Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:57:13

Questa settimana i talebani hanno annunciato la composizione del nuovo governo in Afghanistan. Si tratta di un governo provvisorio e la leadership talebana ha promesso che a breve verrà varato quello definitivo ma, come ha scritto Le Monde, è già parecchio significativo. E no, al contrario di quanto annunciato, è tutto fuorché “inclusivo”. Muhammad Hassan Akhund – ex ministro degli Esteri e vice premier – è stato nominato primo ministro, mentre Abdul Ghani Baradar – capo dell’ufficio politico talebano di Doha – sarà il suo vice.

 

Come riportato da buona parte della stampa internazionale, il governo in carica a Kabul non è “inclusivo” (sull’uso di questa categoria ci sarebbe da discutere, ma ne parliamo qui). Non è nemmeno “nuovo”, nel senso che i ministri sono tutti membri del movimento talebano, perlopiù di etnia pashtun e per la maggior parte hanno già ricoperto ruoli nella gerarchia talebana. Eppure, di molti di loro si sa poco, come ha scritto il New York Times, che comunque riassume le biografie di alcuni dei ministri più importanti. Nessuno spazio per le donne, naturalmente. Dal punto di vista etnico si segnala la presenza di Abdul Salam Hanafi, uzbeko, ma la sua partecipazione alla compagine governativa non può essere considerata una reale apertura alle minoranze: prima ancora che uzbeko, è un membro di lungo corso del movimento talebano.

 

Vediamo qualche informazione sui principali protagonisti di questo governo talebano, che afferma di avere come riferimento ultimo la “guida suprema” Hibatullah Akhundzada. 

Il primo ministro Akhund ricopriva la carica di capo della Rehbari Shura di Kandahar, il consiglio della leadership, e come ha scritto il Times of India molto del suo prestigio lo deve alla vicinanza al defunto Mullah Omar. Da diversi anni è inserito nella lista dei terroristi delle Nazioni Unite.

 

Un nome noto è certamente quello del ministro dell’Interno: Sirajuddin Haqqani, leader del network omonimo sul quale pende una taglia da cinque milioni di dollari da parte dell’FBI («ora almeno sapranno dove trovarlo» – ha ironizzato qualcuno). Anche al ministero della Difesa troviamo una vecchia conoscenza: Mohammad Yaqoob, figlio del Mullah Omar.

 

Tuttavia, la figura su cui tutti si concentrano è Baradar. Questo è in parte dovuto al fatto che – mentre di Akhundzada e di Akhund si hanno poche informazioni – il suo ruolo di negoziatore a Doha l’ha reso più famoso e “accessibile” anche in Occidente. Bloomberg ne ha tracciato una biografia, sottolineandone il ruolo decisivo nella rifondazione dei talebani nel biennio 2002-2003: «è stato Baradar a trasformare i talebani da movimento a guida carismatica, assoggettato a un leader autocratico come Omar, a movimento collegiale in cui Baradar era il primo tra i pari». Per Baradar sarà prioritario riuscire ad accedere agli aiuti internazionali e ai miliardi di dollari della Banca Centrale che al momento sono congelati anche perché, come ha affermato il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, in Afghanistan si prospetta una crisi umanitaria senza precedenti. Per riuscire nel compito serve convincere i leader internazionali che questi talebani sono diversi rispetto a quelli che hanno governato fino al 2001. La composizione del governo va esattamente nella direzione opposta.

 

Mentre i talebani annunciavano il loro governo, a Kabul centinaia di uomini e donne – ha scritto il Washington Post – hanno marciato in segno di supporto ai combattenti nella valle del Panshir che si opponevano ai talebani (l’uso dell’imperfetto è dovuto al fatto che, pur nell’incertezza delle notizie, la valle sembra caduta). Ma come si legge sempre sul quotidiano americano, la manifestazione, poi repressa dai talebani che hanno anche percosso alcuni giornalisti, era anche contro «l’interferenza straniera in Afghanistan, in particolare da parte del Pakistan, che è ampiamente riconosciuto come sostenitore dei talebani». Haaretz aggiunge un elemento: con il reinsediamento di un governo islamista a Kabul si compie il progetto pakistano, ideato ancor prima «dell’utilizzo dei jihadisti da parte degli americani per sconfiggere i sovietici. La politica del Pakistan di coltivare una forza extra-territoriale [composta da] mujahiddin sottoposti al proprio comando risale alla nascita dello Stato [pakistano], ed era pensata per contrastare l’influenza indiana e liberare il Kashmir». Come sottolinea però Stephanie Findlay sul Financial Times, Islamabad è preoccupata dal possibile flusso di migranti, ma soprattutto afferma come i negoziati tra Stati Uniti e talebani per il ritiro americano abbiano diminuito l’influenza pakistana sul movimento islamista. Come spesso accade, e come si può osservare proprio dalle due diverse opinioni appena riportate, la questione è più complicata di quanto possa sembrare: di questo ha scritto Diego Abenante, che ripercorre la storia delle relazioni tra Pakistan e Afghanistan.

