Educare all’Islam /2. Il tema di una riforma della trasmissione del sapere religioso è rimasto aperto lungo tutto il XX secolo e ha determinato tre differenti fasi storiche improntate a una visione “moderata”, ma dagli anni ‘70 lo scenario è cambiato radicalmente. 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:28

Quando parliamo di “riforma” nelle istituzioni dell’insegnamento religioso e nella cultura e formazione del sapiente musulmano, dobbiamo distinguere, per il ventesimo secolo, tre fasi o epoche. Nella prima, corrispondente all’epoca dello shaykh Muhammad ‘Abduh e della sua scuola, con “riforma” si intense l’andare oltre la pura imitazione delle autorità riconosciute all’interno delle quattro scuole giuridiche sunnite, adottando il principio dello sforzo interpretativo personale (ijtihâd). Nel termine era compresa anche l’idea di far evolvere le amministrazioni responsabili della formazione e dei programmi educativi. Nella seconda fase, invece, a partire dagli anni Quaranta del ventesimo secolo, riforma significò adeguarsi sia alla politica delle istituzioni statali sia allo spirito del tempo e alle sue teorie, ricercando un deciso sviluppo culturale. Tre erano gli obiettivi prioritari in quel periodo: confrontarsi con il diritto moderno, in particolare nell’ambito giuridico dello statuto personale; essere in grado di affrontare i cambiamenti attraverso la promulgazione di fatwe e con uno studio approfondito dei problemi; rinnovare le conoscenze sulle altre religioni e culture per raccoglierne le sfide. Dalla fine del ventesimo secolo in poi, il concetto di riforma diventa infine, per gli specialisti, sinonimo dell’adozione di una posizione moderata ed equilibrata, che rifiuti radicalizzazione ed estremismo. Il tema della riforma rimase aperto lungo tutto il ventesimo secolo. Il cambiamento delle questioni dibattute non implicò, peraltro, che i problemi della fase precedente fossero risolti. A titolo di esempio si può citare l’appello dello shaykh Muhammad ‘Abduh [1] e dei suoi allievi. Esso era incentrato su due temi: da una parte lo sforzo personale (ijtihâd), ovvero il tentativo di rinnovare la comprensione dei testi e la modalità di deduzione delle norme attraverso l’adozione di un punto di vista rinnovato sull’eredità giuridica; dall’altra il miglioramento delle modalità di lavoro nelle istituzioni formative e nelle amministrazioni dei waqf [2], tale da produrre un cambiamento nella relazione tra lo shaykh e lo studente, come anche nella divisione delle competenze tra Stato e istituzioni private. Dopo un periodo a fasi alterne durato più di trent’anni, l’invito allo sforzo interpretativo personale (ijtihâd) conobbe una vittoria piena, nel senso che non rimase più nessuno, all’Azhar, alla Qarawiyyin di Fes o alla Zaytuna di Tunisi e ancor più nelle file sempre più numerose di salafiti, che non si esprimesse in tal senso. Non si realizzò invece la riforma delle amministrazioni e delle istituzioni religiose, ciò che determinò varie agitazioni studentesche e in Egitto indusse lo Stato a creare una scuola per la giurisdizione sharaitica, per preparare i giudici dei tribunali sharaitici [3]. Questo fatto causò una progressiva fuoriuscita della giurisdizione sharaitica dal controllo degli ulema di al-Azhar. Tale legislazione era restata in mano ai laureati dell’Azhar e degli istituti e scuole equivalenti per circa quattrocento anni ed è naturale che l’estromissione delle istituzioni religiose da questo campo non sia attribuibile solo all’insufficiente preparazione dei laureati. Infatti la giurisdizione sharaitica fu cancellata con un atto di forza nella Turchia kemalista degli anni Venti, poi nel 1955 in Egitto con un decreto che la ricondusse alla giurisdizione civile ordinaria. Così, all’incirca alla metà del ventesimo secolo, si manifestò alle istituzioni religiose la sfida dello Stato nazionale, che aveva già strutture molto sviluppate e forti istanze di controllo. Inoltre, la guerra fredda tra le due superpotenze divenne anche uno scontro culturale e, per tutte religioni, una sfida a cui rispondere. Da qui discende la mia affermazione che il segno distintivo di questa nuova fase, o il modo in cui fu allora compreso il