La crisi finanziaria ha scoperchiato il vuoto lasciato dalla secolarizzazione tecno-nichilista: nel mondo fantasmagorico creato espellendo Dio, la realtà si scopre privata della sua profondità. E di nuovo bisognosa di quel deposito di senso che sono le religioni

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:25

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La fase in cui si trovano le società avanzate – economicamente, politicamente e, soprattutto, spiritualmente esangui dopo un ventennio di potente espansione sistemica e soggettiva – permette di cogliere – con una chiarezza che ci era impossibile fino a qualche anno fa – la fondamentale “assenza” che attraversa queste società. Un’assenza derivante da una diffusa “sfiducia nell’essere”, che è da intendersi come conseguenza dell’eliminazione della questione della verità. Non sapendo più come trattarla, abbiamo deciso di accantonarla, ma così abbiamo aperto la strada a una serie di processi di cui cominciamo ora a misurare la portata.

Come la grande crisi finanziaria ha mostrato, iniziamo a fare i conti con le conseguenze di un processo di secolarizzazione sempre più spinto, che rischia di creare un mondo fantasmagorico in cui la realtà diventa sempre più superficiale, sottile – anche se ciò non significa meno violenta. In un contesto in cui arriviamo a dubitare della consistenza della realtà a prescindere dalla nostra soggettività, non dobbiamo stupirci se nella nostra esperienza, personale e collettiva, a prevalere siano le illusioni, le incertezze, le paure – cioè le nostre proiezioni soggettive – che fatalmente tendono a diventare autoreferenziali e vivere di vita propria. E quanto più la presa soggettiva su una tale realtà fantasmagorica diventa impossibile, tanto più si crea lo spazio per il pieno dispiegamento di un sistema tecnico integrato, che costituisce, in ultima istanza, l’ultimo residuo di ciò che oggi riusciamo ad assumere come “reale”.

Una tale diagnosi è prima di tutto evidente quando pensiamo all’Europa. La sua incapacità di darsi un progetto – culturale prima ancora che politico – deriva, in ultima istanza, dal fatto che il suo nome (Europa) non è più in grado di “nominarla”, nel senso che non riesce più cogliere un’essenza, cioè una vocazione. Privata di una “chiamata” – che non può che emergere dalla rilettura della sua storia passata in rapporto alle sfide presenti e alle prospettive future – in un contesto culturale dominato da un pluralismo disordinato e cacofonico, l’Europa prova a esistere attraverso il mercato e le regole astratte dettate dalla burocrazia di Bruxelles. Ma il risultato, come possiamo ben vedere, non può che essere deludente, al punto da arrivare a mettere a rischio la stessa unità europea.

E fuori dall’Europa – pensiamo prima di tutto a quanto sta avvenendo nei paesi del Nord Africa – la secolarizzazione spinta perseguita da alcune componenti occidentali, sotto le spoglie della sua presunta innocenza, scatena forti reazioni di tipo fondamentalistico, che sono l’altro lato della medaglia degli effetti prodotti dalla perduta di consistenza della realtà.

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Nella notte europea

La fase storica alle nostre spalle (1989-2008) è quella che segue la fine delle ideologie storiche – responsabili di quel “progressismo aggressivo” che ha mietuto decine di milioni di vittime – e, con essa, la “fine del tempo e l’apertura dello spazio”. Dopo il tempo escatologico, a venir meno è stato anche il tempo utopico: il sol dell’avvenire è tramontato e sull’Europa sembra calare la notte. Entriamo dunque più profondamente nella società orizzontale, dove lo spazio ha la pretesa di prevalere sul tempo (sull’asse passato-futuro). Sul piano sociale, si passa dal tema dell’uguaglianza – la società degli uguali – al tema della differenza – la società dei diversi. Nel nuovo contesto, emergono la leggerezza della vita quotidiana, l’attrazione dell’evento, l’autenticità della singolarità individuale, l’aumento delle opportunità, i diritti individuali.

Alimentata tanto dall’ala di sinistra – “io sono legislatore di me stesso” – quanto dall’ala di destra – “ciascuno è tanto più libero quante più scelte ha davanti a sé” – la libertà, che per la prima volta nella storia diventa un’esperienza di massa, comincia a pensarsi come apertura, cioè come sperimentazione e vagabondaggio. È nel rifiuto edipico del padre e della tradizione che si comincia a parlare di auto-realizzazione. Esercizio peraltro impossibile, che si risolve in un’ingenua apertura nei confronti del nuovo, dell’ignoto quando non dell’assurdo. Una libertà ab-soluta – cioè slegata da tutto – finisce così per farsi attirare dal fascino vorticoso del naufragio, dell’eccesso, del «trash sublime» (Žižek). O, nella sua forma mediocre, ad accontentarsi di piccoli godimenti seriali che cercano di saturare una soggettività senza fondamento.

La centratura sull’Io si lega così alla progressiva perdita di consistenza della realtà: la società orizzontale tende a diventare una società piatta dove prevale quello che De Certeau chiamava «il regime dell’equivalenza» – dove tutto, ridotto a mera opinione, è per definizione, e dunque deve rimanere, uguale a tutto. Un regime senza profondità.

