Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:45:33

Dopo quasi otto mesi di conflitto, il governo etiope ha dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale nella regione del Tigray. La comunicazione da parte delle autorità etiopi è giunta poco dopo che l’amministrazione ad interim del Tigray, nominata da Addis Abeba, ha abbandonato il capoluogo Macallè, non prima di sparare su alcuni studenti dell’Università della città, riporta l’Associated Press.  

 

Stando a quanto affermato dal comunicato di Addis Abeba, il cessate-il-fuoco è motivato da ragioni umanitarie e in particolare dalla necessità di permettere ai contadini del Tigray di occuparsi della semina e in seguito del raccolto, onde evitare il peggioramento della carestia, anche se non è chiaro come le sementi e i materiali necessari potranno raggiungere il territorio tigrino. Per questo motivo la tregua dovrebbe durare comunque fino a settembre. Inoltre, le forze tigrine hanno etichettato l’annuncio come uno scherzo (Al Jazeera).

 

Uno dei problemi di questa guerra è la difficoltà di reperire informazioni su aree remote da cui sono quasi completamente estromessi giornalisti e operatori umanitari. Una di queste aree è quella di Mai Kinetal, da cui però è giunta a Macallè una lettera nella quale sono riportati dati allarmanti: nella regione, difficile da raggiungere, sono già 125 i morti di fame, «non c’è accesso all’acqua potabile; elettricità, comunicazioni telefoniche, servizi bancari, sanità e accesso agli aiuti umanitari sono bloccati», ha scritto il capo del distretto di Mai Kinetal Berhe Desta Gebremariam, il quale ha poi specificato che «la gente è impossibilitata a spostarsi per salvare le proprie vite perché le truppe eritree ci hanno messo completamente sotto assedio».

 

Con il ritiro delle forze etiopi e – sembrerebbe – di quelle eritree, nelle strade di Macallè, Scirè e Adua sono incominciati festeggiamenti e fuochi d’artificio per celebrare il ritorno delle forze afferenti al Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF).

 

Ma il cessate-il-fuoco, come anticipato, è unilaterale. I ribelli del TPLF hanno continuato la loro avanzata, impadronendosi del capoluogo Macallè ma affermando anche la volontà di proseguire i combattimenti e inseguire i soldati eritrei fin nel loro Paese. Ma non solo. Le autorità tigrine hanno promesso di fare lo stesso con le milizie ahmara per «assicurarsi che il nemico non abbia più la capacità di minacciare la sicurezza del nostro popolo». La branca della regione Ahmara del Partito della Prosperità del Presidente Abiy Ahmed ha però ricordato ai tigrini del TPLF di non essere pronta a cedere le i territori a ovest del fiume Tacazzè. Si tratta di territori che i tigrini rivendicano come parte del Tigray, mentre gli ahmara li ritengono di loro proprietà (Addis Standard). Ma la riconquista del bassopiano di Humera, ha scritto Luca Puddu su Limes, è fondamentale per le forze tigrine. Esso infatti «ripristinerebbe il canale d’approvvigionamento diretto con Khartoum, il cui sostegno potrebbe rivelarsi dirimente in previsione della ripresa delle ostilità dopo la stagione della semina».

 

Quali saranno le conseguenze del ritiro dal Tigray delle forze leali ad Addis Abeba? Anzitutto, osserva Vivienne Nunis, corrispondente da Nairobi della BBC, la scelta di dichiarare la tregua per ragioni umanitarie proprio mentre i ribelli proseguivano l’avanzata è interpretabile come un tentativo da parte del primo ministro etiope di salvare la faccia. Ma «sul piano della politica domestica – afferma Nicola Pedde – la disfatta militare costituisce un grave elemento di crisi per la credibilità e la tenuta politica del governo del primo ministro Abiy Ahmed». E a rischio non è tanto il futuro politico del premio Nobel per la Pace, quanto la «strategia centralista e nazionalista del primo ministro, già fortemente ostacolata dalle sempre più forti spinte dell’etno-nazionalismo etiopico, rischia di deflagrare in conflitto politico su larga scala in buona parte del Paese».

 

La CNN ha inoltre condotto una nuova inchiesta dalla quale emergono ulteriori elementi riguardo alle atrocità commesse dalle forze etiopi ed eritree nel Tigray.