concetto di riforma, consistette nell’armonizzarsi e nell’essere in grado di raccogliere adeguatamente le nuove sfide. Così fu necessario per le istituzioni religiose, nell’ambito della formazione e delle fatwe, tenere in considerazione la forza d’intervento del neonato Stato nazionale e i problemi legati alle nuove sfide su due livelli, arabo-islamico e mondiale. All’inizio ho scritto che “riforma” significa, da trent’anni a questa parte, una posizione moderata ed equilibrata nell’educazione fornita dalle istituzioni religiose e nella cultura del sapiente musulmano. Il fatto è che lo scenario è cambiato molto radicalmente negli anni Settanta del ventesimo secolo e le istituzioni religiose non hanno più il monopolio nella creazione della cultura dei religiosi, benché formalmente e tradizionalmente la formazione e la promulgazione di fatwe rimanga loro prerogativa. Da più di cinquant’anni infatti si sono manifestati appelli al “risveglio islamico”; ne sono derivati innumerevoli movimenti e partiti noti sotto l’appellativo di “Islam politico”. Questi movimenti sono dotati di propri propagandisti, imam e ideologi, ma anche di una teoria specifica o “visione” a proposito della relazione religione-Stato. La maggior parte dei propagandisti di questi movimenti non è composta da laureati delle istituzioni ufficiali per la formazione religiosa. Con i loro appelli rivoluzionari essi sono entrati in violento contrasto con i poteri istituzionali in tutti i Paesi del mondo arabo, sovente lacerando le istituzioni religiose ufficiali per il fascino esercitato da quegli appelli, basati su una nuova interpretazione del Libro e della Sunna [4], e per il grande seguito popolare e la notorietà mediatica che hanno conseguito. La Relazione con lo Stato Storicamente le istituzioni religiose sunnite non possiedono un carattere sacro né una validità esclusiva. Hanno piuttosto funzioni e specializzazioni importanti nella direzione dei riti religiosi, nella formazione religiosa, nell’applicazione della giurisdizione sharaitica e nell’emanazione di fatwe. È chiaro che queste funzioni, con l’eccezione dell’emanazione delle fatwe e forse della carica di shaykh dei sufi, dipendono per il loro svolgimento dal coordinamento con lo Stato o dal conferimento di un incarico o permesso statale. La relazione tra Stato e istituzioni religiose è stata per lo più accettabile o buona. Oggi, però, non è più così per numerose ragioni. Oltre alla pretesa di una leadership politica forte, lo Stato nazionale arabo ha anche una retorica dello sviluppo e della modernizzazione. In passato numerosi apparati statali dovettero constatare che i rappresentanti delle istituzioni religiose non si inserivano nel modo desiderato nell’ideologia modernizzatrice nazionale e perciò esercitarono una forte pressione su di esse, privandole di buona parte della loro autorevolezza. Quei Paesi arabi che non abolirono o perseguitarono le istituzioni religiose tradizionali riuscirono comunque a controllarle, sfruttandole poi come base d’appoggio e giustificazione ideologica del proprio potere. Ciò le indebolì agli occhi del popolo e le sottopose alla pressione dei movimenti islamici rivoluzionari. È noto come i movimenti fondamentalisti siano più forti nei Paesi arabi che ne cercano l’annientamento rispetto a quelli che cercano di controllarli, e non c’è dubbio che la  difficile relazione con lo Stato abbia influenzato la consapevolezza dei religiosi inducendoli a scendere a patti con lo Stato o alla  disubbidienza. In entrambi i casi, il religioso di formazione istituzionale vive una situazione precaria per il ridotto margine di autorevolezza che gli rimane nella gestione di questioni importanti quali lo svolgimento delle funzioni religiose, la direzione della  vita della moschea, l’emanazione di fatwe e l’educazione. L’altra questione che influenza fortemente la consapevolezza e la cultura del religioso è lo sconvolgimento intellettuale che i movimenti dell’Islam politico hanno prodotto nella comprensione della relazione tra religione e Stato. Secondo questi movimenti, la religione islamica esige la realizzazione di uno Stato che applichi la sharî’a. L’Islam, nell’opinione di Hasan al-Banna è “religione e Stato, Libro Sacro e spada”. Prova della forza di questo pensiero è che negli ultimi decenni nessun esponente delle istituzioni religiose tradizionali abbia dissentito apertamente da questa tesi, anche se personalmente non ne era convinto e anche se questa posizione andava contro i suoi interessi istituzionali.  