 

Se la realtà si appiattisce

Tanto a livello culturale (decostruzionismo e filosofia analitica) quanto a livello scientifico (positivismo ed evoluzionismo), abbiamo imparato a smontare e rimontare la realtà che ci circonda. A questa attività ci dedichiamo con entusiasmo, tanto attraverso la ricerca scientifica e la realizzazione tecnologica quanto tramite la sperimentazione esistenziale: non avvertiamo più alcun vincolo ai nostri slanci e alle nostre emozioni, che tendiamo a far coincidere con un desiderio innominato e innominabile.

L’uomo contemporaneo ama pensarsi come un “modesto” alchimista. Anche se, tale modestia si traduce poi nel suo contrario per l’effetto combinato che la vita sociale organizzata produce. Si entra, così, in una fase nuova del nichilismo nietzschiano. La volontà di potenza non aspira più al superuomo e ai suoi folli disegni politici e militari e accede, invece, all’ordinario, alle relazioni affettive, ai godimenti quotidiani, al piccolo cabotaggio. Ad affermarsi è un cheering nihilism che si dà nella forma di un individualismo radicale caratterizzato proprio da quella profonda sfiducia nei confronti dell’essere a cui si è fatto riferimento.

Dal punto di vista dell’analisi sociale, tale postura esistenziale si regge su due apparati istituzionali, che prendono forma nel quadro di un progressivo sganciamento tra legein e teukein. Il legein – parola/ragione – tende a indebolirsi nella sua capacità di legare, cioè di costruire un senso attraverso la parola, smarrisce il suo aggancio all’essere e, di conseguenza, alla realtà. La svolta linguistica, avvenuta sul piano filosofico, determina una trasformazione profonda del modo in cui i significati vengono prodotti e fatti circolare nelle società avanzate. Intrecciandosi alla rivoluzione permanente dei mezzi di comunicazione mediale, un tale posizione scava profondamente nella nostra vita personale e sociale, che viene progressivamente assorbita in nuovi ambienti comunicativi, con la formazione di quello che può essere definito “spazio estetico mediatizzato”. Uno spazio dove la comunicazione perde il suo ancoraggio alla “verità” – e, di conseguenza, alla realtà – per diventare mera espressione dell’emittente. Nello spazio estetico mediatizzato, l’unico criterio accettato è il raggiungimento dell’effetto: una comunicazione è vera se è performativa, cioè se produce il suo scopo.

Dal lato del teukein, ciò che viene genericamente indicato come tecnicizzazione, più precisamente consiste nella progressiva estensione e infittimento del “sistema tecnico planetario” che tende a pervadere tanto la nostra vita quotidiana quanto gli apparati che reggono un’organizzazione sociale sempre più complessa. Per la sua natura sistemica, il sistema tecnico planetario tende ad avere un effetto normativo, imponendo procedure, standard, criteri performativi.

Il nesso tra spazio estetico mediatizzato e sistema tecnico planetario è la disposizione soggettiva di tipo esplorativo di cui abbiamo parlato. Tale nesso si stabilisce attorno al circuito potenza-volontà di potenza. Un circuito che comporta l’instaurazione di ciò che Bateson chiama «doppio legame»: l’individuo deve essere se stesso e, al tempo stesso, essere aperto a tutte le possibilità; deve scegliere e, al tempo stesso, non credere a niente; deve godere e, al tempo stesso, performare.

 

L’immanenza dinamica

La novità di una tale configurazione sta nel fatto che la forma sociale che si viene a costituire è “immanenza in movimento”. Si tratta di una configurazione immanente in quanto, per principio, rifiuta la trascendenza – cioè tutto ciò che va al di là del dato accertabile empiricamente o esperibile soggettivisticamente. L’essere umano non riconosce più alcuna figliolanza – qualcosa prima dell’Io – e chiede di essere pienamente titolare della propria parte di eredità, di “ciò che gli spetta”. Pretendendo che “tutto il mondo giri attorno a me”, facciamo perdere spessore alla realtà, che si riduce al mero susseguirsi di accadimenti singolari. Tuttavia, non si tratta di un’immanenza statica – aspetto che ha storicamente reso indigesta l’immanenza alla cultura occidentale, da sempre abituata al movimento dato dalla trascendenza.

Nel tecno-nichilismo la capacità di “dare movimento” attraverso la moltiplicazione della contingenza, creando, in modo illimitato, nuove opportunità attraverso l’innovazione tecnica e nuovi significati attraverso la rappresentazione comunicativa, sorregge la pretesa di aver finalmente raggiunto la capacità di sfuggire alla staticità dell’immanenza. La nuova immanenza è, infatti, continuo movimento, moltiplicazione della contingenza, apertura alle nuove opportunità, esplorazione dell’inedito. Scientificamente e sistematicamente pensata per “soddisfarci” (o meglio, per saturarci), essa finisce per imprigionare nel “regime dell’equivalenza”, arrivando così a costituire una nuova forma di secolarizzazione (nei fatti più che nelle dichiarazioni), inospitale alla trascendenza – cioè alla profondità dell’essere – e da qui alla fede.