 

Tra lo scontro in Siria e Iraq e i negoziati di Vienna

 

Domenica notte gli Stati Uniti hanno bombardato alcuni insediamenti a cavallo tra Siria e Iraq utilizzati delle milizie sciite filoiraniane. Da quado il presidente Joe Biden è entrato in carica si tratta della seconda volta che gli americani compiono questo tipo di azioni, nota l’Associated Press.

 

Secondo le autorità statunitensi, l’azione è una risposta agli attacchi con droni eseguiti dalla milizia Kataib Sayyid al-Shuhada e Kataib Hezbollah. Le stesse autorità hanno poi comunicato che lunedì sera in Siria le forze americane sono state oggetto di attacchi con razzi, che non hanno provocato morti. Nessuno ha rivendicato l’attacco, i cui video sono però stati diffusi sui canali Telegram delle milizie filo-Teheran.

 

Il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John Kirby, ha affermato che le operazioni statunitensi sono di natura difensiva e hanno lo scopo di ristabilire la deterrenza nell’area, in quella che sostanzialmente si configura come la continuazione della strategia della precedente amministrazione Trump. Think – NBC News critica la posizione di Washington: il sistema di deterrenza nell’area non è qualcosa di traballante, che quindi può essere rinforzato. Semplicemente, si legge, è inesistente. Ed è per questo che ogni azione di questo tipo non farà altro che aumentare gli attacchi alle forze americane, portando presto o tardi alla morte di qualche americano. Il rischio, perciò, è che si produca proprio quell’evento che questa strategia ritiene profondamente intollerabile e che dovrebbe servire a evitare. Per questo – sostiene Geoff LaMear – gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente ritararsi dall’Iraq e dalla Siria, anche perché impedire il ritorno di Isis nell’area non è più una questione militare», bensì politica.

 

Al contrario in Siria – suggerisce l’Atlantic Council – gli Stati Uniti dovrebbero intervenire su un altro problema: la trasformazione dello Stato siriano in un narco-Stato. L’America non è nelle condizioni di distruggere questa struttura, funzionale al miglioramento delle casse dello Stato siriano, ma può intraprendere azioni a basso rischio per mettere fine all’impunità di cui hanno goduto finora i trafficanti, portando un beneficio a tutta la regione.

 

Mentre si attende l’inizio del nuovo round di negoziati sul nucleare iraniano, sul campo aumentano le tensioni e l’Iran continua ad arricchire l’uranio. Per questo il Segretario di Stato Antony Blinken, intervistato del New York Times, ha detto che gli Stati Uniti si stanno pericolosamente avvicinando al momento in cui saranno costretti a interrompere i negoziati indiretti. L’inviato speciale Robert Malley ha invece espresso una posizione leggermente più ottimistica (NPR). Tuttavia il diplomatico russo Mikhail Ulyanov, ha confermato che i negoziati non riprenderanno prima della settimana prossima. Ci si aspetta che sia il round finale dei colloqui, ma le parti – ha scritto Ulyanov su Twitter – hanno bisogno di più tempo per prepararsi. Uno dei punti al centro della controversia è la richiesta iraniana di un’assicurazione che in futuro gli Stati Uniti non si ritireranno nuovamente dall’accordo, ma è tutt’altro che chiaro come una garanzia del genere potrebbe prendere forma (The Guardian). Eppure, senza una qualche forma assicurazione, gli operatori stranieri (in particolare europei) non avrebbero la fiducia necessaria per investire nell’economia iraniana, come nota l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite Majid Takht-Ravanchi.

 

Lapid negli Emirati, Abbas sotto attacco

 

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas,  il cui mandato è scaduto nel 2009, è sotto pressione in seguito alla morte, probabilmente a causa delle percosse subite dalle forze di sicurezza palestinesi, dell’attivista Nizar Benat, che ha scatenato proteste in molte zone della Cisgiordania. Le manifestazioni sono state represse con la forza, scrive l’Associated Press, che sottolinea come le manifestazioni innescate dalla morte di Benat abbiano radici profonde. Nascono infatti dal crollo della popolarità dell’Autorità Palestinese, scavalcata dall’ascesa di Hamas e sempre più considerata corrotta e intollerante verso il dissenso. Abbas può comunque contare sul sostegno occidentale, che «ha investito molto nella sopravvivenza della PA» e su quello di Israele.

 

Questa settimana si segnala inoltre che per la terza volta dall’inizio della tregua Israele ha bombardato la striscia di Gaza (senza provocare vittime), ma soprattutto occorre sottolineare la storica visita di Yair Lapid negli Emirati Arabi Uniti, prima visita ufficiale di un ministro israeliano ad Abu Dhabi.

