La concezione del potere come proprietà privata ha condotto al crollo delle società. La svolta verrà solo da una formula politica che allo stesso tempo riconosca i diritti di cittadinanza e consenta una rappresentanza degli spazi comunitari

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:54

La concezione del potere come mulk, ovvero come proprietà di una persona, di una tribù o di una confessione, ha condotto alla distruzione che è sotto i nostri occhi, tra la cecità delle potenze mondiali e la spregiudicatezza degli attori locali. La violenza colpisce tutti indiscriminatamente, ma raggiunge in alcune comunità proporzioni genocidarie. La svolta verrà solo con una democrazia che allo stesso tempo riconosca i diritti di cittadinanza e garantisca una rappresentanza degli spazi comunitari.

Intervista a Hamit Bozarslan

 

Il crollo non solo degli Stati ma anche delle società sembra ormai inarrestabile in Medio Oriente. Vede qualche segnale di un’inversione di tendenza?

No, per il momento le società continuano a disgregarsi senza ricomporsi, che si tratti dell’Iraq, della Siria, della Libia o dello Yemen. Anche l’esodo verso l’Europa lo testimonia indirettamente. Per capire che cosa sta avvenendo, bisogna prima di tutto misurare i numeri in tutta la loro ampiezza, senza ingenuità: oggi, su 22 milioni di siriani, 11 o 12 milioni sono sfollati o rifugiati. Il problema è enorme, al punto che si può parlare non soltanto di crollo delle società, ma di una loro scomparsa, di una loro estinzione, per usare un termine preso in prestito alle scienze della natura. È vero che si possono citare anche contro-esempi: la società curda in via di costruzione, l’Egitto o la Tunisia… Ma ovunque regni la guerra, la disintegrazione è sempre più accelerata.

 

Non è raro ascoltare, soprattutto in Medio Oriente, la tesi secondo la quale il caos sarebbe in realtà indotto dall’esterno, per mantenere l’intera regione nell’instabilità.

Mi sembra una lettura che sopravvaluta di molto le reali capacità operative dell’Occidente. Gli Stati occidentali non hanno scommesso deliberatamente sul caos. Se è vero che lo hanno prodotto e in un secondo tempo integrato nella loro strategia, lo hanno fatto molto più per cecità e sconsideratezza che per scelta deliberata. Per fare un solo esempio: la città di Falluja, in Iraq, è caduta in mano a Daesh (l’acronimo arabo di ISIS, NdR) il 4 gennaio 2014: se gli americani avessero preso immediatamente delle contromisure, probabilmente Mosul, con i suoi 1,3 milioni di abitanti, non sarebbe caduta a sua volta, sei mesi più tardi. L’incapacità d’intervenire sul campo è impressionante. Si è perso moltissimo tempo e l’inerzia del 2011-2012 è già costata molto cara. Ancora nel 2012 si parlava di qualche centinaio di jihadisti, mentre oggi si contano a decine di migliaia e nessuno si domanda che cosa succederebbe se a vincere fosse Daesh o i movimenti jihadisti stile al-Qaida. Eppure è un’ipotesi sul terreno, anche se non la si vuole guardare in faccia.

Questo per quanto riguarda l’Occidente. A livello delle potenze regionali e locali, invece, si può affermare che effettivamente ogni attore, non riuscendo a imporsi in maniera egemonica, ha scommesso su una strategia del caos. È il caso dell’Iran, le cui responsabilità non vanno assolutamente minimizzate. Si può discutere sul negoziato con l’Iran – e personalmente lo appoggio – ma bisogna avere ben presente che l’Iran non ha fatto assolutamente nulla per trovare una soluzione al conflitto siriano. Ha optato da subito per Bashar al-Asad e lo ha sostenuto a ogni costo. Allo stesso modo Teheran, pur potendo far valere un peso enorme in Iraq, non ha fatto nulla per correggere le politiche di Maliki e porre un freno alla sua logica di confessionalizzazione atroce. La Turchia non è stata da meno, avendo giocato deliberatamente la carta più pericolosa che possa esistere nella regione, per contenere il movimento curdo e indebolire Asad. Ancora di recente, nella stampa turca sono usciti tre o quattro articoli sull’appoggio fornito allo Stato Islamico e la questione non è chiusa. Una grande parte di responsabilità ce l’ha anche l’Arabia Saudita, che sostiene gli attori jihadisti più inquietanti in un gioco estremamente ambiguo volto a indebolire a ogni costo Asad. Penso che gli storici del futuro, quando tratteranno di questo decennio di sangue, imputeranno il caos molto più agli attori locali che alle potenze occidentali. La colpa di queste ultime è stata piuttosto quella di restare cieche agli eventi e immobili.

