Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:52:24

Quanto accaduto in Tunisia il 25 luglio, quando il presidente Kais Saied ha assunto i pieni poteri dopo una giornata di proteste contro il sistema politico, ha riportato il piccolo Paese nordafricano sotto i riflettori della stampa internazionale, che da un po’ di tempo l’aveva abbandonato al suo destino solo apparentemente felice di “eccezione”, “storia di successo”, “unica democrazia del mondo arabo”. La disattenzione per quanto covava in Tunisia ha fatto sembrare un colpo di scena ciò che tale, forse, non è. Da mesi il Paese versava in una grave situazione economica, sanitaria, politica e istituzionale: scarsa crescita tra il 2011 e il 2019 e drastico calo del PIL nel 2020, tracollo del turismo e disoccupazione giovanile al 42%, come riporta Al Jazeera in un articolo sulla dimensione economica delle proteste di domenica scorsa; rapida diffusione del coronavirus e collasso degli ospedali, con un alto numero di morti (il più alto dell’Africa in rapporto alla popolazione, come segnalava già a maggio il Guardian); profonda sfiducia nella classe politica; conflitto istituzionale tra presidente della Repubblica, presidente del Parlamento, e primo ministro.

 

Invocando l’articolo 80 della Costituzione, che consente al capo dello Stato di prendere misure eccezionali in caso di un «pericolo imminente per le istituzioni della nazione e la sicurezza e l’indipendenza del Paese, che ostacoli il funzionamento regolare dei poteri pubblici», Saied ha sospeso il Parlamento, rimosso il Primo ministro e revocato l’immunità dei parlamentari. Nei giorni seguenti il presidente ha rimosso anche il ministro della Difesa, la portavoce del governo (che era anche ministro della Funzione pubblica e aveva l’interim della giustizia), e diversi funzionari. Ha inoltre annunciato misure drastiche per contrastare la corruzione.

 

Ampi settori della popolazione hanno accolto festanti la decisione del presidente, per ragioni descritte dal giornalista tunisino Fadil Aliriza per il Middle East Institute. Forti critiche si sono invece levate dal partito di maggioranza Ennahda, e dal suo leader Rashid Ghannushi, che è anche presidente del Parlamento, il quale ha accusato Saied di minare le conquiste democratiche della Tunisia.

 

Fin qui i fatti. Le valutazioni, le interpretazioni e le chiavi di lettura sono molteplici, ma possono essere riassunte in due grandi filoni: da un lato il dibattito sulla legalità dell’iniziativa di Saied (e dunque se essa si configuri o meno come un colpo di Stato), sui rischi di una deriva autoritaria della Tunisia, e sul futuro della giovane e fragile democrazia; dall’altro i fattori e le implicazioni internazionali degli eventi.

 

Nel primo filone si colloca l’articolo di Middle East Eye, a firma del suo direttore, David Hearst, che già a maggio aveva rivelato l’esistenza di un piano per instaurare in Tunisia una “dittatura costituzionale”. Hearst, rivendicando la bontà del suo precedente scoop, afferma senza mezzi termini che il colpo di Saied «non ha nulla di costituzionale», e accusa il presidente di essere «la fonte dell’instabilità politica» del Paese. Su Le Monde, Lilia Blaise si rifà al «parere degli esperti», per dire che il presidente tunisino «è andato ben al di là dell’articolo 80» della Costituzione.

 

Su Bloomberg, l’analista dell’Arab Gulf States Institute di Washington Hussein Ibish scrive che «la democrazia tunisina non è soltanto l’unica storia di successo della Primavera araba; è anche un test decisivo per capire se gli islamisti possono evolvere in normali partiti religiosamente conservatori e coesistere con formazioni laiche in un ordine costituzionale». E conclude, mosso da un volontarismo che stride col suo ruolo di analista: «è estremamente importante che la risposta si riveli essere “sì”».