 

Lo smarrimento del senso

Si comprende, dunque, che la nuova stagione della secolarizzazione – che spinge alcuni autori a parlare di “crisi della fede” – derivi da una fondamentale sfiducia nell’essere, accusato di implicare una visione delle cose troppo rigida, autoritaria, normativa. Il vero attacco alla fede nasce da qui.

A questo proposito, Taylor ha parlato di «umanesimo esclusivo ed immanente». Plessner, a sua volta, già parlava di «società del congiuntivo categorico». Ma il risultato non cambia: la nozione di contingenza si afferma secondo una semantica relativistica alimentando una visione puramente immanentistica. Nella misura in cui il logos non riesce più a nominare, a “vocare”, il senso svanisce, il pathos dilaga nella sua forma emozionale e la tecnica (sistemica) si afferma senza più incontrare alcuna opposizione, trasformandosi da mezzo in fine (si pensi a taluni sviluppi nell’ambito biotecnologico o anche alla finanziarizzazione dell’economia mondiale).

L’esito finale di tale mutamento, in una società in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo «una possibilità umana tra le altre», è una forma di «antirealismo» in cui si afferma una concezione della libertà come pura autodeterminazione (e, come tale, costitutivamente esposta a derive deliranti). Il relativismo sfonda in nichilismo. Il relativismo era un passo indietro, perché assumeva la realtà e impegnava a una presa di posizione. Ora invece, la pura apertura è l’unico valore che viene salvato ed esso comporta la polverizzazione di ogni posizione.

La conferma più clamorosa di questa affermazione la si trova nelle ragioni profonde che stanno dietro la grande crisi finanziaria e la pretesa dell’uomo contemporaneo di produrre una crescita economica slegata dal suo riferimento alla realtà umana, sociale, culturale, politica e istituzionale circostante. Tale concezione, svuotando la vita della sua dimensione tragica ed eroica, lascia senza risposta il problema del senso, cioè delle fonti del significato più profondo dell’esistenza. Ecco perché, paradossalmente, dietro la facciata gaudente, essa finisce per stimolare la pulsione di morte.

 

La fecondità della crisi

La crisi allora, denunciando l’insostenibilità del tecno-nichilismo e imponendo il ritorno della realtà, apre la possibilità di una stagione nuova. La condizione è che sappiamo fare tesoro della dura lezione di cui essa è portatrice: nel momento in cui le pretese tecno-nichiliste si rilevano (drammaticamente) fallaci, fare i conti con la realtà e le sue interpellanze, al di là della centratura narcisistica sul sé e sulle sue proiezioni tecniche, appare oggi più plausibile di quanto non fosse solo qualche anno fa. Da questo punto di vista, la secolarizzazione occidentale, ed europea in particolare, pare essere approdata ad un nuovo delicato passaggio. Esso apre lo spazio per una nuova sintesi che torni a guardare alla trascendenza non come un altrove, ma come una profondità, come una chiamata alla sovrabbondanza. Mi limito qui a segnalare due punti particolarmente importanti:

  1. L’esperienza religiosa, sia nella sua declinazione personale sia in quella collettiva, costituisce uno dei pochi topoi in cui il pensiero tecno-nichilista può essere efficacemente messo in discussione. La possibilità di mantenere una resistenza, un ancoraggio, una rocciosità nell’orizzonte fantasmagorico del capitalismo tecno-nichilista rappresenta una risorsa essenziale – primariamente – di libertà. Da questo punto di vista, le religioni, come depositi profondi di conoscenza e sapienza, costituiscono riserve preziose di senso e significato, indispensabili per permettere alle democrazia contemporanee di sfuggire al regime dell’equivalenza e alla società piatta.
  2. A proposito della libertà che abbiamo tanto faticosamente conquistato è necessario riconoscere che l’idea di autorealizzazione, che in questi anni si è affermata, assomiglia molto alla riduzione, al livello umano, dell’idea di onnipotenza di un Dio che tende a non avere bisogno dell’altro e della realtà. Ma Dio, a me pare, non si autorealizza. La sua realizzazione, per così dire, passa dal far essere, dal far esistere, in una relazione di amore e responsabilità che non viene mai meno. Da questo punto di vista, l’idea di generatività – che lo psicologo Erikson introduce per descrivere il superamento della fase adolescenziale e l’ingresso nella vita adulta – suggerisce una via per oltrepassare il ripiegamento narcisistico dell’individualismo contemporaneo, alla ricerca di un nuovo umanismo.

 

Bibliografia essenziale

Gregory Bateson, Don D. Jackson, Jay D. Haley, John Weakland, Toward a Theory of Schizophrenia, «Behavioral Science» 1 (1956), 251-264.

Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001.

Erik Erikson, Infanzia e società, Armando, Torino 2008 (1950).

Mauro Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012.

Helmut Plessner, Der kategorische Konjunktiv. Ein Versuch über die Leidenschaft (1968), in Id., Gesammelte Schriften, vol. 8, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, 338-352.

Charles Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

Slavoij Žižek, Il trash sublime, Mimesis, Milano-Udine 2013.

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