L’apparizione dello Stato Islamico, che segue alla stagione di al-Qa’ida, ha confermato il carattere contagioso di una grave malattia: l’estremismo in nome di Dio

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:22

Forti erano le pressioni sull’Islam sunnita e sui Paesi arabi, tanto prima quanto dopo l’apparizione di al-Qa’ida. E furono quelle pressioni a generare la corsa alla guerra mondiale contro il terrorismo, quando suonò l’Ora. Tuttavia gli osservatori arabi e musulmani, come allora si misero sconcertati alla ricerca delle ragioni del fascino di al-Qa’ida, così tornano oggi ad analizzare stupiti le motivazioni per cui ISIS attrae fasce intere di giovani arabi, dal Levante al Maghreb.

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L’argomento più banale degli avversari di al-Qa’ida era che al-Qa’ida fosse un’espressione della natura originaria dell’Islam: questo il senso del “pericolo verde” e dello scontro di civiltà. Naturalmente i sostenitori di tale concezione potevano e possono citare eventi passati e presenti a sostegno della loro tesi. Ma accanto alla pretesa origine religiosa del fenomeno, essi adducevano anche, come con-causa, “la cultura” prodotta da un secolo e mezzo di avversione e ostilità all’Occidente. E in questo non vi era differenza tra destra e sinistra, o tra islamisti e nazionalisti. Secondo costoro sarebbe dunque l’odio a sfondo religioso, storico e psicologico a spiegare la straordinaria reazione di interi gruppi di giovani arabi e musulmani agli stili di vita degli occidentali e alla loro bisecolare presenza nei territori arabi e islamici. In effetti il colonialismo non ha coinvolto solo agli arabi (e i musulmani), avendo interessato anche popoli dell’Asia orientale, dell’Africa e dell’America Latina. Eppure nessuno di questi popoli ha mai pensato di muovere guerra alla cieca contro i civili occidentali per il fatto che i loro antenati hanno colonizzato l’India o la Cina, o hanno ammazzato o schiavizzato milioni di africani.

Nonostante gli innegabili orrori del colonialismo occidentale e il fatto che l’Occidente ci abbia lasciato in graziosa eredità la presenza di Israele, a dar ulteriore forza a questi argomenti figurava il fatto che i qaedisti non abbiano indugiato un momento a uccidere altri arabi e musulmani nelle terribili ondate di violenza che hanno distrutto Paesi come la Somalia, o minacciato di distruggerne altri come l’Afghanistan e il Pakistan. Perciò la questione non si limiterebbe all’apparizione all’interno della religione di fondamentalismi violenti, ma abbraccerebbe, al di là di essa, i rapporti con la civiltà e l’umanesimo e l’incapacità di istituire stati bene organizzati e di vivere in società in cui regnino l’armonia, il dialogo con il prossimo e la pace interna ed esterna.

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La mano tesa

Tuttavia questo modo di comprendere le cause della violenza religiosamente motivata non ha avuto vita lunga. Quattro o cinque anni dopo l’attacco ad al-Qaida, all’Afghanistan e all’Iraq, gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei si sono affrettati a istituire organizzazioni per il dialogo e la concordia tra le civiltà e sono comparsi diversi studi sulla “normalità” della violenza religiosamente motivata malgrado l’eccezionalità di alcuni suoi aspetti e manifestazioni. Studiosi seri non escludevano che tali anomalie fossero riconducibili a manipolazioni dei servizi segreti e a infiltrazioni che avrebbero riacceso tensioni confessionali, settarie ed etniche. Molti ritenevano che Israele avesse una parte importante in tutto ciò che è accaduto.

Dal canto loro, gli arabi e i musulmani si sono affrettati a rispondere positivamente all’invito al dialogo di civiltà e hanno parlato del pluralismo andaluso e della natura conciliante e pacifica dell’Islam, invitando al contempo a non dimenticare le ingiustizie spaventose del colonialismo e l’usurpazione sionista che dura da settant’anni, mentre nel resto del mondo il colonialismo è scomparso da un pezzo.

Con l’affievolirsi dell’ondata polemica o almeno con il suo considerevole regresso, gli occidentali si sono affrettati a salutare i movimenti arabi per il cambiamento considerandoli come la prova della fine dell’eccezione araba e islamica. Gli arabi – questo il ragionamento – in condizioni normali sono capaci di operare il cambiamento in maniera pacifica e ordinata, come qualsiasi altro popolo. Questi giustificazionisti affermano inoltre che non si sarebbe prestata la dovuta attenzione al fatto che gli arabi sono passati attraverso dittature e tirannie che gli altri popoli non hanno conosciuto neppure in sogno, ciò che giustificherebbe in parte la violenza dilagante in questo o quel contesto.

