Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:33:38

Nel focus attualità di oggi ci soffermiamo in primo luogo sui negoziati sul nucleare iraniano e su come l’attacco (verosimilmente israeliano) a Natanz possa influire su di essi. Proviamo poi a gettare un po’ di luce sul “grande gioco” che coinvolge la Turchia dalla Libia all’Afghanistan passando per l’Ucraina. Facciamo poi tappa in Siria, per mostrare gli effetti della crisi economica, la presenza jihadista sul campo e un approfondimento su Asma Assad, moglie di Bashar. Ultimo ma non ultimo, l’approfondimento dalla stampa araba di oggi è dedicato alla grande diga etiope che toglie il sonno a Sudan ed Egitto.

 

Un’interruzione di corrente elettrica, probabilmente causata da un’esplosione, ha colpito il sito nucleare di Natanz, in Iran, ritardando di circa nove mesi il programma nucleare iraniano, proprio dopo che Teheran aveva installato nuove centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. La Repubblica Islamica ha accusato Israele che non ha né confermato né smentito ufficialmente. Eppure, come ha fatto notare Martin Chulov sul Guardian, diversamente dal consueto modus operandi, Israele non ha imposto la censura sulla copertura mediatica dell’attacco a Natanz e la radio pubblica si è spinta a dire apertamente che il Mossad ha avuto un ruolo nell’azione. Ali Akbar Salehi, responsabile dell’agenzia nucleare iraniana, ha parlato in risposta di «terrorismo nucleare» (Teheran Times).

 

Quanto avvenuto solleva alcune domande. Primo: inciderà sui negoziati in corso a Vienna? E se sì, come? Secondo Stratfor sono poche le probabilità di un impatto significativo sull’esito dei negoziati: il programma nucleare «permette all’Iran di acquisire preziosa conoscenza tecnica in un settore strategico per la sua sicurezza e difesa nazionale, che non abbandonerà, non importa quanto grande sia la minaccia presentata da Israele. È perciò improbabile che l’incidente [a Natanz] influisca su quale tipo di concessioni nucleari l’Iran» sarà disposto a fare.

D’altro canto, è sicuro che qualsiasi chiusura o limitazione del funzionamento della struttura di Natanz sia visto come una vittoria tattica da parte di Israele. Meno certezze su quale sia stato il reale obiettivo israeliano. L’unica cosa che sappiamo al 100%, ha scritto Anshel Pfeffer su Haaretz, è che un attacco del genere è stato programmato ben prima che Teheran e Washington accettassero di far ripartire i negoziati indiretti a Vienna.

 

Secondo interrogativo: come reagirà l’Iran? Da un lato minaccia vendetta, ma dall’altro la pondera attentamente. Come ha spiegato Henry Rome, la Repubblica Islamica sarà costretta a dimostrare che gli attacchi compiuti nei suoi confronti non sono a costo zero, ma al tempo stesso la risposta non può essere così dura da rendere politicamente insostenibile la posizione occidentale di sostegno al negoziato.

 

Per ora la reazione iraniana è consistita nell’inizio del processo di arricchimento dell’uranio al 60%, twittato con orgoglio dallo speaker del Parlamento Mohammed Qalibaf, e in un attacco non confermato a due navi commerciali di proprietà israeliana al largo di Fujairah (Al-Jazeera). Giovedì inoltre, mentre a Vienna ricominciavano i colloqui, il presidente della Repubblica Hassan Rouhani ha sottolineato che l’Iran ha le capacità tecniche per arricchire l’uranio al 90%, quota sufficiente per realizzare un’arma nucleare (al-Monitor).

La guida suprema Ali Khamenei ha tuttavia confermato l’intenzione iraniana di portare avanti i colloqui di Vienna anche se, nota il Financial Times, non sembra esserci spazio per un accordo generale di compromesso tra le parti perché il regime teme che «qualsiasi inversione a U possa essere interpretata come un segnale di debolezza che metterebbe in pericolo la sopravvivenza della Repubblica islamica e la fedeltà dei proxies in Libano, Iraq, Siria, Yemen e Palestina».

