Il ritratto inedito del Profeta dell’Islam tracciato da un’autrice tunisina nel libro “Gli ultimi giorni di Muhammad”

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:53

Accademica tunisina, Héla Ouardi è l’autrice di Les derniers jours de Muhammad (“Gli ultimi giorni di Muhammad”, Albin Michel 2016) un’«inchiesta sulla misteriosa morte del Profeta», che ha riscosso un notevole successo in Tunisia e in Francia. Esaminando le fonti arabe antiche, Héla Ouardi traccia un ritratto inedito del Profeta dell’Islam, che ha suscitato reazioni contrastanti. La biografia agiografica impostasi nel mondo musulmano cede il passo alla storia di un uomo minacciato e indebolito dalle rivalità fra i suoi Compagni, ma che in questa crisi ritrova paradossalmente tutta la sua statura. In questa conversazione, svoltasi a Milano a margine di una riunione del MEM (Middle East Mediterranean Freethinking Platform), Héla Ouardi torna sul suo libro e su ciò che ha imparato dalla sua controversa accoglienza.

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 Copertina del libro di Héla Ouardi, Les derniers jours de Muhammad

 

Da dove le è venuta l’idea di un libro sulla vita di Muhammad?

È una domanda che continuo a pormi, perché il mio percorso universitario, incentrato sulla letteratura e sulla civiltà francese, non mi predestinava a condurre uno studio di questo genere. Infatti, avevo lavorato principalmente su Raymond Queneau. Ma è la storia che è venuta a bussare alla mia porta. Dopo la rivoluzione tunisina del 2010-2011, mi sono sentita interpellata dal problema che l’Islam pone oggi ai musulmani come ai non musulmani, e ho tentato di rintracciare le radici storiche di questo malessere.

 

La mia ricerca si è presto cristallizzata intorno alla figura emblematica del Profeta. Era il periodo in cui circolava su internet il film L’innocenza dell’Islam, che aveva scatenato un’ondata di proteste nel mondo musulmano. A Benghazi, l’ambasciatore americano era stato ucciso; anche a Tunisi erano esplose delle proteste, anche se con conseguenze meno drammatiche, per fortuna. Poco dopo, c’è stato l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi e mi sono detta che dovevo cominciare a capire meglio chi fosse quest’uomo. Di fatto, ben presto mi sono resa conto che, pur essendo nata in una Paese musulmano, non sapevo un granché dell’Islam. Conoscevo qualche elemento della liturgia e alcuni divieti alimentari; ma non ci era stata trasmessa una conoscenza storica della religione.

 

Ho quindi cominciato a leggere le fonti della tradizione per cultura personale: le diverse Sīra (biografie di Muhammad, NdR), tra le quali la più autorevole, quella d’Ibn Hishām, il Kitāb al-Maghā di al-Wāqidī e le Tabaqāt al-kubrā d’Ibn Sa‘d, che sono tra i testi più antichi. Grazie a un amico, mi sono procurata anche una fonte sciita, il Kitāb Sulaym Ibn Qays al-Hilālī, che è considerato tra i libri più antichi della tradizione musulmana, anche se contiene dei passaggi sicuramente apocrifi. Naturalmente ho preso in considerazione anche il Corano e la sua esegesi, perché molti versetti del Libro sacro dell’Islam fanno riferimento alla vita del Profeta.

 

E che cosa ha scoperto?