 

Ha fatto cenno al confessionalismo di Maliki in Iraq, un esempio tra tanti della contrapposizione tra sunniti e sciiti nel Medio Oriente attuale. Si tratta di un dato strutturale inaggirabile?

Non so se sia strutturale, ma quel che è certo è che la strategia iraniana, turca e saudita lo alimentano ad oltranza. In Siria si vedono ormai chiaramente costituirsi una regione alawita e una regione sunnita, che un domani potrebbe sfuggire al controllo di Daesh per finire sotto il dominio di altri gruppi più o meno radicali. In Iraq la divisione era già cominciata con Saddam Hussein e il suo regime ed è ormai un fatto compiuto.

 

A fronte di questa escalation, che fine fanno le tribù, altro attore di notevole importanza nella storia del Medio Oriente?

Prima di tutto, il fatto tribale non va compreso in termini statici, ma evolve e si ricompone in funzione dei rapporti di forza che intrattiene con lo Stato. Come principio generale, quanto più lo Stato si indebolisce, tanto più le tribù contano come entità. Oggi però, pur essendo in presenza di un crollo degli Stati, non è la tribù a emergere come fattore decisivo. Anch’essa infatti perde terreno e marca il passo rispetto a una dinamica di confessionalizzazione sempre più spinta, che non esita ad arrivare alla pulizia etnica. Così in Yemen l’elemento confessionale ha preso il sopravvento su quello tribale. E in Libia, anche se le tribù restano molto attive, il peso della violenza è tale che non riescono più a mantenersi autonome. Probabilmente qualcosa di simile sta avvenendo anche nel Sinai, l’unica regione egiziana in cui le tribù giochino un ruolo di primo piano. Se volessimo fare un paragone con la storia europea, siamo in piena guerra di religione. Con l’aggravante che una riedizione mediorientale della pace di Vestfalia è del tutto improbabile perché è proprio dello Stato Leviatano che stiamo certificando il crollo, ammesso che esso sia mai esistito in Medio Oriente.

 

Eppure l’accordo sul nucleare iraniano potrebbe essere il primo passo per un recupero della dimensione statuale…

Non credo. Non sono in grado di leggere la carta politica interna e la lotta tra le diverse fazioni, ma a livello di politica estera è chiaro che l’Iran, per poter svolgere un ruolo positivo, deve smettere di seguire una logica confessionale. Invece, finora, ha prevalso la politica delle milizie. In Libano, in Siria, in Iraq o Yemen l’Iran non pensa le società. Teheran pensa il conflitto in termini di comunità confessionali e fintantoché non esce da questa logica, non potrà diventare un elemento di stabilizzazione. In questo non differisce molto dall’Arabia Saudita. Nonostante le immense risorse che può mettere in campo, Riyadh non è un fattore positivo nella regione, perché conosce solo la logica dell’egemonia politico-confessionale. Ma da questa logica si trapassa molto facilmente a quella demografica, ed egemonia demografica significa sterminio, militarizzazione delle comunità, distruzione delle strutture statuali a vantaggio di una comunità. Anche ammettendo che Riyadh e Teheran non si propongano volutamente di frammentare le società, la logica che ne ispira le scelte produce inevitabilmente questo risultato.

 

Dopo la fulminea avanzata di Daesh nell’Iraq settentrionale si è cominciato a parlare di genocidio ai danni delle minoranze etniche e religiose. Secondo Lei l’utilizzo di questo termine è giustificato?