 

Quella di Lapid è una visita importante non solamente sotto l’aspetto simbolico, ma perché rappresenta il primo contatto formale tra i due Paesi da quando in maggio si è verificata l’ultima escalation tra Israele e Hamas, scrive la BBC. Durante la visita Lapid ha inaugurato due sedi diplomatiche e siglato un accordo di cooperazione commerciale, oltre ad annunciare, come riporta France24, che altri accordi seguiranno. Il governo guidato da Naftali Bennett mira così a rafforzare la cooperazione con emiratini e statunitensi. Infatti, osserva Limes, «la visita di Lapid si è svolta quasi in contemporanea a quella del presidente israeliano Reuven Rivlin negli Stati Uniti, dove ha incontrato anche l’ambasciatore di Abu Dhabi a Washington».

 

Persiste dunque, nonostante qualche imbarazzo per i bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza, la convergenza di interessi tra Israele (che vuole ricevere investimenti esteri) ed Emirati (che vedono nell’accordo con Israele la certificazione del loro status geopolitico), si legge sempre sulla BBC. Uno status geopolitico che è profondamente cambiato rispetto a quando a regnare sulla federazione dei sette emirati era il fondatore, Sheikh Zayed, che definiva Israele un «nemico» da cui «nessuna nazione araba è al sicuro». Il nuovo approccio è basato sull’accumulo di una grande ricchezza, grazie alla quale gli Emirati proiettano la loro influenza in Medio Oriente e nel Nord Africa.

 

Via da Bagram

 

Oggi gli Stati Uniti hanno formalmente ceduto all’esercito di Kabul il controllo della base aerea di Bagram, epicentro della presenza americana in Afghanistan dopo il 2001, che al suo culmine ha ospitato 100.000 soldati americani. Secondo al-Jazeera si tratta del segno più evidente che le ultime forze statunitensi stanno abbandonando il Paese o sono in procinto di farlo. Il timore sempre più concreto è che i talebani possano approfittare del ritiro americano, tanto che il governo afghano ha riattivato alcune milizie irregolari per assistere l’esercito, nota sempre il network di Doha. Come ha scritto Pamela Constable sul Washington Post, a fare le spese di un ritorno al potere dei talebani sono in particolare gli sciiti hazara, già oggetto di numerosissimi attacchi.

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Otto anni senza i Fratelli Musulmani in Egitto

 

Il 30 giugno in Egitto si è commemorato l’ottavo anniversario della rivoluzione popolare che nel 2013 portò alla destituzione dell’allora presidente Muhammad Morsi, decretando la fine della breve esperienza di governo dei Fratelli Musulmani. La stampa egiziana filo-regime ha celebrato con grande retorica questo evento e lo stesso hanno fatto i media di alcuni altri Paesi arabi notoriamente ostili all’Islam politico.    

 

Il direttore di al-Ahrām Magid Munir ha definito la rivoluzione del 30 giugno «una fuga da un futuro fosco». Per lui, il 30 giugno è «il grande e tanto atteso sogno dopo anni di emarginazione e arretratezza, un sogno andato quasi perduto a causa degli eventi successivi al gennaio 2011, che miravano ad annientare lo Stato egiziano, neutralizzarne la forza, dividerne le parti e persino abbatterlo per muovere i Paesi della regione come pezzi degli scacchi».

 

Il ministro delle Finanze egiziano considera la rivoluzione del 30 giugno un momento di rinascita del Paese, in cui gli egiziani hanno «scelto la vita e la ricostruzione, rifiutando di sottomettersi alle forze del male». Nelle sue parole, il presidente ‘Abdel Fattah al-Sisi ha lanciato un grande movimento di sviluppo per cambiare la vita in terra d’Egitto e migliorare le condizioni dei cittadini, garantendo, per esempio, il servizio di assistenza sanitaria a tutti.

 

Anche i leader religiosi egiziani si sono congratulati con al-Sisi. Secondo il Papa della Chiesa copta ortodossa Tawadros II, l’Egitto «vive un nuovo rinascimento e raccoglie i frutti della rivoluzione del 30 giugno». Su Sawt al-Azhar, il settimanale della moschea di al-Azhar, il grande imam Ahmad al-Tayyib ha parlato della necessità di continuare a seguire e sostenere «la saggia leadership [di Sisi], le sue forze armate e le sue istituzioni nazionali ben guidate». Un intervento, quello dell’imam al-Tayyib, che non sorprende dal momento che al-Azhar ha svolto un ruolo importante nella rivoluzione del 30 giugno, sintetizzato in 9 punti sul quotidiano filo-regime al-Youm7.

