I social media hanno avuto un ruolo determinante nelle rivoluzioni del 2011, permettendo di aggirare la censura e mettere in atto nuove forme di mobilitazione. Molto presto, però, è risultato evidente che da soli questi strumenti sono incapaci di produrre il cambiamento politico.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:38

I social media hanno avuto un ruolo determinante nelle rivoluzioni del 2011, permettendo di aggirare la censura e mettere in atto nuove forme di mobilitazione. Molto presto, però, è risultato evidente che da soli questi strumenti sono incapaci di produrre il cambiamento politico. Inoltre, i regimi contro i quali i manifestanti sono insorti hanno imparato a reprimere il dissenso utilizzando le stesse armi che lo avevano reso possibile. La resistenza al dispotismo non è finita, ma deve reinventarsi.

 

Lo scoppio della Primavera araba nel 2011 ha suscitato un’inedita ondata di speranze in una transizione rapida e indolore verso la democratizzazione e la riforma, accompagnata e ispirata da un’altrettanto inedita ondata di tecno-euforia e da un’elevata fiducia nel grande potenziale dei social media quali promotori del cambiamento politico. A dieci anni dall’avvio delle rivolte in Tunisia e dalla deflagrazione di proteste infuocate in altri cinque Paesi arabi, molte di queste speranze e di questi sogni sono svaniti. Con la sola eccezione della Tunisia, nei cosiddetti Paesi post-Primavera araba i risultati sono ben lontani dall’ideale: guerra civile e grave crisi umanitaria in Siria; fine dello Stato e caos dilagante in Libia; guerra e violenza in Yemen; una rivolta soffocata e dimenticata in Bahrein e ritorno alla dittatura militare in Egitto.

 

Questi arretramenti lungo la strada della riforma politica e della democrazia sono stati accompagnati e resi possibili da un’impennata nell’uso di strategie controrivoluzionarie da parte di regimi repressivi. Tra queste figura l’autoritarismo digitale, inteso come lo sforzo sistematico di schiacciare il dissenso usando quelle stesse armi che lo avevano reso possibile.

 

Tali sviluppi ci obbligano a riconsiderare le potenzialità e i limiti dell’attivismo digitale, vale a dire il ricorso ai social media come strumenti di cambiamento, spingendoci a valutare le loro dinamiche attuali e a prevedere le loro direttrici future, nel momento in cui in questa regione tanto instabile è in corso un tira e molla digitale tra i regimi e i loro oppositori.

 

 

Il momento d’oro dell’attivismo digitale

 

L’euforia digitale manifestatasi nei primi momenti di queste nuove travolgenti ondate di rivolta si è tradotta in definizioni come “Rivoluzione Facebook dell’Egitto”, “Rivolta Twitter della Tunisia” e “Rivolta YouTube della Siria”, che evidenziavano il ruolo dei social media come fattore decisivo nel successo iniziale delle proteste.

 

I social media hanno contribuito a spianare la strada al processo di transizione democratica, fungendo da acceleratori e amplificatori delle richieste di riforma, da piattaforme di auto-espressione, da canali per la comunicazione, il collegamento e l’organizzazione, e rivelandosi anche costruttori di ponti tra i giovani attivisti e i loro seguaci, in patria e nella diaspora, e tra il mondo virtuale e il mondo reale. Queste molteplici dimensioni possono essere classificate in tre grandi funzioni: preparare le rivolte, documentare le proteste in corso e gli abusi dei governi e mobilitare e coordinare le azioni contro i regimi.

 

La prima funzione, quella di battistrada delle rivolte, è stata svolta soprattutto dai cittadini giornalisti, come i blogger in Egitto e Tunisia, che hanno infranto il tabù che vietava di trattare questioni sensibili, quali le violazioni dei diritti umani e la corruzione dei regimi. Questo ha avuto delle ripercussioni sui media tradizionali, costretti a rompere il silenzio su questi temi, contribuendo a creare l’ambiente necessario per la resistenza e la protesta pubblica.