 

Il ritorno dei talebani, l’islamismo e il jihadismo vent’anni dopo l’11 settembre

 

A vent’anni esatti (domani) dagli attacchi alle Torri Gemelle che portarono all’invasione dell’Afghanistan (e poco dopo dell’Iraq), la riconquista di Kabul da parte dei talebani solleva una domanda sul futuro dell’islamismo e del jihadismo. Un articolo pubblicato da al-Monitor riflette sulle implicazioni della vittoria talebana per il panorama islamista e jihadista tra Turchia e Siria. Se da una parte il (ristretto) mondo jihadista turco ha tenuto a freno la propria voglia di festeggiare la vittoria talebana per il timore della repressione da parte delle autorità di Ankara, dall’altra proprio su uno dei giornali islamisti pro-governativi si legge che «l’occupazione ventennale dell’Afghanistan è terminata […] con il ritiro degli ultimi soldati americani – pardon, terroristi. L’idolo statunitense-occidentale si è sbriciolato. Ha inizio un periodo straordinario. Nei prossimi anni, gli idoli occidentali si sbricioleranno, uno dopo l’altro».

 

Ma il mondo islamista non è poi così omogeneo: se una parte non può che rallegrarsi per la sconfitta americana, altri gruppi jihadisti in Turchia hanno diffuso un video in cui accusano i talebani «di aver deviato dall’obiettivo del jihad, e aver abbandonato la lotta per negoziare con gli americani nei lussuosi e snob hotel di Doha».

 

D’altro canto il successo apre sempre in qualche misura alla possibilità dell’imitazione: la vicenda afghana ha mostrato infatti un modello per sostenere uno sforzo bellico ventennale e uscire vincitori contro un nemico ben più forte e ricco. Non è un caso che il gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (che pure – realmente o meno – si è separato da al-Qaida) nella provincia di Idlib in Siria stia provando a “sirianizzare” i propri ranghi. Il messaggio che vuole dare è: il nostro focus è la Siria e abbandoniamo la nozione di jihad globale. Ergo, non siamo una minaccia per l’Occidente.

 

Ma l’Afghanistan lo è? La risposta arriva da Raffaello Pantucci (senior fellow al Rajaratnam School of International Studies), secondo il quale è probabile che il jihadismo afghano avrà ripercussioni soprattutto regionali (Asia Centrale, Cina, Pakistan, Russia) nel breve e medio periodo, ma nel lungo periodo «indubbiamente creerà un’instabilità che riguarderà anche l’Occidente». Il senatore conservatore Lindsey Graham, alleato dell’ex presidente Donald Trump, ha affermato che gli Stati Uniti saranno costretti a tornare in Afghanistan, perché «i talebani non sono cambiati […] e forniranno un rifugio sicuro ad al-Qaida». Per questo motivo l’opinione del senatore è che gli Stati Uniti si troveranno davanti a due opzioni: fingere che quanto accade in Afghanistan non sia un loro problema, oppure «colpirli [i gruppi jihadisti] prima che loro colpiscano» gli Stati Uniti. 

 

Il Washington Post riflette sull’evoluzione di al-Qaida dagli attacchi dell’11 settembre ad oggi: l’organizzazione è passata dall’essere saldamente basata tra il Pakistan e il Afghanistan, con una leadership in grado di guidare l’operato dei militanti locali, a essere un network in “franchising” sparso per l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia, nel quale è molto più difficile avere una reale presa sui capi locali. La maggior parte degli esperti interpellati dal Washington Post concorda nel ritenere che al-Qaida non sia più in grado di porre una minaccia particolarmente grave all’Occidente. Tuttavia «è impossibile guardare ai due decenni trascorsi e non essere colpiti da come un piccolo gruppo di estremisti guidati da un fuorilegge carismatico sia riuscito a influenzare la politica globale. Bin Laden ha cambiato il mondo – ma non nella maniera che desiderava» ha affermato Nelly Lahoud su Foreign Affairs.

 

Elezioni in Marocco

 

Mercoledì in Marocco si sono svolte le elezioni parlamentari e amministrative. L’affluenza è stata appena superiore al 50% e secondo Le Monde si registra un crescente disinteresse da parte della popolazione.

 

Il dato più significativo emerso dalla tornata elettorale è il vero e proprio crollo del partito che ha avuto la maggioranza in parlamento negli ultimi 10 anni alle elezioni per il rinnovo del Parlamento. Il partito islamista Giustizia e Sviluppo ha ottenuto soltanto 12 seggi sui 395 disponibili. La maggioranza relativa dei seggi è stata attribuita al Raggruppamento nazionale degli Indipendenti sostenuto dal facoltoso uomo d’affari (importatore di petrolio) Aziz Akhannouch, mentre al secondo e terzo posto si sono classificati il partito dell’Autenticità e della Modernità, con 82 seggi, e il Partito dell’Istlqlal, con 78.