 

Terza domanda: come è possibile attaccare così “facilmente” l’Iran? Amwaj Media scrive che alcuni ufficiali iraniani, come l’ex capo delle Guardie rivoluzionarie Mohsen Rezaee, sostengono che l’attacco a Natanz abbia evidenziato per l’ennesima volta la necessità di far luce sulle numerose infiltrazioni all’interno delle forze di sicurezza iraniane. Un tema già emerso dopo l’uccisione di Qassem Soleimani a gennaio 2020.

 

Quarta e ultima domanda: come stanno reagendo gli Stati arabi della regione, ostili all’Iran? Su questo versante si è osservato un cambiamento provenire dall’Arabia Saudita, poco pubblicizzato ma probabilmente significativo. L’ambasciatore saudita Rayd Krimly, capo della pianificazione politica al Ministero saudita degli Esteri, ha affermato a Reuters che «l’Arabia Saudita non è interessata a ostacolare o bloccare gli attuali negoziati, [bensì] ad assicurare il loro successo». Riyadh ha inoltre dichiarato che qualsiasi accordo dovrebbe essere il punto di inizio di un più ampio negoziato tra gli Stati della regione. Si tratta di un considerevole mutamento rispetto alla posizione assunta dal Regno prima del 2015.

 

Un grande gioco con al centro la Turchia

 

La settimana scorsa abbiamo affrontato il tema dei rapporti tesi tra la Turchia e l’Italia. Avevamo anche parlato del tentativo del premier greco Mitsotakis di convincere il libico Dbeibah a ricusare l’accordo siglato con la Turchia sui confini marittimi. La risposta della Turchia non si è fatta attendere ed Erdogan ha “convocato” Dbeibah e numerosi ministri libici ad Ankara (Hurriyet). Il passaggio dall’essere uno Stato distrutto alle “sfilate” diplomatiche è stato fulmineo. Una rapidità sospetta, sostiene Tarek Megerisi: restano numerosi gli «allarmi rossi» a Tripoli, a cominciare dal silenzio del Generale Khalifa Hatfar. Secondo Megerisi, «la detente [in Libia] continuerà fino a quando i soldi fluiranno, ma si dissolverà una volta che i piani confliggenti degli Stati [Russia, Turchia, Emirati ed Egitto, ndr] per dominare la riforma politica e securitaria della Libia collideranno».

 

Ad ogni modo, l’esito dell’incontro tra Dbeibah ed Erdogan è stato, come scrive Reuters, la conferma della validità dell’accordo sui confini marittimi tra Tripoli e Ankara, mentre The Arab Weekly sottolinea che la visita attesta che la Turchia rimane il «Paese più importante nell’orizzonte libico». Il caso libico evidenzia le frizioni tra i Paesi occidentali e la Turchia, ma d’altro canto l’Occidente non sembra intenzionato a rinunciare alla sua alleanza con Erdogan. Al contrario, e il caso dell’Afghanistan lo dimostra. Vediamo perché.

 

Il presidente americano Joe Biden ha annunciato il ritiro completo delle forze americane e NATO dall’Afghanistan entro la data evocativa dell’11 settembre 2021. Ma nel frattempo è alla Turchia che Washington si è rivolta per ospitare e gestire «ad aprile negoziati di alto livello sul processo di pace in Afghanistan tra governo e talebani», nota l’Asia Times. Il ruolo turco in questo scenario è di fondamentale importanza per gli Stati Uniti, si legge sul quotidiano asiatico, che infatti cercano di mantenere la Turchia saldamente ancorata al campo occidentale: Ankara «diventa un modello per la strategia di doppio contenimento che Washington opera nei confronti di Russia e Cina». Non solo: la Turchia sembra assumere una diversa postura anche nel Mar Nero. Come riporta al-Monitor, la settimana scorsa Erdogan ha fornito il suo sostegno inequivocabile all’Ucraina di fronte alle rinnovate tensioni con i separatisti filo-russi nel Donbass, evidenziando l’allineamento a Washington.