C’è infine una terza questione assai importante nella consapevolezza del religioso musulmano, e non soltanto sunnita, rispetto al mondo contemporaneo. Da diversi decenni infatti si è fatta strada tutta un’ideologia a proposito dell’occidentalizzazione, del proselitismo cristiano, del colonialismo, dell’orientalismo e della razzia culturale. Il revivalismo islamico ha collegato tra loro tali questioni eterogenee nelle menti degli esponenti della cultura religiosa, influenzandone la consapevolezza e la cultura in tre modi: dapprima indebolendo il desiderio di acquisire lingue e saperi contemporanei; poi annullando la propensione al dialogo con l’altro per capire come pensi e che cosa voglia; infine, facendo prevalere uno stile negativo e incollerito nei discorsi e nelle lezioni tenuti agli adulti e ai ragazzi nelle moschee e nei luoghi di ritrovo.  Salafismo, Sufismo, Fratelli Musulmani È dunque possibile comprendere la situazione attuale degli ulema come un’oscillazione tra continuità e riforma? Decisamente no. La confusione si è ulteriormente aggravata dopo che dal consolidamento del movimento di “risveglio islamico” sono emerse tre correnti principali: il salafismo, il sufismo e il fondamentalismo. Esse si distinguono nettamente tra di loro, contendendosi il favore del pubblico, la legittimità, e giocando sulla distanza dal potere politico in carica. Sono però tutte movimenti revivalisti (revivalist movements) e perciò si concentrano sulle questioni dell’identità e della specificità islamica; sul piano del pensiero perseguono l’autenticità, basando la propria legittimità religiosa sulla fedeltà ai fondamenti giuridici come il testo e la storia e perseguendo l’integrità del dogma e dell’ortoprassi religiosa.  All’interno delle tre correnti i fondamentalisti si contraddistinguono per un preciso progetto politico divenuto celebre come “Islam politico”. Negli ultimi tre decenni, mentre queste tre correnti consolidavano il loro controllo attraverso l’educazione, i progetti e le fatwe, sono apparsi i “nuovi predicatori”. All’inizio si trattava di uomini religiosi o laici appartenenti ai Fratelli Musulmani o vicini al loro modo di pensare, ma, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si sono fatti avanti i sufi revivalisti, seguiti dai salafiti, e infine, attraverso i canali satellitari, si sono affacciati i predicatori. Essi sono “entrati” nelle televisioni e da allora non ne sono più usciti. I primi tra questi erano predicatori del venerdì (khatîb) e infusero nuova vita alle moschee e ai luoghi di ritrovo, creando continue occasioni per i discorsi invece di limitarsi alla predica del venerdì (khutba) o alle lezioni del mese di Ramadan. Quando le autorità si accorsero di loro, iniziarono a chiudere le moschee dopo la preghiera del venerdì e dopo l’ultima preghiera serale, ma i canali satellitari avevano globalizzato le nozioni base del “risveglio islamico”. Dal momento che anche per le autorità era difficile controllarli, esse decisero di entrare in competizione con loro incoraggiando gli shaykh delle -istituzioni religiose ufficiali a comparire nei programmi satellitari controllati dallo Stato e sfumando così la distinzione tra gli esponenti delle diverse correnti.  Poiché l’educazione religiosa e la produzione di fatwe non è più circoscritta alle istituzioni ufficiali, le basi culturali di questi predicatori sono eterogenee: più della metà non possiede una cultura religiosa pregressa, provenendo piuttosto da specializzazioni tecnico-scientifiche. Ho avuto occasione di chiedere a un famoso predicatore del Kuwait che mi chiedeva di citargli i titoli di alcuni testi fondamentali della filosofia moderna quale fosse la sua prima specializzazione. Mi rispose di essersi specializzato, in origine, in fisica, e aggiunse: «Non vede il successo che i gesuiti non specializzati in teologia hanno conseguito nelle scienze speculative e