 

La funzione di documentazione si è manifestata nella diffusione planetaria di molte delle immagini emblematiche della Primavera araba, riprese e caricate online direttamente da giovani attivisti, oppure registrate e poi trasmesse a un pubblico più ampio dai canali televisivi satellitari. Se non fosse stato per questo lavoro, il mondo non avrebbe saputo delle atrocità commesse in un Paese come la Siria dal regime al potere, che ha proibito l’accesso ai giornalisti stranieri e ai media regionali e internazionali.

 

La capacità di mobilitazione è dimostrata dal modo in cui Facebook è stato efficacemente utilizzato come strumento di collegamento e di coordinamento. Esemplare in questo senso è il caso della pagina Facebook “Siamo tutti Khaled Said”, che è stato uno dei principali catalizzatori della rivoluzione egiziana del 2011, rivelandosi determinante nel sensibilizzare le persone sulle violazioni dei diritti umani e sulla brutalità della polizia. Anche Twitter si è dimostrato un eccellente strumento per organizzare la mobilitazione sul campo coordinandola minuto per minuto.

 

Svolgendo tutti questi ruoli, l’attivismo digitale ha contribuito, per la prima volta, a creare un ponte tra il mondo virtuale e il mondo reale, trasformandosi da spazio sicuro in cui i cittadini possono sfogare la loro rabbia, la loro frustrazione e il loro risentimento, ma senza suscitare una protesta generalizzata contro i regimi, in strumento di mobilitazione, azionato per sostenere una rivolta su larga scala.

 

I limiti dell’attivismo digitale

 

Nonostante l’attivismo digitale abbia manifestato chiaramente tutte le sue potenzialità durante le rivolte della Primavera araba, altrettanto evidenti sono stati i limiti di questo fenomeno quando si è trattato di portare a termine una transizione democratica.

 

Uno di questi limiti è rappresentato dal fatto che l’efficacia dei social media dipende in gran parte dall’ambiente politico circostante e dal suo grado di maggiore o minore unità e solidarietà. Nei momenti in cui prevalgono gli obiettivi comuni, come quando durante la rivoluzione egiziana del 2011 tutti gli egiziani intonavano gli stessi slogan («Il popolo vuole rovesciare il regime» o «Mubarak se ne deve andare»), i social media possono rivelarsi molto utili per cementare l’unità e amplificare le voci di protesta, fungendo da catalizzatori, mobilitatori e costruttori di reti.

 

Tuttavia, quando la solidarietà lascia il posto a divisioni profonde, a polarizzazioni estreme e a una pericolosa frammentazione, come è accaduto in molti Paesi dopo la Primavera araba, tra cui l’Egitto dopo il colpo di Stato militare del giugno 2013, i social media tendono ad ampliare il divario tra i diversi gruppi, facendo crescere tensioni e divisioni. Ciascuna fazione, infatti, utilizza i propri canali social come armi per attaccare gli avversari e per difendersi. Ciò intensifica il processo di polarizzazione, sia online che offline, favorendo bolle virtuali e conflitti urlati, anziché dialoghi illuminati, atteggiamenti costruttivi e alleanze.

 

È stato anche dimostrato che i social media non riescono, da soli, a promuovere l’impegno civico e non sono sufficienti a colmare il vuoto di potere che si verifica in una società nei momenti di transizione post-rivoluzionaria. Molti Paesi che hanno vissuto le rivolte della Primavera araba hanno patito l’assenza di una società civile attiva e ben radicata, di movimenti di opposizione organizzati, di istituzioni locali strutturate e di meccanismi di resistenza efficaci. L’assenza di una società civile vivace, unita a una leadership debole e solo parzialmente strutturata anziché centralizzata, organizzata ed esperta, ha portato a un vuoto di potere, ciò che ha contribuito all’arretramento dei processi di democratizzazione e alla delusione che oggi si registra in molti Paesi della Primavera araba.

 

Uno degli ostacoli che ha impedito di colmare questo vuoto di potere è stato il “divario digitale”, cioè la distanza tra chi ha accesso alla tecnologia e chi ne è escluso. Esso è particolarmente significativo in una regione con bassi tassi di alfabetizzazione, per non parlare dell’alfabetizzazione digitale, e che, con la sola eccezione della regione del Golfo, si trova ad affrontare grandi sfide socio-economiche e una forte carenza di infrastrutture. Ciò significa che il fenomeno dell’attivismo digitale, rappresentato perlopiù da giovani attivisti di ceto medio-alto, istruiti e versati nella tecnologia, non è riuscito a raggiungere segmenti più ampi e diversificati della popolazione.