 

Torniamo brevemente all’Afghanistan. Cosa sarà del Paese dopo il ritiro occidentale? Un editoriale pubblicato dalla redazione del Washington Post avverte: se l’assunto su cui Biden fonda il ritiro americano – e cioè una moderazione dei talebani e la loro partecipazione alla transizione politica – fosse sbagliato, l’Afghanistan si troverebbe semplicemente in una situazione come quella precedente al 2001. Un reportage della BBC dal distretto di Balkh non lascia presagire nulla di buono: «vogliamo un governo islamico basato sulla sharia. Continueremo il nostro jihad fino a quando [il governo afghano] accetterà le nostre richieste», ha affermato il capo locale dei talebani.

 

Siria: crisi economica, presenza jihadista e il ruolo di Asma Assad

 

In Siria le città di Lattakia e Tartous, a maggioranza alawita, sono state parzialmente risparmiate dalle peggiori devastazioni della guerra. Al momento è sicuramente difficile avere stime precise relative alle componenti etniche e religiose siriane, ma secondo Diana Darke la percentuale degli alawiti in Siria, la componente a cui appartiene il presidente Bashar al-Assad, potrebbe essere salita dal 10 al 15%, soprattutto perché la maggior parte di coloro che hanno abbandonato il Paese sono sunniti.

 

Opinione generale è che Assad abbia trovato nella sua comunità di origine una solida base. Tuttavia, secondo Alex Simon, direttore del programma-Siria di Synaps, interrogato dal Financial Times, sono i legami economici, più che quelli confessionali, ad aver motivato il sostegno alawita nei confronti del regime siriano. Qualcosa potrebbe cambiare? Forse sì, perché questi legami sono messi a dura prova. La situazione economica è al collasso a causa della guerra e delle sanzioni, mentre il Covid e la crisi finanziaria nel vicino Libano non fanno che peggiorare la situazione. Adesso, nota il Financial Times, l’inflazione alle stelle riduce pesantemente il salario di soldati e impiegati pubblici (prevalentemente alawiti), più del 60% della popolazione non ha accesso a un quantitativo sufficiente di cibo e 13 milioni di persone sopravvivono solo grazie agli aiuti. A ciò si aggiunga che lo Stato esercita sempre più prepotentemente la raccolta di tasse e multe, a causa dello stato di estrema necessità finanziaria in cui si trova. Il quotidiano inglese si domanda dunque se la fedeltà al regime siriano da parte degli alawiti potrebbe venire meno, ma conclude che il ritorno di proteste di massa è improbabile, a causa della capacità repressiva del regime.

 

Sul campo la situazione rimane complicata. Secondo quanto riporta Khaled al-Khateb su al-Monitor, a Idlib l’organizzazione jihadista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) sta compiendo una campagna di arresti e uccisioni contro Hurras al-Din, gruppo filo al-Qaeda. Sull’esito dell’iniziativa di HTS le persone interpellate da al-Monitor si dividono. Al-Farouq Abu Bakr, comandante di una brigata dell’Esercito libero siriano, afferma che «Hurras al-Din è un’organizzazione difficilmente eliminabile in questa maniera. È perciò troppo presto per ritenere che la sua fine sia vicina». Il gruppo qaedista potrebbe quindi riprendere vigore non appena muteranno le condizioni securitarie e la campagna di HTS si affievolirà. Al contrario Fares an-Nour, del Fronte di liberazione nazionale di Idlib, è dell’idea che Hurras al-Din sia molto vicina alla sua scomparsa e comunque non abbia più capacità operative. Un’opinione più sfumata è quella di Abbas Sharifeh, ricercatore di un think tank turco: «possiamo dire che Hurras al-Din è finita come organizzazione. Eppure ciò non significa che sia completamente scomparsa. I suoi membri sono ancora presenti e le sue celle attive, sebbene in segreto».

 

Ma purtroppo non c’è solo al-Qaida. Lo Stato Islamico è scomparso come entità territoriale, ma è riuscito a sopravvivere come organizzazione, soprattutto grazie ai ripari offerti dalle zone desertiche. Al-Monitor descrive alcuni dei recenti attacchi di IS, che è passato «dalla guerra convenzionale alla guerriglia per sopravvivere il più a lungo possibile», basandosi su imboscate e raid contro obiettivi piuttosto semplici, stando attento a evitare un confronto diretto con l’esercito siriano. Per raggiungere questo obiettivo, ha affermato Hamam Issa, lo Stato Islamico sta migliorando l’addestramento dei suoi combattenti e soprattutto accrescendo la sua capacità di approvvigionamento delle armi.