Nel corso di questa lettura, a colpirmi di più è stata la dimensione tragica della fine della vita del Profeta. Lo sappiamo, la sofferenza genera empatia e, esaminando i racconti che ci sono stati lasciati dalla tradizione, ho ritrovato tutti gli ingredienti della fine di un regno: un uomo potente, un capo temuto, che viene sconfitto dai bizantini nel 629 a Mut’a (attualmente in Giordania), che in seguito si trova di nuovo in un’impasse a Tabuk nel 630 e che vede declinare la propria autorità. I suoi seguaci credevano di essere i soldati di Dio sulla terra e che gli angeli combattessero dalla loro parte. Alcuni di loro cominciarono allora a chiedersi come fosse stato possibile che i bizantini (“miscredenti”) avessero sbarrato loro la strada per Gerusalemme. L’atmosfera di disagio è anche accentuata dalle dispute nella cerchia ristretta del Profeta. In particolar modo, mi sono interessata al periodo di lutto che lui stesso visse qualche mese prima di morire, a causa della perdita dell’amato figlio Ibrahim: lo fece sprofondare in un tale stato di abbattimento psicologico da impedirgli di intraprendere una qualsiasi azione politica o militare e, nel suo sermone di addio, alla fine del pellegrinaggio, annuncerà quasi apertamente il suo ritiro.

 

Ad aggravare la situazione intervenne infine la malattia, che si manifestò al ritorno dal pellegrinaggio. Tutto il suo entourage iniziò così a sentire che era giunta l’ora della successione. Montarono la tensione e gli intrighi. In particolare, sono rimasta scioccata quando ho letto nelle fonti che al Profeta venne impedito di dettare il suo testamento e fu oggetto, nei suoi ultimi giorni, di una sorta di sequestro. Peraltro, le sue esequie furono celebrate tardivamente e il suo corpo restò abbandonato per diverse ore, senza che nessuno si curasse di seppellirlo, perché erano tutti troppo presi a discutere della successione. Ed è lì che termina il mio racconto.    

 

Un celebre hadīth afferma che l’Islam è nato nell’emigrazione (hijra) e finirà nell’emigrazione. In questo senso, la parabola di vita di Muhammad assomiglia a quella di Mosè della Bibbia, ma con una grande differenza: Mosè non entra nella Terra Promessa, mentre Muhammad ritorna a La Mecca trionfando sui suoi nemici. Tuttavia, se ammettiamo che la Terra Promessa fosse, anche per Muhammad, Gerusalemme e non l’Arabia, il parallelo con Mosé diventa più calzante. Non si tratta di un dettaglio biografico: tale dislocamento darebbe all’Islam uno spazio escatologico per evitare una sovrapposizione immediata tra la città terrestre e il Regno di Dio.

Certamente. Alcune fonti non musulmane dicono addirittura che Muhammad non sarebbe morto a Medina, ma a Gaza: ne parlo nella post-fazione del mio libro! Queste informazioni si trovano in alcune fonti non musulmane contemporanee del Profeta, all’inizio del VII secolo, tra cui un testo scritto a Cartagine, la Doctrina Jacobi. Muhammad aveva un legame con la Palestina: suo bisnonno Hāshim, eponimo della dinastia hascemita, era sepolto a Gaza. Il fatto di per sé non sarebbe quindi impossibile, anche se restiamo sempre nell’ambito delle ipotesi, senza prove tangibili.

 

Ma per ritornare alla sua domanda, il fatto di tagliare il legame con Gerusalemme e di preferire La Mecca è stata piuttosto una scelta dei califfi omayyadi. Alcuni scavi archeologici sembrano addirittura suggerire che le prime moschee della Siria fossero orientate verso Gerusalemme, anche se non ho le conoscenze per potermi pronunciare in merito. Il punto è che fintanto che non avremo portato alla luce le radici storiche dell’Islam, e in particolare il rapporto con Gerusalemme, continueremo ad avere dei problemi con la storia contemporanea.

 

Che idea si è fatta della questione della successione, che è al centro della divisione tra sunniti e sciiti? Muhammad davvero non aveva previsto la sua morte e non aveva pensato a un successore?

La lotta per la successione è stata una risposta al malessere psicologico e alla depressione collettiva che ha portato inizialmente a un fenomeno passato quasi inosservato: la negazione della morte del Profeta. In effetti, nelle ore caotiche che seguono la morte di Muhammad, si vede ‘Umar tacciare d’infedeltà chiunque avesse affermato il decesso del Profeta, che doveva essere il Testimone della comunità musulmana il Giorno del giudizio. È nota la frase di Abū Bakr, che, correggendo ‘Umar, segna per l’Islam la fine del mito e l’inizio della storia: «Per chiunque adorava Muhammad, ebbene Muhammad è morto. Ma per chi adorava Dio, Dio è il vivente che non muore». Con questa frase, Abū Bakr annuncia che il mito della profezia è finito.