 

Nel Golfo, il quotidiano emiratino al-‘Ayn titola “L’ottavo anniversario del 30 giugno... l’ancora di salvezza dal pericolo dei Fratelli” e celebra la fine «dell’organizzazione terroristica dei Fratelli Musulmani» e dei loro tentativi di «fratellizzare lo Stato e dividere il Paese». L’autore dell’articolo spiega compiaciuto che anche a livello internazionale la Fratellanza ha subito una battuta d’arresto e ha perso i suoi «porti sicuri» visto che Ankara e Doha hanno manifestato la loro intenzione di consegnare alla magistratura egiziana i Fratelli fuggiti da Sisi e rifugiatisi in Turchia e in Qatar. Per al-‘Ayn, gli egiziani vivono un’era di nuovi successi, il cui emblema è la pomposa parata delle mummie di inizio aprile, quando al Cairo i corpi mummificati di 18 re e 4 regine dell’Antico Egitto sono stati trasferiti dal Museo Egizio di piazza Tahrir, che le ha ospitate per un secolo, al nuovo Museo Nazionale della Civiltà Egizia a Fustat, la parte più antica del Cairo.

 

Sul Al-Arabī al-Jadīd (quotidiano con sede a Londra), il giornalista egiziano Alaa al-Bayoumi si è interrogato sulle ragioni per cui i manifestanti del 2011 non hanno preso il potere dopo le dimissioni di Hosni Mubarak, lasciando campo libero ai militari. L’autore individua 5 cause: l’effetto sorpresa della rivoluzione, che ha colto impreparati gli stessi attivisti; lo stato di disgregazione in cui si trovavano le forze politiche all’indomani della rivoluzione; la coesione dell’esercito egiziano, un’istituzione che godeva di prestigio e del sostegno internazionale; la remissività degli attori politici, i quali si sono limitati a chiedere delle riforme al Consiglio militare anziché le sue dimissioni; il perdurare della frammentazione delle forze politiche, incapaci di dialogare e costituire un fronte compatto.

 

Di segno nettamente opposto sono le considerazioni pubblicate su al-Jazeera. Il quotidiano qatariota coglie l’occasione dell’anniversario del 30 giugno per denunciare le vessazioni a cui sono sottoposti i Fratelli Musulmani in Egitto e titola “La fobia della Fratellanza in Egitto tra disumanizzazione e ideologia della sicurezza nazionale”. Ahmed al-Ghoneymi, autore dell’articolo, fa una lunga disamina delle misure volte a colpire i militanti egiziani della Fratellanza, dalle condanne a morte inflitte dal regime ad alcuni esponenti del movimento, alla proposta di legge che prevede il licenziamento dei dipendenti statali affiliati ai Fratelli Musulmani o loro semplici simpatizzanti.

 

In breve

 

La produzione di petrolio da parte dei Paesi OPEC è aumentata in giugno di 855.000 barili al giorno, guidata dalla ripresa della domanda delle economie che cercano di uscire dalla crisi pandemica. Più della metà dell’aumento di produzione è attribuibile all’Arabia Saudita (Bloomberg).

 

Sono circa 33.000 gli egiziani in esilio politico in Turchia, finora considerata rifugio sicuro dagli oppositori del presidente al-Sisi. Oggi molti di loro vivono nella paura che il riavvicinamento tra Ankara e il Cairo porti alla loro estradizione (Middle East Eye).

 

La crisi in Libano è gravissima. L’esercito, incredibilmente a corto di risorse e di valuta straniera, ha comunicato questa settimana che offrirà ai turisti l’opportunità di fare dei giri in elicotteri dietro il pagamento (rigorosamente in contanti) di 150 dollari (The National).

 

Un blackout ha colpito Baghdad e le province meridionali dell’Iraq alle prese con temperature record (51 gradi a Bassora). Il blackout dovrebbe essere dovuto all’interruzione della linea elettrica che porta energia da Baghdad verso sud, a sua volta causato o da un atto di sabotaggio oppure da un sovraccarico (Haaretz).

 

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