 

Un controcanto a queste posizioni è rappresentato dall’articolo scritto da Steven Cook su Foreign Policy. Il titolo è infelice – “Forse i tunisini non hanno mai voluto la democrazia” – ma il contenuto merita di essere preso in considerazione. Media e osservatori internazionali, afferma infatti Cook, si sono cullati per anni nell’idea dell’eccezione tunisina, e non hanno visto crescere il malcontento di quegli strati della popolazione, gli stessi che sono scesi in piazza il 25 luglio, che vogliono uno Stato capace di garantire «lavoro e sicurezza sociale a prescindere dal carattere del sistema politico».

 

Passando alla prospettiva regionale e internazionale, i termini della questione sono posti dal video-approfondimento settimanale di Dario Fabbri per Limes: per l’analista geopolitico, l’aspetto da tenere veramente in considerazione nella vicenda tunisina non è tanto la dialettica tra democrazia e autoritarismo, quanto la partita internazionale che si gioca in Nord Africa. Da questo punto di vista, il colpo di forza di Saied risponde al tentativo di alcuni attori – Francia, Arabia Saudita, Emirati – di contenere l’influenza turca della regione, esercitata in Tunisia attraverso il partito islamista Ennahda.

 

Sul sito di The New Arab, tradizionalmente schierato a favore dei movimenti della Primavera araba, l’esperto di Golfo Giorgio Cafiero spiega perché il colpo tunisino è «un trionfo per la visione del mondo di Abu Dhabi». La reazione turca non è stata in ogni caso particolarmente scomposta. Come segnala Al-Monitor, i dirigenti dell’Akp hanno denunciato l’intervento di Saied, ma senza calcare la mano, e il linguaggio di Ankara è stato «decisamente meno incendiario di quando nel 2013 l’uomo forte dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, rovesciò il democraticamente eletto presidente islamista Mohammed Morsi».

 

Per giudizi più articolati e più attenti alla realtà sul terreno conviene affidarsi ai media tunisini. Ghaya Ben Barak firma un reportage, nato dalla collaborazione tra Meshkal e Nawaat, sulle proteste che hanno preceduto l’iniziativa di Saied, raccogliendo la rabbia e la disperazione di una popolazione allo stremo. Il sito Leaders propone invece due letture, entrambe molto interessanti, ma di segno diverso. Samy Ghorbal mette in guardia contro le intenzioni del presidente – «non bisogna aver paura di dirlo: Kais Saied ha oltrepassato gravemente le sue prerogative e ha perpetrato un colpo di Stato» –, ma accusa anche il primo ministro Hichem Mechici, «senza dubbio il peggior capo di governo che la Tunisia abbia conosciuto dal 1957». Con «la sua incompetenza – continua Ghorbal –, il suo egoismo, il suo servilismo è il primo responsabile della catastrofe sanitaria della storia recente del Paese. La “cintura politica” che lo sosteneva in Parlamento, composta essenzialmente da Ennahda e dai suoi accoliti, non è affatto migliore. Ha una responsabilità schiacciante nei rovesci del nostro Paese dopo il 2011».

 

Mohammed Kerrou, politologo dell’università al-Manar di Tunisi, descrive il sollievo procurato dall’iniziativa di Saied in una popolazione in preda allo sconforto collettivo. Secondo Kerrou, più che un «colpo di Stato» (coup d’état), quello del presidente è stato «un coup d’éclat»  (“una gagliardata”) e un «coup de maître» (“un colpo da maestro”), che ha posto le premesse per una riconciliazione tra la società e lo Stato, a condizione che la società civile faccia la sua parte, «neutralizzando i rischi dell’uomo solo al comando e il ritorno delle dittatura, temuti a giusto titolo senza essere necessariamente giustificati a livello pratico, perché i principi del pluralismo e delle libertà sono stati finora rispettati».