 

I social media hanno aperto la strada alla transizione politica nella regione offrendo un ambiente complessivamente più disponibile e favorevole al cambiamento, ma non sono però riusciti a supplire a quelle carenze che hanno impedito la trasformazione pacifica in una democrazia. I social media non sono strumenti magici e, da soli, non possono produrre riforme e democratizzazione, né possono supplire all’assenza di una società civile veramente vivace o fornire soluzioni radicali e sostenibili alla corruzione, all’ingiustizia, alla polarizzazione e alla presenza di uno Stato profondo ben radicato.

 

Dal “freno di emergenza” agli “eserciti digitali”

 

Se durante la Primavera araba molti attivisti, oppositori e giornalisti hanno fatto ricorso alle piattaforme online per esprimere le loro opinioni, eludendo in questo modo il controllo statale e l’intervento dei governi, è anche vero che molti di questi regimi hanno progressivamente imparato a rispondere a questa sfida, inventando nuove misure per reprimere gli oppositori non soltanto sul campo ma anche online.

 

Un rapido confronto tra il passato e il presente mostra che i regimi autoritari del mondo arabo hanno fatto molta strada nell’ambito relativamente nuovo dell’autoritarismo digitale. Quando le rivolte sono scoppiate nel 2011, molti di questi regimi erano piuttosto in ritardo rispetto ai giovani attivisti digitali, versati nella tecnologia e ben coordinati. I governi sono stati colti di sorpresa e molti di essi, presi dal panico, hanno messo in atto azioni controproducenti, come impedire l’accesso a Internet per un’intera settimana nel caso dell’Egitto, una decisione comunemente nota come “azionamento del freno di emergenza”. Questa strategia fallimentare si è ritorta contro il regime, dal momento che gli egiziani si sono riversati in gran numero nelle piazze offrendosi a vicenda solidarietà e supporto. Nel frattempo, essi hanno scoperto nuovi modi per comunicare e diffondere il loro messaggio al resto del mondo, per esempio il servizio “Speak to Tweet”, che prevedeva la possibilità di trasmettere oralmente il proprio messaggio a Twitter attraverso il telefono senza bisogno di una connessione Internet.

 

Memore di questa lezione, il regime siriano ha deciso di spegnere Internet soltanto il giovedì sera e il venerdì – i giorni in cui le possibilità di assembramento e di proteste erano maggiori – per evitare il contraccolpo che si era verificato in Egitto ma anche le enormi perdite economiche provocate dalla disattivazione di Internet e dei servizi di telefonia mobile per un’intera settimana. Soprattutto, però, ha creato l’“Esercito elettronico siriano”, una squadra di hacker professionisti la cui missione era individuare i siti web degli oppositori, sabotare i loro account e interrompere le loro iniziative e attività online.

 

Quando nell’estate del 2013 in Egitto è scoppiata la controrivoluzione contro Mohammed Morsi, il primo presidente democraticamente eletto nella storia del Paese, coloro che lo contestavano partecipando al movimento Tamarrud (Ribellione) hanno fatto ricorso ai social media per diffondere il loro messaggio e raccogliere sostegno alla loro causa, attirando la nostra attenzione sulle potenzialità rivoluzionarie e controrivoluzionarie dei social media. Dopo tutto, sono semplici “strumenti” nelle mani di diversi attori.

 

Guardando da vicino le curve di apprendimento digitale dei regimi arabi, si nota chiaramente come essi stiano affinando le loro armi per reprimere il dissenso. I regimi hanno acquisito dimestichezza con strumenti e tecniche nuovi, tra cui lo schieramento di “eserciti elettronici” capaci di contrattaccare digitalmente attraverso l’hackeraggio, il trolling, il sabotaggio e il blocco degli account dei loro oppositori. Questo solleva nuove domande sull’efficacia del dissenso e sulle ripercussioni di queste tecnologie sulle libertà politiche e sulla libertà d’informazione nei Paesi arabi.