sociali?» Per tornare alle prediche in moschea e alle lezioni, gli shaykh o gli imam che vi operano provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da istituti o da università religiose ufficiali, giacché nei vari Paesi le moschee sono controllate dai ministeri delle fondazioni islamiche (waqf). Ma la situazione non è tornata come all’alba degli anni Ottanta del secolo scorso, nel senso che la nuova vita religiosa si è trasferita dalle moschee ai canali satellitari e ai siti internet che sono diventati sempre più influenti, malgrado le funzioni religiose debbano essere svolte in moschea. Le istituzioni di formazione islamica sono ancora in mano alle autorità, poiché lo Stato controlla le scuole, gli istituti e le università principali, attraversate tutte dalle tre correnti che abbiamo ricordato (salafismo, Fratelli Musulmani e sufismo), con o senza permesso statale. Tuttavia, il “risveglio islamico” continua a condizionare queste istituzioni ufficiali. Benché si considerino gli autentici rappresentanti dell’Islam moderato, esse sono rimaste prive di un progetto specifico. Di contro l’Islam nella vita pubblica e privata funziona grazie ai “nuovi predicatori” dei canali satellitari, e grazie ai siti internet e alle registrazioni audio/video. Persino i salafiti si sono dotati, negli ultimi anni, di stili espressivi e strumenti più simili a ciò che conosciamo dai predicatori evangelici degli ultimi trent’anni.  Questi nuovi predicatori possiedono una visione coerente del mondo? Predicatori e affini continuano a curarsi soprattutto dell’islamizzazione della vita privata, concentrandosi sulla morale e sui comportamenti individuali. Tuttavia, tra loro ci sono predicatori dei Fratelli Musulmani e altri influenzati dalla loro cultura che contestano agli altri musulmani la gestione della cosa pubblica, dall’interno e ancor più dall’esterno. Le due questioni dell’occidentalizzazione e dell’egemonia continuano a essere argomenti forti ed essi reagiscono rapidamente a ogni rilassamento degli apparati, arrivando a sostenere le soluzioni rivoluzionarie dei movimenti islamici militanti, quali Hamas o Hezbollah. Di fatto il discorso dei sufi e dei “nuovi predicatori” è più conciliante e quietista dei discorsi dei fondamentalisti, siano essi salafiti o membri dei Fratelli Musulmani, benché anche questi ultimi assumano nella morale orientamenti pratici pragmatici, pur rimanendo aggressivi nel discorso rivolto all’esterno. La campagna contro l’estero degli ultimi decenni, a suon di slogan contro il proselitismo, l’orientalismo e la razzia culturale e militare, assolve a quattro funzioni: serve come sostegno alla purezza dell’identità; è funzionale a richiamare l’idea della “autenticità”; agisce in vista della mobilitazione delle masse e infine contesta la legittimità del potere costituito e delle istituzioni religiose tradizionali, inscenando proteste in nome dell’Islam e contro i suoi nemici. Le organizzazioni revivaliste si sono dotate di una propria legittimità e di un pubblico. Il dossier islamico sfugge in ampia misura al controllo delle autorità e alle istituzioni religiose tradizionali e per questo l’attenzione di questi movimenti è passata dall’ostilità contro l’esterno all’impegno per l’islamizzazione della società. Tuttavia le correnti del “risveglio islamico” nel loro insieme non hanno motivi né coscienza necessari ad articolare un discorso universalista, forse con l’eccezione dei movimenti dell’Islam politico, che possiedono un progetto per l’accesso al potere in maniera esclusiva o condivisa. Ma anche per costoro l’organizzazione di un discorso privo di contraddizioni e coerente tra interno ed esterno rimane problematico. Fermamente convinti che la loro legittimità dipenda dal discorso militante, essi ritengono infatti di non potervi rinunciare senza gravi conseguenze, mentre il mondo esterno persiste nel considerare tale discorso eccessivamente violento e terroristico.  