche dà luogo a una situazione nuova, in cui i risultati della secolarizzazione moderna permangono, ma entro un contesto culturale che non è più quello dei miti moderni della Ragione e della Scienza, della Natura e dello Spirito, del Mercato e dello Stato, ma quello di un accadere senza fondamento e di un agire senza progetto storico, per cui il processo della secolarizzazione ha perso la sua spinta e anche la sua creatività, mentre rimangono (nell’ethos condiviso) grandi resti del suo percorso, come un oceano in burrasca che al termine della tempesta si ritira lasciando grandi e sparse tracce del suo passaggio.

 

Indigenza di universalità

Questo esito non si dà senza un altissimo costo, che sta affliggendo la cultura occidentale. L’esito nichilista pone drammaticamente l’uomo contemporaneo di fronte al problema analogo a quello che causò il processo stesso di secolarizzazione: se al suo inizio l’umanesimo cristiano sembrò divenuto impotente a fondare e promuovere l’universale umano e quindi parve necessario reperire nuove figure di questo, oggi la crisi nichilista della modernità pone l’uomo di fronte a un vertiginoso vuoto di universalità (di senso, di valore, di forme di vita; e quindi di comunicazione e di condivisione dell’esistenza), così che, al termine della parabola moderna, l’uomo europeo (e con lui l’occidentale) si trova in un’indigenza di universalità più grave di quella del suo inizio.

In questo contesto di fine d’epoca si spiega un certo ritorno del religioso: la pressione attiva della secolarizzazione si va allentando (non essendoci più nulla da secolarizzare, si potrebbe dire); mentre l’esito nichilista induce smarrimento in molti. La reviviscenza postsecolare del religioso – sociologicamente rubricata come de-secolarizzazione – presenta però ambivalenze significative. La desecolarizzazione smentisce i prognostici della sociologia religiosa che, a partire dagli anni ’60, prevedevano un’irreversibile (auto)marginalizzazione della religione. Le motivazioni della crescente deprivatizzazione del religioso esprimono invece molte istanze: l’esigenza di superare i parametri più riduttivi della modernità e della postmodernità; il bisogno di ricomposizione dell’identità antropologica, che ridia visione unitaria all’esistenza minacciata dalla dispersione nichilista del senso; la preoccupazione per le grandi problematiche antropologiche in gioco nel tempo presente, che non trovano risposta nella scienza e nella politica; e infine, rivolgono alla Chiesa e/o alle grandi tradizioni religiose una diffusa domanda di memoria storica, di valori universalisti, di ethos collettivo condiviso. Tuttavia le rilevazioni sociali sono unanimi nel constatare che questo nuovo processo viene accompagnato da una fondamentale tendenza soggettivista, che vuol dire riduzione del valore al sentire, del vero all’opinione; in particolare, depotenziamento della verità del credere e del valore dell’appartenenza ecclesiale. Anche la desecolarizzazione porta i segni del riduzionismo secolarista.

 

Un nuova tensione per cristiani e musulmani

D’altra parte, la novità della ripresa del religioso nel mondo (cfr. Casanova) consiste nella volontà delle religioni di affermare pubblicamene la propria identità non in dipendenza da ciò che è loro permesso dai modelli della privatizzazione moderna e dunque al di là delle negoziazioni procedurali del liberalismo, che misura con i suoi criteri quanto il religioso sia compatibile con una democrazia intesa come parametro neutro di convivenza (v. questione della laicità). Tutto ciò genera un’oggettiva situazione di tensione, sia nelle confessioni religiose cristiane, sia nelle comunità islamiche, che facilmente si ritrovano strette nell’alternativa – a cui le giovani generazioni sono particolarmente sensibili – tra un compromesso con i risultati della secolarizzazione e un’opposizione ad essi; tra una certa acquiescenza alla vita secolarizzata e un’opposizione tradizionalista o fondamentalista. In ogni caso, in prospettiva, a mio avviso l’area della privatizzazione o dell’indifferenza religiosa va riducendosi, a favore di due scelte opposte: quella di una religiosità post-secolare – anche di grandi masse popolari – gravata delle sue ambiguità, ma più consapevole della sua identità antropologica, irriducibile alle funzioni sociali attribuitele dalla tolleranza democratica; e quella – da parte di potenti élites radicali e tecnocratiche – di un’opposizione di principio all’intervento del religioso nella progettazione storico sociale del mondo globalizzato.

È qui che la considerazione dell’origine e della natura della secolarizzazione mostra la sua importanza. Infatti, se la secolarizzazione è identificata con una delle sue espressioni storiche (privatizzazione, negazione o sostituzione del religioso), la presa di posizione nei suoi confronti non potrà che essere reattiva, sia nella forma dell’acquiescenza, sia in quella dell’opposizione. Se, invece, si tiene conto della natura della secolarizzazione come discussione e crisi dell’umanesimo cristiano, ora che il processo della secolarizzazione è giunto al termine, ci si deve misurare direttamente con il vero nucleo del problema e si deve decidere quale posizione prendere, diventando così culturalmente attori protagonisti del problema e non restando suoi passivi ricettori o avversari. “Oggettivamente” questo significa assumere il peso di due interrogativi: è giusto consentire alla critica moderna dell’idea di “umanesimo cristiano”, come una purificazione storica della fede cristiana (problema del rapporto fede, cultura, cristianità, civiltà)? Se, invece, l’idea di umanesimo cristiano è irrinunciabile, che cosa esso significa dopo la secolarizzazione?

Nei confronti di questa ipercomplessa vicenda, mi sembra che il mondo musulmano si trovi in una condizione per un verso simile alla nostra: per un verso reagisce a esiti parziali della secolarizzazione, in modo acquiescente o aggressivo, senza giungere alla questione di fondo. Per un altro, invece, sembra che il radicalismo islamico faccia sua, di fatto, la risposta “spiritualista” alla secolarizzazione: questa è una purificazione della fede cristiana, che ne dimostra l’impossibile mondanità; mentre, d’altra parte, la crisi della secolarizzazione evidenzia l’incapacità dell’occidente moderno di gestire “spiritualmente” il suo sviluppo tecnico-scientifico. Su tutti i fronti, la conclusione della vicenda secolarizzante coincide non con il peso di un’eredità immutabile da gestire, ma con l’apertura di importanti scelte globali ancora da fare.

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