 

La resistenza araba si reinventa

 

Allo stesso tempo, i recenti sviluppi sia nel panorama politico che in quello della comunicazione del mondo arabo dimostrano chiaramente che la resistenza alla dittatura può essere stata ostacolata, zittita o bloccata in diversi Paesi arabi, ma certamente non è morta.

 

Affievolitesi nella maggior parte dei Paesi protagonisti della prima ondata di rivolte, nel 2019 le fiamme della Primavera araba sono tornate a divampare con una seconda ondata di proteste in Algeria, Sudan, Libano e Iraq. Queste proteste presentavano alcune somiglianze con quelle del 2011, nonostante i contesti, i programmi e le motivazioni fossero differenti. Ripetute, frequenti e organizzate, esse puntavano infatti a mettere pressione sui regimi perché ascoltassero le richieste del popolo e rispondessero alle sue istanze di cambiamento e riforma, combinando l’attivismo online e una maggiore e più estesa mobilitazione e organizzazione sul campo. I manifestanti hanno dato così prova di aver imparato la lezione: il ricorso al solo attivismo digitale non è sufficiente per raggiungere i propri obiettivi politici.

 

Le proteste più limitate scoppiate in Egitto a settembre 2019 e di nuovo a settembre 2020, innescate principalmente da problemi economici e dal peggioramento delle condizioni di vita, hanno segnato un cambio di passo non solo per la priorità data alla protesta sul campo, ma anche per i luoghi in cui si sono verificate. Se quelle del 2011 erano concentrate perlopiù nelle aree urbane, le proteste del 2019 si sono spostate nelle aree prevalentemente rurali e nei quartieri poveri.

 

Inoltre, con l’aumento dei livelli di repressione nei Paesi che hanno partecipato alla Primavera araba è aumentato anche il fenomeno dei giornalisti, degli attivisti e degli oppositori che, temendo per la sicurezza propria e delle loro famiglie, fuggono dai loro Paesi cercando rifugio all’estero. Questo fenomeno inedito di opposizione araba in esilio, in aumento negli ultimi anni, ha aperto nuove possibilità di resistenza ai regimi autoritari. Com’era prevedibile, uno dei primi strumenti a cui hanno fatto ricorso i membri di questa opposizione araba è stato l’attivismo digitale. La natura globale dello spazio digitale ha consentito loro di creare efficaci ponti di comunicazione sia con i loro Paesi d’origine che con la comunità globale, aumentando sia la forza che la portata della loro voce.

 

Sono dunque lo stesso ruolo dei cittadini giornalisti e il loro attivismo a dover essere ripensati e questo è particolarmente vero nel caso degli attivisti della diaspora, che già avevano svolto un ruolo importante nel dare avvio ai movimenti della Primavera araba nei loro Paesi, conducendo un’azione di sensibilizzazione sulle questioni chiave, incoraggiando la mobilitazione, mettendo in contatto le persone e offrendo il loro sostegno materiale e morale. Un buon esempio è rappresentato dall’opposizione siriana in esilio, che come abbiamo già detto utilizza efficacemente i social media per sensibilizzare sulle atrocità e le tragedie della crisi politica e umanitaria in Siria e per raccogliere fondi a sostegno dei rifugiati siriani nel mondo. Ma il fenomeno è in crescita ovunque, con lo scambio attraverso il cyber-spazio di conoscenze e consigli utili tra gli oppositori in esilio di vari regimi arabi dittatoriali.

 

Si sta in generale assistendo a un incremento sia dell’attivismo che della visibilità di singoli esponenti dell’opposizione nella diaspora. È il caso per esempio dell’egiziano Mohamed Ali, diventato molto popolare sulle piattaforme digitali dopo aver reso note informazioni sensibili sulla corruzione nelle alte sfere del governo del suo Paese attraverso la sua pagina social Asrār Muhammad ‘Alī – Mohamed Ali Secrets (I segreti di Mohamed Ali), più volte hackerata e sabotata. Analogamente, anche il giovane attivista e noto dissidente saudita Omar Abdul Aziz ha guadagnato molta notorietà sui social media attraverso i suoi tweet e i suoi video. Questo l’ha esposto non solo ad attacchi contro i suoi account social, più volte hackerati e bloccati, ma anche a minacce alla sua sicurezza personale e a quella della sua famiglia in Arabia Saudita.