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Kais Saied: per qualcuno un liberatore, per altri un tiranno

 

Questa settimana i maggiori quotidiani arabi si sono concentrati sugli eventi politici che hanno scosso la Tunisia. Da un lato, i quotidiani filo-islamisti hanno definito la mossa del presidente Kais Saied, che ha destituito il primo ministro e sospeso il parlamento, un colpo di Stato e hanno urlato allo scandalo, mentre i media del campo opposto, emiratini e sauditi in testa, hanno celebrato le “gesta” del Presidente tunisino.

 

Il giornalista palestinese Sari Orabi ha denunciato su Arabī21 (quotidiano online filo-islamista) «il lavoro frenetico della controrivoluzione per mettere fine ai resti delle rivoluzioni arabe e alla presenza dell’Islam politico nella sfera pubblica».

 

Sullo stesso quotidiano il politologo palestinese Yasser al-Zaatreh ha riflettuto su ciò che distingue il colpo di stato in Tunisia da quello avvenuto in Egitto nel 2013. A differenza della Fratellanza egiziana, spiega, Ennahda ha commesso molti meno errori e soprattutto non ha mai governato in maniera autonoma visto che possiede meno di un quarto dei seggi in Parlamento. Secondo al-Zaatreh, Saied cercherà di emendare la Costituzione per trasformare la Tunisia da repubblica semi-presidenziale a presidenziale, ma il futuro del presidente resta comunque in bilico perché «lo Stato profondo» tunisino, benché più debole rispetto a quello egiziano, difficilmente accetterà «il dispotismo di un uomo senza storia né potenziale». Come ricorda il quotidiano tunisino al-Shurūq, sul futuro di Saied pesano anche la crisi economica che sta affliggendo il Paese da molti mesi e lo spettro della fame

 

Il sito qatariota al-Jazeera, che in questi anni ha sempre sostenuto il partito islamista Ennahda, ha pubblicato un editoriale dell’ex presidente della Tunisia Moncef Marzouki (in carica dal 2011 al 2014). La vicenda tunisina diventa l’occasione per riflettere sul successo che il mito del «tiranno giusto» riscuote da molti decenni nel mondo arabo. Delusi dal fallimento delle democrazie (Libano e Tunisia), i popoli arabi sarebbero pronti ad accettare il ritorno del tiranno in cambio della garanzia di un po’ di stabilità. Per Marzouki la domanda è se il mondo arabo riuscirà mai ad affrancarsi da questo mito. Per ora, spiega, «le nostre democrazie sono fragili perché la base economica e sociale sulla quale costruiamo le nostre istituzioni moderne continua a essere quella del sistema della civiltà agricola, con la sua concezione arretrata del rapporto tra governante e governato, inteso come il rapporto tra il pastore e il gregge».

 

Ernest Khoury, direttore di al-Arabī al-Jadīd, ha descritto Saied come «una figura provocatoria cresciuta politicamente dal nulla, che si definisce figlio e voce del popolo», «un presidente populista poco serio» che utilizza un forbito arabo classico tanto da far odiare ai tunisini la propria lingua.

 

Secondo Maen al-Bayari, editorialista giordano dello stesso quotidiano, il modo in cui molti intellettuali arabi hanno reagito alla vicenda tunisina riflette un problema culturale diffuso, che si è manifestato dopo le Primavere arabe. Il riferimento è a quei giornalisti che si dicono «illuminati» in contrapposizione ai Fratelli musulmani «arretrati» e che perciò si sono rallegrati per «il colpo di grazia [inferto da Saied] ai suoi oppositori», cioè gli islamisti di Ennahda. Ma dimenticano, spiega al-Bayari, che quello tunisino è un «conflitto tra i sostenitori di una pratica democratica, […] e i sostenitori dei colpi di stato che agiscono a discapito delle scelte elettorali delle persone».

