La proposta di inserire i Fratelli musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche va letta tenendo conto del conflitto che divide gli Stati del Golfo e delle alleanze internazionali

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:07

L’idea non è nuova. Già nel 2017 fu avanzata la proposta di inserire Fratelli musulmani e Guardiani della rivoluzione iraniana nella lista delle Foreign Terrorist Organizations (FTO). Era il periodo in cui Stephen Bannon e altri esponenti riconducibili al sito di estrema destra Breitbart occupavano posizioni di rilievo nell’amministrazione Trump. Non se ne fece poi nulla e nel frattempo Bannon è stato rimosso dai suoi incarichi alla Casa Bianca. 

 

Quest’anno gli eventi sembrano aver preso una piega diversa e il 15 aprile le guardie rivoluzionarie iraniane sono state effettivamente inserite nella lista delle organizzazioni terroristiche. Pochi giorni dopo è tornata in auge l’idea di fare lo stesso con i Fratelli musulmani. Si tratterebbe di una decisione che imporrebbe di interrompere qualsiasi rapporto con persone o organizzazioni con legami espliciti o impliciti con gli Ikhwan. Come si dovrebbero dunque comportare le università o i think tank americani che hanno sede a Doha, capitale simbolo del sostegno a questo movimento islamista? Che ne sarebbe della base militare americana di Al Udeid, che dunque sarebbe formalmente ospitata da uno stato sponsor del terrorismo? E come cambierebbero le relazioni di Washington con uno dei più importanti membri della NATO, quella Turchia che in politica estera fa spesso tandem con l’Emirato degli al-Thani? Sono solo una minima parte degli effetti concreti – e bizzarri – di un eventuale inserimento della Fratellanza nella blacklist del Dipartimento di Stato americano.

 

Oltre ai dubbi sulle conseguenze pratiche di una simile decisione, ci si può chiedere su quali basi il movimento fondato da Hasan al-Banna possa essere definito terrorista. L’analista americano Shadi Hamid ha recentemente affermato che nessun esperto americano di Fratellanza sosterrebbe questa iniziativa. Gli ha fatto eco Thomas Hegghammer, uno dei più importanti studiosi di terrorismo islamista, aggiungendo che neppure gli specialisti di terrorismo lo farebbero:

 

 

 

 

Sia le tempistiche che il contesto della proposta, tuttavia, indicano che in gioco non c’è tanto una discussione “accademica” sulla presenza o meno dei requisiti per essere definiti terroristi, ma l’affermazione di un particolare orientamento (geo)politico, imperniato sull’alleanza sempre più stretta tra Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con al seguito l’Egitto.

 

Non è un caso che la proposta sia riemersa proprio dopo il bilaterale tra Trump e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che vede nell’organizzazione a cui apparteneva il suo predecessore Mohammed Mursi una minaccia esistenziale. Per questo Il Cairo la combatte in patria e all’estero, senza andare troppo per il sottile quanto a metodi repressivi. È difficile perciò comprendere l’orientamento della presidenza Trump senza inquadrare l’amministrazione americana e i suoi uomini chiave (Mike Pompeo, John Bolton) all’interno del network di alleanze internazionali in cui essa sembra sempre più coinvolta.

 

Se da un lato non è ancora chiaro se questa proposta diventerà effettivamente operativa, dall’altro essa permette di intravedere la direzione verso dove alcuni alleati degli Stati Uniti vorrebbero spingere Washington. Non si tratta infatti di decidere se i Fratelli musulmani abbiano tendenze autoritarie o meno, e nemmeno di stabilire se l’interpretazione dell’Islam che propongono sia compatibile con la democrazia liberale occidentale. In ballo c’è invece la vittoria della narrazione (costantemente utilizzata da regimi di varie tendenze) che etichetta come “minaccia alla stabilità” e come “terroristi” chiunque si faccia interprete di una linea politica “dal basso”, condivisibile o meno che sia, suscettibile di minare il potere dei governanti, tanto più se essa si esprime attraverso le rivendicazioni islamiste, fumo negli occhi per sauditi ed emiratini.

 

I contorni del conflitto contro la Fratellanza diventano particolarmente evidenti osservando i movimenti degli Stati del Golfo in Libia e in Sudan, per limitarci ai due casi che occupano le cronache più recenti. La giunta militare sudanese ha ricevuto, subito dopo la rimozione di Omar al-Bashir, aiuti per 3 miliardi di dollari provenienti da Riyadh e Abu Dhabi. Come fanno notare Giorgio Cafiero e Kristian Coates Ulrichsen, questo flusso di denaro segnala la volontà delle due capitali della penisola araba di guidare attraverso i militari la transizione verso un nuovo regime, sottraendolo all’influenza che potrebbero esercitarvi i Fratelli musulmani.

 

In Libia, il generale Khalifa Haftar con l’aiuto di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi (oltre che Francia e Russia), si muove proprio nel solco scavato dalla crisi del Golfo del luglio 2017, combattendo con il governo di Fayez al-Serraj, difeso da milizie filo-islamiste e sponsorizzato da Qatar, Turchia e persino Italia. 

 

Il supporto che Haftar riceve da Abu Dhabi non è solo materiale ma, come mostra un tweet di Anwar Gargash, ministro di Stato per gli Affari esteri degli Emirati Arabi, si fonda sullo schema narrativo utilizzato dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi per giustificare politiche repressive interne e azioni militari all’estero. Un ritornello molto diffuso che grossomodo suona così: «combattiamo contro l’estremismo e il terrorismo per garantire stabilità».

 

 

 

 

Il messaggio – ritengono gli strateghi del Golfo – dovrebbe far presa sui governi occidentali che, sommamente preoccupati da terrorismo e flussi migratori, sarebbero disposti a chiudere un occhio davanti a politiche repressive e aggressive. Guardando le scelte di alcune capitali occidentali vien da pensare che non siano troppo lontani dall’obiettivo. Che al-Sisi, Mohammed bin Salman e Mohammed bin Zayed riescano dove Bannon ha fallito?

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
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