Nel Medio Oriente di oggi tutti soffrono e in termini quantitativi le vittime sono perlopiù musulmane, essendo islamica la grande maggioranza della popolazione. Ma occorre guardare la cosa anche in termini relativi. Una comunità come quella yazida conta al più alcune centinaia di migliaia di membri e al momento dell’attacco era pressoché disarmata. Se si rapiscono migliaia di donne e si uccidono i loro mariti, come Daesh ha fatto, si fa presto ad arrivare a una proporzione da genocidio. Oppure prendiamo il caso dei cristiani iracheni, oggi in grande misura rifugiati nel Kurdistan iracheno. A Mosul erano già restati così in pochi che anche un’uccisione di un numero ridotto in termini assoluti equivale a un genocidio. E poi non bisogna sottostimare la dimensione simbolica. Attaccare le comunità cristiane e yazide esprime la volontà di distruggere ogni forma di multiculturalità, ogni pluralismo religioso. Significa cancellare totalmente ogni differenza nel credo e intervenire direttamente nello spazio per cancellare le tracce dell’esistenza di una religione diversa, i templi, i monasteri. Insomma, il male investe tutti e il bilancio è tremendo, in Siria come in Iraq, ma ciò non toglie che il caso delle minoranze vada preso in considerazione in modo specifico. In questo non c’è nessuna vittimizzazione, semplicemente ci sono delle vittime.

 

I curdi hanno acquisito una grande visibilità. Potrebbero essere un punto di partenza per la ricostruzione del Medio Oriente?

È troppo presto per dirlo. Le comunità curde sono anch’esse vulnerabili, come si vede ogni giorno in Siria. I territori curdi attualmente sono spazi di resistenza, ma mancano di un legame sociale forte con la società araba intorno. Inoltre la differenza tra Kurdistan iracheno e Kurdistan siriano è molto marcata, sono due modelli politici totalmente differenti. La società curda non è egualitaria e lo si vede anche nel rapporto con le minoranze: i cristiani sono protetti, ed è già qualcosa, ma non c’è uguaglianza giuridica o politica tra i musulmani e  i non-musulmani. E soprattutto, malgrado la coesione interna, anche la società curda non è in grado di resistere a lungo in un ambiente così violento. Senza la protezione americana, i curdi avrebbero potuto mantenere le loro posizioni, oltretutto a fronte di una politica turca risolutamente ostile? Non è per nulla certo. Anche i curdi sono vulnerabili. Perché la situazione politica cambi davvero, occorrerebbe un inizio di democratizzazione a livello regionale o quanto meno il prevalere della dimensione della cittadinanza sulla logica confessionale.

 

E in effetti nell’ultimo secolo si è assistito al fallimento di tutte le formule politiche adottate in Medio Oriente, perché ognuna di queste formule produceva al tempo stesso integrazione ed esclusione. Ad esempio la logica religiosa islamica esclude o marginalizza i non-musulmani, il discorso nazionale arabista esclude i non-arabi. Oggi quale formula potrebbe produrre il massimo d’integrazione e il minimo d’esclusione?

In passato la questione è stata oggetto di discussione, ma ho l’impressione che oggi questi dibattiti abbiano perso il loro significato e siano stati superati dagli eventi. Penso che per il futuro non si possa immaginare un Medio Oriente pacificato senza l’introduzione della nozione di cittadinanza. Questo implica una democrazia, per quanto certamente non declinata all’occidentale. Un Paese può avere al suo interno diverse comunità, le comunità confessionali hanno diritto alla loro rappresentazione e a una strutturazione interna, senza che questa divenga una prigione che impedisce agli individui di uscire; si può pensare a sistemi d’autonomia regionale, le soluzioni e gli aggiustamenti possibili sono innumerevoli… Ma al fondo credo che si dovrebbe rinunciare una volta per tutte all’idea del potere come mulk, come proprietà di una persona, di un clan, di una tribù o confessione, e accettare la nozione che il potere appartiene a una collettività e che tra la comunità e le strutture del potere e dello Stato c’è una differenza di fondo. Lo Stato dev’essere lo Stato di diritto. La storia ha mostrato che i gruppi che arrivano al potere sono tentati dalla confisca del potere come clan, tribù o confessione. Penso sia giunto il momento di finirla con questa logica. Gli effetti sarebbero così dirompenti che fatico a immaginare che cosa potrebbe diventare questo nuovo Medio Oriente. Se mai vedrà la luce.

 

Questo processo potrebbe aver luogo anche con i confini attuali? Per molti non esistono già più.