 

L’economista ‘Abdul Hafid al-Sawi ha dipinto un quadro fosco del futuro economico del Paese, in cui da anni imperversa la disoccupazione (al 15,9% secondo i dati del Joint Arab Economic Report del 2019) e in cui la povertà riguarda il 15,7% del totale della popolazione. E ha mosso delle pesanti accuse ai Paesi del Golfo, in particolare all’Arabia Saudita e agli Emirati, che da anni tengono sotto scacco molti Paesi arabi con il loro «denaro politico» mediante il quale hanno «assassinato il sogno delle rivoluzioni della Primavera araba, consolidato il sottosviluppo e la dipendenza dalle economie arabe, e sostenuto gli eserciti nei colpi di Stato militari (in Egitto e in Sudan)». La Tunisia, conclude l’economista, è destinata a dipendere dalle economie degli stati rentier anche in futuro, a maggior ragione adesso che il prezzo del petrolio ha superato i 70$ al barile e consente ai Paesi del Golfo di «fare un uso politico delle proprie risorse sostenendo le dittature arabe».

 

Il tono cambia radicalmente sui media sauditi ed emiratini. Okāz, uno dei principali quotidiani sauditi, ha celebrato Abir Moussi, avvocatessa tunisina leader del Partito Destouriano Libero, nostalgica dell’epoca di Ben ‘Ali e grande oppositrice di Ennahda. «La donna che ha fatto vacillare il trono della Fratellanza» – così l’ha definita Okāz – e che «ha svelato i piani di Ghannouchi e l’alleanza di quest’ultimo con la Turchia e i Fratelli musulmani».

 

L’ex direttore di al-Sharq al-Awsat Tariq al-Homayed ha commentato soddisfatto che «il caos definito erroneamente ‘Primavera araba’ è stato sepolto là dove è iniziato», ha celebrato la vittoria delle istituzioni statali sui Fratelli Musulmani, e negato che quello di Kais Saied possa definirsi un colpo di Stato. Esso sarebbe piuttosto «una seria presa di posizione da parte di un presidente eletto sostenuto dall’esercito».

 

Lo stesso quotidiano ha pubblicato un editoriale dell’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, che ha operato un confronto tra la crisi libanese e quella tunisina. Per quanto grave sia la situazione economica e sanitaria in entrambi i Paesi, l’autore ritiene che la Tunisia sia comunque avvantaggiata rispetto al Libano, se non altro perché sul suo territorio non ci sono eserciti e milizie straniere. Si domanda inoltre che cosa sia cambiato nei due Paesi dopo le rivoluzioni (2011 in Tunisia, 2019 in Libano). È cambiata la classe dirigente ma non il comportamento politico, mentre le riforme non sono mai state realizzate in nessuno dei due Paesi. Le rivoluzioni e le elezioni, spiega al-Sayyid, non hanno prodotto alcuna crescita economica né garantito il rispetto delle libertà pubbliche fondamentali, ma hanno favorito l’emergere di divisioni e radicalismi nella religione.

 

Il quotidiano emiratino al-Ittihād ha pubblicato una vignetta in cui compare una colomba con i colori della bandiera tunisina che si libra in volo dopo essere fuggita dalla gabbia di Ennahda. Al-Bayān, giornale di Dubai, ha parlato delle misure intraprese dal presidente per «correggere il corso dello stato tunisino» e delle migliaia di tunisini scesi in piazze per festeggiare la sconfitta dei Fratelli musulmani, ignorando però quelli che hanno manifestato contro la decisione del presidente.

 

Gli Stati Uniti si ritirano dall’Iraq. Per davvero?

 

Il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi e il presidente Biden hanno annunciato che entro la fine dell’anno le truppe statunitensi combattenti si ritireranno dall’Iraq. Come segnala il New York Times, «il governo di al-Khadimi e diversi alti funzionari militari iracheni sono favorevoli alla presenza delle circa 2.500 truppe americane nella forma attuale. Ma l’uccisione del generale Qassem Suleiman […] e di altri alti responsabili iraniani della sicurezza hanno reso la presenza degli Stati Uniti politicamente impossibile». Il dialogo tra Stati Uniti e iracheni è inoltre complicato dal fatto che i primi sostengono di voler mantenere una presenza nel Paese per contrastare l’Isis, mentre le milizie e diversi politici iracheni affermano che il vero scopo degli americani è contenere l’Iran.