 

Jeune Afrique dedica un approfondimento (un racconto in sei atti) ad Asma Assad, moglie di Bashar. Se a inizio anni 2000 il vero governo in Siria era il “consiglio di famiglia”, di cui lei non faceva parte, la first lady siriana «si è imposta poco a poco come la comunicatrice di punta del regime». Asma ha cambiato l’immagine della Siria all’estero, un progetto culminato con l’invito in Francia per i festeggiamenti del 14 luglio 2008 da parte di Nicholas Sarkozy. Due anni dopo Paris Match, ricorda Jeune Afrique, celebra Asma Assad, paragonandola a Carla Bruni e Michelle Obama. Ma la vera consacrazione arriva nel marzo 2011, con l’edizione americana di Vogue che titola: «Asma, la rosa del deserto». Tuttavia con l’inizio della repressione delle proteste, chiosa Jeune Afrique, «il mondo ha realizzato che la rosa ha le spine» e la narrazione della vita di Asma da parte dei media occidentali è cambiata radicalmente. Asma Assad ha però continuato a lottare per il potere, emarginando il clan Makhlouf e in particolare Rami, cugino di Bashar, divenuto troppo potente, a beneficio proprio di Asma e del clan Akhras. Un modo, afferma a Jeune Afrique Ayman Abdel Nour, per dimostrare di essere pronta a garantire la transizione al figlio diciannovenne, qualora dovesse succedere qualcosa a Bashar.

 

In breve

 

Il Senato francese ha approvato in prima lettura la legge sul separatismo, inasprendone però alcuni aspetti, come quelli sull’indossare il velo o la “neutralità” dell’università (Le Figaro).

 

SaphirNews descrive gli emendamenti approvati dal Senato come “liberticidi” e ricorda che anche le chiese cristiane si oppongono a questo progetto di legge.

 

A causa di manifestazioni violente contro la scelta francese di permettere la pubblicazione di vignette su Maometto, l’Eliseo ha raccomandato ai propri cittadini e alle proprie imprese di lasciare temporaneamente il Pakistan (Politico).

 

Dopo le voci sul tentato colpo di Stato in Giordania, per la prima volta il principe Hamzah e Re Abdullah II sono apparsi insieme, a favor di telecamera (Reuters).

 

L’evoluzione e l’escalation della minaccia portata dallo Stato Islamico in Mozambico in un approfondimento del Foreign Policy Research Institute.

 

I libanesi, scrive Le Figaro, sono alla mercè di un sistema bancario semi-fallito.

 

Approfondimento dalla stampa araba: Alta tensione tra Etiopia, Egitto e Sudan

A cura di Chiara Pellegrino

 

Questa settimana la stampa araba ha dato ampio risalto alla controversia tra Etiopia, Egitto e Sudan circa la “diga del Rinascimento”, più comunemente nota in Occidente con l’acronimo di GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam). L’opera, i cui lavori di costruzione sono iniziati nel 2011, sorge in territorio etiope a pochi chilometri dal confine con il Sudan, sulle rive del Nilo Azzurro.

 

La disputa nasce dalla decisione dell’Etiopia di procedere con il secondo riempimento della diga il prossimo luglio in assenza di un accordo tra le parti in causa. L’Egitto e il Sudan temono per il loro approvvigionamento idrico. Nelle ultime settimane la situazione si è fatta esplosiva: c’è chi minaccia una guerra e chi, invece, continua ad auspicare una soluzione politica.

 

Il ministro sudanese dell’Irrigazione e delle Risorse idriche Yāsir ‘Abbās esclude un intervento militare. Intervistato dal quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, ha illustrato i rischi e i benefici della diga etiope per il suo Paese. Da un lato, la diga consente di regolare il flusso dell’acqua riducendo il rischio di inondazioni e aumentando la produzione di energia idroelettrica, dall’altro può diventare una minaccia se l’Etiopia non si impegna a firmare un accordo che stabilisca i tempi e i modi del suo riempimento. La diga del Rinascimento si trova a soli 15 chilometri dal confine sudanese e a 100 dalla diga di Roseires, uno dei principali sbarramenti del Sudan. Prevedendo una significativa diminuzione del flusso del Nilo Azzurro durante le settimane necessarie al riempimento, il Sudan, spiega il ministro, ha adottato fin d’ora alcune misure precauzionali, conservando un miliardo di metri cubi d’acqua nella diga di Roseires, pari a circa il 20% della sua capacità massima.