 

Questi esempi dimostrano che la tendenza all’attivismo digitale, con tutti i suoi punti di forza e le sue debolezze, le sue potenzialità e i suoi limiti, non può essere confinata al momento della Primavera araba del 2011. Continua infatti a crescere, a espandersi e a reinventarsi in una regione in cui oltre il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. Questa popolazione vivace, energica, orientata al cambiamento e versata nella tecnologia continuerà molto probabilmente ad affidarsi ai nuovi metodi di comunicazione nelle sue incessanti battaglie per la liberazione, l’autoespressione, l’autodeterminazione, benché con ritmi e strumenti diversi.

 

Sfide, paradossi e traiettorie delle guerre digitali in corso

 

Il conflitto che oppone i regimi in carica e chi sceglie di denunciare i loro misfatti – siano essi attivisti, dissidenti, cittadini giornalisti o giornalisti di professione – è dunque segnato da una tendenza all’inasprimento dei metodi autoritari di controllo, che stanno diventando purtroppo la nuova normalità nella regione.

 

Nel valutare queste dinamiche, occorre indagare a fondo le tendenze emergenti e i cambiamenti che si stanno profilando, rispondendo a una serie di domande urgenti: quanto sono efficaci gli strumenti e le tecniche come il trolling, l’hackeraggio, il blocco e il sabotaggio adottati dai regimi per mettere a tacere i loro avversari digitali? Quali strumenti e tecniche prediligono gli oppositori, in patria e nella diaspora, per sfidare i regimi, e quanto sono efficaci? Quali somiglianze e differenze ci sono nell’ambito delle “guerre digitali” tra i vari governi arabi da un lato e tra i loro oppositori dall’altro?

 

Per rispondere a questi interrogativi è necessario considerare una pluralità di fattori, dall’abilità tecnologica degli attori coinvolti alle potenzialità dei messaggi che veicolano, e far interagire diverse aree di ricerca, alcune delle quali rimangono poco esplorate. Mi riferisco per esempio all’interazione tra le sfere pubbliche arabe e quelle transnazionali o i movimenti anti-autoritari nelle diaspore.

 

A ciò si aggiungono i cambiamenti prodotti dalla pandemia di Coronavirus. Con il pretesto di proteggere il pubblico dalla disinformazione, i regimi arabi hanno infatti lanciato una massiccia repressione delle voci dissidenti che hanno osato sfidare la narrazione ufficiale degli Stati sull’emergenza sanitaria. Inoltre, molti di questi regimi hanno adottato nuove applicazioni per il tracciamento dei contatti e la sorveglianza che, con la scusa di salvaguardare la salute e il benessere dei cittadini, offrono loro nuove possibilità di consolidare il proprio controllo sulla società.

 

Tuttavia, ogni nuova ondata di repressione governativa, che sia online o offline, alimenterà verosimilmente un’ondata di resistenza altrettanto forte nella direzione opposta. In fondo, l’attivismo arabo, compreso quello digitale, può essere stato sì bloccato, ostacolato e messo a dura prova, ma non è certo morto. Lo dimostrano la seconda ondata di rivolte arabe del 2019 e del 2020, la resistenza e l’attivismo arabo della diaspora, e il coraggio di giornalisti e attivisti digitali che pagano un prezzo molto alto per far sentire le loro voci, perdendo il lavoro, la libertà, o addirittura la vita pur di fare in modo che le fiamme soffocate delle rivoluzioni arabe incompiute non si estinguano del tutto.

 
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Sahar Khamis, Tra euforia digitale e cyber-autoritarismo. Le due facce della tecnologia, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 94-102.

 

Riferimento al formato digitale:

Sahar Khamis, Tra euforia digitale e cyber-autoritarismo. Le due facce della tecnologia, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/euforia-digitale-cyber-autoritarismo-tecnologia

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