Non sono i confini il problema. Ad esempio, ricavare un Kurdistan indipendente spostando il confine siriano e iracheno non cambierebbe assolutamente i termini della guerra in Iraq o in Siria. Perché il conflitto è al fondo confessionale. Il punto è che le società possano ricostruirsi, che nel 2020 si possa ancora parlare di una società siriana o irachena. Se questo dato è assicurato, si potrebbero tranquillamente mantenere le frontiere attuali, attuando modi di rappresentazione, d’autonomia e di decentralizzazione propri a ciascun Paese. Si può pensare a come dare rappresentanza agli spazi comunitari, si potrebbe riconoscere uno statuto specifico ad alcune autorità sunnite e sciite senza che necessariamente questo si traduca in una rappresentazione politica delle diverse confessioni.

In questo senso la storia recente della Siria ha qualcosa da insegnare. A differenza dell’Egitto, dove il Cairo ha svolto una funzione centralizzatrice, la società siriana non ha mai guardato a Damasco come a un punto di riferimento. La regione di Raqqa, oggi tragico epicentro di Daesh, ha sempre avuto le sue specificità, Aleppo ha sempre avuto un’identità molto forte, le province centrali con Hama e Homs si sono caratterizzate per alcune particolarità, al sud Daraa è strettamente legata alla Giordania mentre tra l’Iraq settentrionale e Deir Ezzor esiste un continuum. Non è impossibile pensare a dei modi di decentralizzazione accettabili e che non ostacolino l’esercizio della cittadinanza. Pensiamo in Europa alla Spagna. Sono i jihadisti ad avere l’ossessione della cancellazione dei confini, mentre si possono immaginare mille soluzioni ad hoc. L’unica precondizione è che sia ristabilita la pace. Detto questo, se l’Iraq un domani dovesse sparire, non sarebbe una catastrofe. Che spariscano gli iracheni, questa sarebbe la catastrofe. Ma se le frontiere cambiano senza che cambi il dato politico, si avrà sempre la guerra.

 

A proposito di Iraq, sono state tentate due strategie di pacificazione. La prima, che risale al 2004, fu elaborata da Paul Bremer: prevedeva la completa esclusione delle forze legate al regime baathista e si è conclusa con un sonoro fallimento. La seconda, lanciata dal generale Petraeus nel 2007, ha coinvolto le tribù sunnite. Ha conosciuto un successo maggiore, ma a un certo momento è stata interrotta. Potrebbe essere ripresa ora?

Rispondo con un’altra domanda. Si può giocare due volte la stessa carta? Non dimentichiamoci che le tribù sono rimaste molto deluse dagli sviluppi successivi al 2007. E poi c’è una seconda questione, non meno importante: il governo di Baghdad ha la capacità e la volontà di condividere il potere uscendo da una logica di contrapposizione sciiti-sunniti? Anche questo non è per nulla scontato. Oggi continuiamo a parlare di un esercito iracheno, i cui effettivi ammonterebbero ad alcune centinaia di persone, ma in realtà Baghdad non ha più un esercito. A combattere sono le milizie sciite, che agiscono con una brutalità estrema e secondo una logica confessionale. E poi c’è un terzo fattore che induce alla cautela, forse il più importante, anche se il più sottovalutato. È il fattore spazio-temporale. Più un gruppo riesce a mantenersi nello spazio e nella durata, più diventa irreversibile. Nei territori controllati da Daesh, è in atto un processo d’istituzionalizzazione, di organizzazione e di fortificazione. Le tribù, che nel 2007 potevano essere decisive e che ancora nel 2013 avevano una loro importanza, oggi lo sono molto meno. Anche gli ufficiali baathisti che hanno svolto un ruolo nefasto nell’emergere dello Stato Islamico e nella conquista di Mosul sono ormai totalmente marginalizzati. In molti casi inventare una cittadinanza condivisa era forse possibile in passato, ma oggi in tante situazioni suona illusorio. Per i jihadisti lo scorrere del tempo marca la costruzione di uno Stato e la sua territorializzazione. Non sono affatto certo che la strategia del 2007 possa avere ancora un senso nel 2015. Non si possono riportare indietro le lancette dell’orologio.

 

Insomma, ogni giorno concesso allo Stato Islamico è un giorno perso?

Sì. E dal loro punto di vista è un giorno guadagnato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Hamit Bozarslan, Medio Oriente nella gabbia confessionale, «Oasis», anno XI, n. 22, novembre 2015, pp. 90-98.

 

Riferimento al formato digitale:

Hamit Bozarslan, Medio Oriente nella gabbia confessionale, «Oasis» [online], pubblicato il 5 novembre 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/medio-oriente-nella-gabbia-confessionale.

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