 

Stando alle dichiarazioni del ministro, l’Egitto invece, più del Sudan, sarebbe in grado di far fronte a una carenza temporanea d’acqua essendo la diga di Aswan grande il doppio rispetto alla diga del Rinascimento. Il problema si porrebbe nel caso in cui dovesse presentarsi un periodo di grande e prolungata siccità, come accadde negli anni ’80, quando la diga egiziana si prosciugò completamente. Se ciò si ripetesse, occorrerebbe decidere a quale delle due dighe dare la priorità in fase di successivo riempimento. La diga etiope infatti può immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi d’acqua, quella di Aswan arriva a 162 miliardi, ma il volume delle acque del Nilo Azzurro è di “soli” 50 miliardi di metri cubi l’anno.

 

Sulla linea antinterventista si colloca anche il ministro degli Esteri sudanese Maryam al-Sādiq, come riporta il quotidiano sudanese al-Sudāniyya. Non è invece dello stesso avviso il generale al-Tāhir Abū Hājja, consigliere della comunicazione del capo del Consiglio sovrano del Sudan, secondo il quale «privare dell’acqua [i Paesi] è il modo migliore per farsi dei nemici». Pochi giorni prima, il consigliere aveva dichiarato ad al-Jazeera che «la guerra dell’acqua con l’Etiopia è alle porte se il mondo non metterà fine all’irresponsabilità del regime etiope». 

 

La soluzione bellica sembra essere condivisa anche da alcune parti egiziane. In un articolo apparso sul quotidiano governativo egiziano Al-Ahrām, Khālid Qandīl – membro del Senato egiziano e Vicepresidente del Partito Wafd – ha elogiato la risolutezza con cui il presidente al-Sisi ha difeso gli interessi del Paese invitando «i fratelli in Etiopia» a non esagerare perché l’Egitto «è aperto a tutte le opzioni». Come riporta al-Nahār, da qualche settimana le forze aeree egiziane e sudanesi sono impegnate nelle esercitazioni militari “Nile Eagle 2” presso la base sudanese di Merowe, 380 chilometri a nord di Khartum.

 

Sul quotidiano al-‘Arabī al-Jadīd, con sede a Londra ma di proprietà di un editore del Qatar, il giornalista egiziano Nizār Qandīl si scaglia contro i colleghi suoi connazionali che «difendono il loro dittatore preferito e la sua disastrosa firma, nel 2015 a Khartoum, della cosiddetta “Dichiarazione dei principi”», l’accordo quadro che regola la costruzione della diga etiope. Questa dichiarazione avrebbe dato legittimità internazionale alla decisione dell’Etiopia di costruire la diga e reso lecito il finanziamento del progetto da parte della Banca Mondiale. La soluzione al problema, conclude, è ritirarsi dall’accordo. Pochi giorni prima della pubblicazione di questo editoriale, il ministro degli Esteri egiziano Sāmih Shoukrī aveva dichiarato che l’Egitto non si sarebbe ritirato dagli accordi che ha stipulato volontariamente, ma aveva lasciato aperta l’opzione bellica.

 

Nel frattempo il Cairo si è mossa anche sul piano diplomatico. Durante un incontro avvenuto lunedì nella capitale egiziana tra al-Sisi, il suo ministro degli Esteri e il ministro degli Esteri russo, Mosca si è proposta per mediare nella crisi, come ha riportato al-‘Arabiyya. Due giorni dopo, il ministro degli Esteri egiziano si è rivolto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mettendo in guardia circa i pericoli per la stabilità e la sicurezza della regione se Addis Abeba procederà al riempimento della diga senza prima aver firmato un accordo, come riporta il quotidiano egiziano al-Masrī al-Yawm. Da parte sua, il Primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed è fortemente contrario a internazionalizzare la crisi, preferendo l’intermediazione dell’Unione Africana.

 

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