 

Io credo che la questione della successione sia legata a una mancata elaborazione del lutto. I musulmani non hanno veramente sepolto Muhammad, l’hanno mantenuto in vita artificialmente attraverso le sue reincarnazioni: che sia la reincarnazione dinastica, gli imam per gli sciiti, oppure la reincarnazione politica, il califfo per i sunniti. Del resto, è un vuoto che non è mai stato riempito. La stessa parola khalīfa (“califfo, vicario”) indica il carattere artificioso della sostituzione. In termini funzionali il califfo sunnita è veramente un sostituto provvisorio, che non ha un’esistenza autonoma. È l’interim: ma in attesa di che cosa? Del ritorno di Muhammad? Della fine del mondo?

 

Detto ciò, per me è chiaro che Muhammad non ha indicato né Abū Bakr, né ‘Umar per la successione: non lo affermano neppure gli autori sunniti più ortodossi. Abū Bakr lo dice alla Saqīfa il giorno della morte di Muhammad e lo ridice al momento della propria agonia. Ma, se Muhammad avesse dovuto scegliere qualcuno, io penso che avrebbe scelto ‘Alī e questo per una ragione molto semplice: perché secondo me lui voleva fondare una dinastia. È per questo che desiderava avere un figlio maschio. Se avesse scelto ‘Ali, sarebbe stato per essere sicuro che i suoi nipoti prendessero il potere dopo di lui. In altre parole, guardava piuttosto ai suoi nipoti, Hasan e Husayn.

 

Tuttavia, è evidente, almeno per me, che non si trattava di una successione spirituale, perché Muhammad si considerava il khātam al-anbiyā’, il sigillo dei profeti. Durante il discorso d’addio, lui stesso ha annunciato il compimento della sua missione. Nessuno dopo di lui potrà essere depositario di un qualsivoglia messaggio religioso. In poche parole: la trasmissione di un potere terrestre sì, trasmissione di un embrione di Stato sì, ma teneva per sé il monopolio del potere spirituale. Forse Muhammad aveva già previsto la questione della successione quando era ancora in pieno possesso dei suoi mezzi di capo di Stato, ma nei giorni che precedono la sua morte non ha più la forza di occuparsene. A questo proposito, ho trattenuto una frase estremamente eloquente. Quando Bilāl, il primo muezzin dell’Islam, va a trovarlo l’ultimo venerdì per invitarlo a guidare la preghiera, Muhammad gli risponde: «Pregherà chi vorrà! Devo occuparmi di me stesso». Come per dire, parafrasando un po’: «Ora avete le mani libere, sono preoccupato per me stesso e per la salvezza della mia anima». Nel suo discorso d’addio, d’altronde, aveva concluso affermando di aver trasmesso il messaggio e che con questo si concludeva la sua missione. Io penso che questo atteggiamento corrisponda bene alla condizione di un uomo malato, sconfitto, che si ritrova quasi al punto di partenza, perché perseguitato, questa volta non dai pagani, ma dalla sua famiglia e dai Compagni. In quel momento, dopo tanto successo, si rende conto che vanitas vanitatum, omnia vanitas, tutto è vanità e la sola certezza della vita è che moriremo. Le sue ultime settimane sono state una rinuncia, una purificazione forzata a cui per lungo tempo si era sottratto. Questo dà una profondità sublime al personaggio e penso che sia per questo motivo che il suo messaggio non è stato dimenticato. Il suo destino è tragico, io credo che sia stato assassinato, non direttamente da una pugnalata, ma nel senso che l’hanno lasciato morire. Non è nemmeno stato visitato da un medico, anche se le fonti ci dicono che ce n’erano molti a Medina.