 

In un contesto in cui il parlamento aveva già scarsi poteri se paragonato alla monarchia, l’attuale configurazione rende ancora più evidente che sono il Re e la corte a tirare le fila della politica marocchina, ha affermato Riccardo Fabiani (International Crisis Group) al Financial Times. A influire sulla debacle islamista è stata probabilmente anche la scelta di normalizzare le relazioni con Israele in cambio del riconoscimento della sovranità sul Sahara Occidentale, e la generale insoddisfazione per la disoccupazione e la corruzione nel Paese. Per il sociologo Mohammed Ennaji il partito islamista difficilmente si risolleverà dalla sconfitta, dovuta secondo lui alla fine del sostegno garantito al PJD da parte dei marocchini delle zone urbane, che l’hanno abbandonato per via del suo pessimo operato, «senza neppure porsi delle domande legate alla sharia».

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Ascesa e disfatta degli islamisti

 

Uno dei dibattiti che questa settimana ha animato la stampa araba è il futuro dell’Islam politico. Mentre in Afghanistan è nato il governo dei mullah, in Marocco gli islamisti hanno subito una sonora sconfitta alle urne. Dopo dieci anni al potere, il partito islamista Giustizia e Sviluppo (PJD) ha dovuto cedere il passo ai liberali del Raggruppamento nazionale degli Indipendenti (RNI), con buona pace di quella parte di mondo arabo ostile all’Islam politico.

 

Il ricercatore marocchino Mohamed Taifaori ha spiegato al quotidiano al-Arabī al-Jadīd le cause di questo tracollo – perché di questo si tratta visto che, da primo partito qual era, il PJD si è ritrovato all’ottava posizione. Il partito, spiega Taifaori, ha tradito la sua identità islamica firmando l’accordo di normalizzazione dei rapporti con Israele e approvando un disegno di legge per legalizzare la coltivazione della cannabis. Fatto ancora più grave, ha tradito il suo stesso slogan “Il tuo voto è un’opportunità contro la corruzione e la tirannia” macchiandosi per anni di questi crimini. L’incapacità di fare autocritica, di gestire le alleanze con gli altri partiti e di risolvere la crisi democratica che da anni attanagliava il partito avrebbero fatto il resto.

 

Sul quotidiano filo-islamista Arabī21, Tareq Awshan ha definito il risultato delle elezioni un «terremoto politico» che ha colto di sorpresa tanto il PJD quanto i suoi avversari. Il Marocco, ha spiegato, si conferma ancora una volta l’eccezione del nord d’Africa essendo riuscito a mettere fine al governo degli islamisti senza ricorrere alla violenza o a colpi di Stato.   

 

Se nel Maghreb gli islamisti sono in sofferenza, nell’Asia centrale le cose sembrerebbero andare decisamente meglio per loro. Al punto che, scrive l’ex direttore di al-Sharq al-Awsat ‘Abd al-Rahman al-Rashid, la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan ha riacceso le speranze dei gruppi islamisti di tutta la regione. Ma hanno davvero ragione gli islamisti a essere ottimisti? Secondo al-Rashid, no. Anzi, il governo talebano sarà un boomerang per gli islamisti che molto presto si troveranno a dover prendere le distanze dalle violenze perpetrate dal governo dei mullah e finiranno per dire che i talebani «distorcono l’Islam». Lungi dall’essere un segno di speranza, la vittoria dei talebani segnerebbe dunque definitivamente la morte dell’Islam politico.

 

Più preoccupato sembra essere invece l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid secondo il quale con il governo dei mullah «si è spalancata una nuova porta del male». Il fatto che dei religiosi, quali sono i mullah, rivendichino il diritto a governare rappresenterebbe un problema per tutto il mondo islamico. Qualora dovessero spargere sangue in nome della religione o costringere gli afghani alla fuga rischierebbero infatti di danneggiare l’immagine dell’Islam nel suo complesso. Come risolvere il problema? Separando i poteri, spiega al-Sayyid: agli shaykh (nel caso afghano, ai mullah) dovrebbe spettare il potere spirituale; all’emiro, al re o al presidente, secondo la forma di governo scelto, il potere temporale. Più facile a dirsi che a farsi. E infatti al-Sayyid ha lanciato un appello a tutte le istituzioni islamiche e alle autorità politiche del mondo arabo affinché concordino una strategia per affrontare insieme il pericolo talebano che minaccia «la quiete della religione e la stabilità degli Stati».

 

In breve

 

Venerdì in Libano è stata annunciata la nascita del nuovo governo guidato da Nagib Mikati. L’esecutivo comprende 24 figure (il presidente del Consiglio, il suo vice e 22 ministri) equamente divise tra cristiani e musulmani, scrive L’Orient-Le Jour.

 

“Da premio Nobel a paria”: la CNN dedica un approfondimento al primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed.  

 

Non si smorzano le tensioni tra Etiopia, Egitto e Sudan. Un nuovo capitolo si deve all’accusa rivolta dalle autorità etiopi al Cairo e a Khartoum di sostenere i militanti che cercano di mettere fuori uso la Grande diga del Rinascimento (GERD).

 

Grazie all’intervento della Southern African Development Community (SADC) e delle forze armate del Ruanda il governo del Mozambico è riuscito ad avere la meglio sui jihadisti che si erano impossessati di vaste parti di Cabo Delgado. Ma come riporta The Africa Report, la soluzione militare non è risolutiva.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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