 

Tuttavia, più che di un ritiro, si tratta di una ridenominazione della missione americana. Questo non modifica più di tanto la realtà sul terreno, ma è utile al primo ministro al-Kadhimi, che deve destreggiarsi nella ricerca di un difficile equilibrio. Lo segnala Anneline Sheline su Responsible Statecraft: «quando il primo ministro al-Kadhimi è salito al potere, è stato considerato il rappresentante del rifiuto di un’esplicita influenza iraniana sull’Iraq, un sentimento espresso anche dalle proteste diffusesi in tutto l’Iraq nell’ottobre 2019, che chiedevano la fine sia dell’intervento iraniano e di quello americano che della corruzione rampante. Ora al-Kadhimi si trova di fronte a una missione quasi impossibile, resa più difficile dai continui attacchi che verosimilmente andranno avanti finché le forze statunitensi rimarranno sul territorio del suo Paese, qualsiasi etichetta esse abbiano».

 

La Francia adotta definitivamente la legge sul “separatismo” islamico

 

Dopo un lungo dibattito e molte polemiche, il parlamento francese ha definitivamente approvato la legge sul cosiddetto “separatismo”, voluta dal governo d’oltralpe per porre rimedio, ricorda Le Figaro, «all’OPA islamista» sul Paese. Critiche e voto contrario al provvedimento sono arrivate sia da sinistra che da destra: i socialisti vi hanno visto «un appuntamento mancato con la Repubblica» e una manifestazione di «diffidenza» verso le associazioni (musulmane); la destra considera la legge un insieme di piccole misure «senza ambizione». Osservazioni critiche sono arrivate anche dagli ambienti accademici. Intervistato dal quotidiano turco Daily Sabah, Vincet Geisser ha osservato che, proprio perché uno Stato laico, la Francia non dovrebbe interferire negli affari dei musulmani. Geisser ha inoltre aggiunto che l’atteggiamento francese nei confronti dei musulmani è incompressibile negli Stati Uniti. Lo confermano le parole di Jonathan Laurence, politologo del Boston College, che firma un editoriale per il quotidiano cattolico francese La Croix. Laurence definisce la legge «un attacco appena velato alla religione musulmana», e afferma che la politica francese equivale a un «disarmo spirituale dell’islam in un momento poco propizio».

 

In breve

 

A seguito delle consultazioni parlamentari di lunedì, l’imprenditore Najib Mikati è stato nominato premier incaricato per la formazione di un nuovo governo libanese dopo più di dieci mesi di stallo politico. «Non ho una bacchetta magica e non faccio miracoli» ha detto alla stampa, ma si è dichiarato ottimista su un possibile allineamento con il presidente Aoun, riporta il Washington Post.

 

La petroliera, di proprietà giapponese ma a gestione israeliana, Mercer Street è stata colpita nel Golfo dell’Oman la notte di giovedì 29 luglio. Due membri dell’equipaggio sono morti, mentre è stata aperta un’inchiesta per chiarire se si sia trattato di pirateria o dell’ultimo caso di una lunga serie di attacchi marittimi di cui Iran e Israele si sono accusati a vicenda, scrive l’Associated Press, ripresa da Haaretz.

 

L’emiro Tamim bin Hamad Al Thani ha approvato una legge che regola le prime elezioni legislative del Qatar, annuncia Al Jazeera. Il voto del prossimo ottobre stabilirà la composizione di due terzi dell’Assemblea consultiva, mentre i restanti membri continueranno ad essere nominati dall’emiro.

 

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