L’opposizione Europea Ciò che manca oggi alle persone dotate di consapevolezza religiosa e ai religiosi musulmani non è dunque la cultura, né le capacità, bensì la consapevolezza dell’epoca e del mondo in cui vivono e delle sue esigenze. Di queste esigenze, il religioso, fondamentalista e non, conosce perfettamente l’aspetto tecnico, ma non ne comprende la dimensione intellettuale, umana e culturale. Le possibilità sono ampie e c’è anche una certa disponibilità, ma manca la consapevolezza di come agire. Il punto critico è soprattutto il ripensamento e la rilettura delle modalità di relazione con gli avversari e i concorrenti interni, cioè il potere costituito e le istituzioni religiose tradizionali.  Qualche decennio fa alcuni pensatori islamici illuminati individuarono due possibili vie d’uscita: il modello libanese e l’Islam europeo. Questi due modelli però sono falliti o sono finiti in un vicolo cieco. L’esperienza libanese si è esaurita per inerzia, mentre l’esperienza dell’Islam europeo è stata interrotta dall’opposizione degli europei e del loro rifiuto a trasformarla in un’opportunità per costruire buone relazioni con l’Islam. In Libano l’educazione dei religiosi rimane dipendente dagli altri Paesi arabi, in primis dalla facoltà di al-Azhar, poi dalla Siria e dall’Arabia Saudita. Perfino quando, tra sunniti e sciiti, si sono fatti strada movimenti religiosi/ politici, essi si sono appoggiati a una fonte arabo-islamica di ispirazione o di riferimento normativo esterna al Paese. In oltre mezzo secolo in Libano non sono comparse più di cinque o sei grandi personalità religiose islamiche, sunnite o sciite. Le persone che si preoccupavano di curare le buone relazioni con le altre comunità, sostenendo la convivenza e il dialogo islamo-cristiano, erano nella maggioranza dei casi intellettuali religiosi illuminati. Nel momento in cui la divisione tra Islam e Cristianesimo in Libano e la subordinazione alle suddivisioni interarabe hanno vanificato gli sforzi della maggioranza dei religiosi, essi non sono stati in grado di sviluppare tesi riformiste rilevanti nell’ambito dei dogmi, del fiqh [5] e dello statuto personale, né circa le libertà e le buone relazioni con le comunità cristiane presenti sul territorio o a livello mondiale. E questo malgrado il vivace movimento suscitato dai decreti legislativi che avevano dato alle confessioni religiose ampie libertà in tutti gli ambiti religiosi, culturali e sociali, e nonostante il pluralismo religioso e culturale del Libano offra grandi opportunità per pensare e agire con modalità diverse da quelle abituali nel mondo arabo.  I musulmani europei dal canto loro hanno iniziato ad attivarsi solo con la terza generazione, ma i giovani hanno sviluppato una consapevolezza ipertrofica della propria identità e delle sue specificità. L’Europa poi è cambiata a livello popolare e culturale al punto da non consentire ai musulmani che vi risiedono di godere di un autentico pluralismo. Per concludere, il religioso musulmano, dopo un lungo secolo di trasformazioni e sconvolgimenti intellettuali e culturali, si trova oggi in mezzo al guado: gli osservatori esterni moltiplicano le scommesse sulla sua salvezza o sulla sua fine. Il problema, come abbiamo già detto, è molto più nella consapevolezza che nella cultura o nell’ambiente. In passato alcuni hanno scommesso sull’esperienza libanese e sull’esperienza europea, e allo stesso modo oggi c’è chi scommette sull’esperienza turca, uno Stato laico con un governo islamico. Tuttavia questa situazione di fatto non ha trovato nessun religioso prominente in grado di giustificarla teoricamente o disposto a scommettere su di essa. Si resta sempre a metà del guado. La speranza è che cambi la coscienza e che compaiano élite riformiste, nelle istituzioni religiose e fuori di esse, dotate di una coscienza universalista.


[1] Egiziano, fu uno dei principali esponenti del movimento riformista islamico. Dal 1889 fino all’anno  della morte (1905) ricoprì la carica di mufti (N.d.T.).  [2] Le fondazioni pie musulmane (N.d.T.).  [3] Prima dell’avvento di Nasser, in Egitto lo statuto personale era retto da norme distinte a seconda  dell’appartenenza religiosa: per i musulmani si applicava la shari’a in appositi tribunali detti appunto “sharaitici” (N.d.T.).  [4] L’insieme delle tradizioni relative al Profeta dell’Islam, considerate normative per il credente (N.d.T.). [5] Il diritto islamico (N.d.T.).  

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