 

Com’è stata accolta la sua ricerca in Tunisia e altrove nei Paesi musulmani?

Senta, non esistono Paesi musulmani: ci sono Stati la cui religione ufficiale è l’Islam, spesso con pochi punti in comune tra di loro. In Tunisia, il libro è stato un grandissimo successo: tre giorni dopo l’uscita era esaurito ed è stata preparata una lista di attesa, al punto che le persone hanno creduto che fosse stato ritirato dal commercio. Dei giornalisti hanno scritto che il libro era stato censurato, ma in realtà non c’è stata censura, era solo esaurito. Semplicemente, visto il prezzo del libro, che è calibrato su un pubblico francese, le librerie tunisine non ne avevano ordinata una quantità sufficiente. È andato tutto bene finché non ho rilasciato una breve intervista su TV5monde. Mi sono arrivate delle minacce dal Senegal, compresa una fatwa secondo la quale l’opera era «peggio dei Versetti satanici di Salman Rushdie». In Senegal il libro è stato bruciato e proibito. Ma per fortuna è intervenuto lo Stato tunisino e in seguito le minacce sono cessate. Nel frattempo il libro è diventato introvabile in Marocco. Il ministro della comunicazione ha dichiarato che non c’era stata censura, ma di fatto era impossibile trovarlo, forse si trattava di una forma di autocensura. Stessa cosa in Algeria.

 

In seguito, un’intervista che ho rilasciato a Le Point è stata tradotta in arabo da un giornalista di al-Ahram, ma il quotidiano egiziano non l’ha pubblicata. Il giornalista l’ha postata comunque sulla sua pagina Facebook e l’ha fatta circolare, così come l’intervista che avevo fatto su France24. A parte il caso del Senegal, non ho ricevuto minacce, anche se constato un profondo turbamento nei confronti del mio libro. Un giorno uno dei miei corrispondenti marocchini mi ha detto che incrociava le dita che io non lo traducessi in arabo, di modo che passasse inosservato. Non ha torto. Ho cercato di essere discreta, ma ho avuto anche fortuna. In ogni caso, il libro si difende da solo e non ha bisogno di una tempesta mediatica.

 

Nel prologo lei afferma “la morte di Muhammad è un episodio che sembra cristallizzare le radici del malessere dell’Islam nella civiltà moderna” (p. 19). In che senso?

Il libro rivela che c’è un problema irrisolto, e la morte del Profeta ne è l’emblema: si tratta della questione della violenza. Il profeta stesso l’ha subita, ne è stato vittima. La macchina che aveva messo in moto lui stesso ha finito per schiacciarlo, perché ha dato un’ambizione smisurata ai suoi Compagni. Il pragmatismo, il machiavellismo, di cui aveva fatto prova nella sua carriera di capo politico, sono stati riprodotti quasi alla lettera dai suoi Compagni e dai suoi successori. Ciò spiega il permanere del conflitto tra sunniti e sciiti, per esempio.

 

A mio avviso, il problema dell’Islam si è manifestato al momento della morte del Profeta, che ha messo una religione davanti alla fine della storia. Non è un caso che tutti i movimenti terroristici di oggi abbiano una dimensione escatologica.

 

La vera domanda sarebbe dunque: c’è qualcosa tra la fine della profezia e la fine del mondo?

Sì, il punto è proprio questo. Come per la comunità musulmana del 632, la nostra alternativa è chiara: entrare nella storia o uscirne? L’ingresso nella storia è stato imposto da Abū Bakr, ma ne stiamo ancora pagando il prezzo, perché non c’è una vera separazione tra il potere spirituale e il potere politico. Il cancro della successione, secondo me, si è diffuso in tutto il corpo politico. E continuerà a porre dei problemi fino al giorno in cui ci sarà una vera rottura tra il califfato come monarchia teocratica, e un potere terrestre affidato a tutti, chiamiamolo democratico, perché fino ad oggi non abbiamo trovato nulla di meglio.

 

 

*Intervento raccolto da Martino Diez

[Testo tradotto dal francese] 

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