 

Il ritorno alle azioni eclatanti

Ma l’apparizione fulminea di ISIS ha riportato alla memoria l’attacco di al-Qa’ida a New York e a Washington, come se fosse accaduto ieri. Se al tempo di Bin Laden chiunque (seppur con difficoltà) poteva attribuire a quella violenza un significato politico o umano, la violenza perpetrata da ISIS, così come quella perpetrata da al-Zarqâwî prima di essa, è oscura, devastante, inane, incomprensibile e ingiustificabile. Al-Zarqâwî (2005-2006) e ISIS (2013- 2014) hanno compiuto e compiono esecuzioni pubbliche eclatanti (le decapitazioni), così come facevano i francesi in Algeria negli anni ’30 dell’Ottocento, e gli italiani in Libia negli anni  ’20 del Novecento. Ma l’aspetto più spettacolare, se così può essere definito, è il legame tra questa terribile violenza e un’istituzione politica di cui gli arabi e i musulmani conservano un buon ricordo, e cioè il Califfato. Il fenomeno si differenzia rispetto alle manifestazioni di violenza che solitamente accompagnano la creazione degli Stati o i cambi di regime dopo le rivoluzioni, come è stato per le rivoluzioni francese, russa e iraniana. La differenza risiede nel fatto che ISIS considera la violenza come rituale, se così può essere definita, e ritiene che la religione sia manchevole e giunga a perfezione solo attraverso di essa. Insomma essa sarebbe una parte imprescindibile della religione. Questa sacralità (harâm) o santità (muqaddas) implica la profanazione delle altre realtà sacre e della sacralità altrui e richiede di considerare l’autorità che va sotto il nome di Califfato come uno dei pilastri della religione. Atrocità di questa portata i musulmani non le hanno mai conosciute nella loro esperienza storica, neppure nel pieno della lotta contro il colonialismo negli ultimi due secoli.

 

Religione minacciata

Negli studi che ho pubblicato negli ultimi quindici anni, il più recente dei quali è uscito solo pochi mesi fa, sostengo che la riproduzione del “Califfato” non significa il ritorno alla tradizione (taqlîd) religiosa o politica, perché per i sunniti il potere politico è una questione organizzativa e di interesse pubblico e non un imamato [sacrale, N.d.R.] senza il quale la religione non potrebbe sussistere. Questo è senza dubbio vero dal punto di vista storico. Ma il fatto che il sistema politico sia diventato un pilastro della religione cambia completamente le cose. Questa trasformazione costituisce infatti una minaccia per la religione e per le società, perché inserisce la religione nel corpo dello Stato. Ed essa, illudendosi di realizzare se stessa, viene assorbita dalla lotta per il potere, si parcellizza e collassa.

Questo è certamente vero. Ma restano i fatti. In pochi decenni, gli islamisti, sunniti e sciiti, sono riusciti a manipolare concetti religiosi fondamentali e a utilizzarli per arrivare al potere. E per farlo  non hanno esitato a uccidere un numero spaventoso di persone in nome della religione.     

Come se non bastasse, si può leggere in ISIS la replica di quanto avvenuto nel 1979-1980 alla Mecca (con l’occupazione della Grande Moschea), nel 1979 in Iran, nel 2001 a New York, nel 2005-2006 in Iraq, negli anni passati in Nigeria con Boko Haram, e in Africa occidentale con altre organizzazioni. Si tratta di ondate di violenza ricorrenti e crescenti, perpetrate nel nome della religione, dotate di una forza attrattiva nei confronti di gruppi di giovani del mondo arabo e non solo, e sulle terze generazioni degli emigrati. È sbagliato sottovalutarle o giustificarle. Questi sono i fatti nudi e crudi: la nostra religione, i nostri Paesi, la nostra etica e la nostra umanità sono minacciati.

L’utilità di ISIS e dei suoi analoghi – se di utilità si può parlare – è che essi rendono manifesta questa grave malattia contagiosa che è la malattia dell’estremismo in nome della religione. E «non vi è potenza né forza se non in Dio».

 

* Articolo pubblicato su «Al-Sharq al-Awsat» il 19 settembre 2014
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ridwan Al-Sayyid, Il fascino diabolico di ISIS, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 39-41.

 

Riferimento al formato digitale:

Ridwan Al-Sayyid, Il fascino diabolico di ISIS, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-fascino-diabolico-di-isis.

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