Nel Medio Oriente allargato è in corso uno scontro tra fazioni complicato dalla grande disponibilità di idrocarburi. Infatti, mentre a livello interno la rendita petrolifera ha un effetto stabilizzatore, non altrettanto avviene sul piano regionale

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:38

Nel Medio Oriente allargato è in corso uno scontro tra fazioni complicato dalla grande disponibilità di idrocarburi. Infatti, mentre a livello interno la rendita petrolifera ha un effetto stabilizzatore, non altrettanto avviene sul piano regionale. In passato, l’abbondanza di risorse finanziarie ha incoraggiato la corsa agli armamenti e la conflittualità dell’area. Oggi, il calo del prezzo dei combustibili fossili e il crollo del turismo dovuto alla pandemia di coronavirus non portano necessariamente a una pacificazione.

 

Il mondo arabo è in preda a una guerra civile di dimensione regionale. Siamo abituati a considerare le vicende politiche ed economiche separatamente per ciascun Paese arabo: in quest’ottica vediamo quattro Paesi in cui si combatte attivamente tra diverse fazioni politiche: la Siria, l’Iraq, lo Yemen e la Libia. Ma questa visione è parziale perché ignora la dimensione regionale della politica araba, drammaticamente evidenziata dalla Primavera araba e dai suoi seguiti. In Medio Oriente, gli sviluppi politici in un Paese non sono indipendenti e isolabili dagli sviluppi politici nel resto della regione. In una certa misura questo vale anche per altre aree, America Latina, Africa o Europa. Nella regione araba gli sviluppi in un Paese hanno conseguenze immediate per gli equilibri politici negli altri Paesi, i quali conseguentemente non possono essere indifferenti e reagiscono intervenendo negli affari interni dei loro vicini.

 

Al tempo della Primavera araba, l’Arabia Saudita, con il supporto degli altri Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, è intervenuta apertamente per porre fine al movimento di democratizzazione in atto in Bahrain e salvare la locale dinastia sunnita. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono intervenuti, meno apertamente ma non timidamente, per rovesciare la presidenza di Mohammed Morsi in Egitto (sostenuta dal Qatar) e portare al potere il loro cliente, il generale al-Sisi. Sempre l’Arabia Saudita e gli Emirati sono intervenuti attivamente anche in Siria, Yemen e Libia.

 

In nessuno di questi tre casi hanno avuto molto successo. In Siria, la strana alleanza tra l’Iran e la Russia è riuscita a mantenere al potere Bashar al-Assad, che oggi controlla la maggior parte del Paese, anche se a prezzo della distruzione dello stesso e dell’esodo all’estero di milioni di siriani. In Yemen, l’avventata decisione dell’Arabia Saudita di intervenire direttamente nel conflitto non ha portato all’estromissione dal potere degli Houthi alleati dell’Iran, ma solo a una stabilizzazione delle ostilità, dalle quali gli Emirati hanno preferito sfilarsi, lasciando soli i sauditi. Anche in questo caso, i costi in termini di vite umane e distruzione di un Paese già poverissimo sono incalcolabili. In Libia, il sostegno aperto al generale Haftar, nonostante il concorso della Russia e della Francia, non ha portato all’estromissione del governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU ma, al contrario, ha aperto le porte all’intervento della Turchia.

(...)

In tutta la regione l’Iran continua, nonostante l’imposizione delle nuove sanzioni da parte degli Stati Uniti e la quasi completa interruzione delle esportazioni di petrolio, a sostenere attivamente le rivolte sciite in Bahrain, in Yemen e nella stessa Arabia Saudita. L’Iran sostiene Hezbollah in Libano, che costituisce uno Stato nello Stato con una propria forza armata e si oppone al superamento della lottizzazione politica su base confessionale, che ha condotto il Paese alla bancarotta economica e politica.

 

Ovviamente l’Iran ha anche una posizione egemonica in Iraq, dove, a 16 anni dall’intervento a guida statunitense che ha posto fine al regime di Saddam Hussein, non si intravede ancora una dinamica politica capace di unificare il Paese, e mettere in moto un processo di sviluppo capace di offrire qualche prospettiva positiva alla popolazione, nonostante l’abbondanza delle risorse petrolifere.

 

In questo quadro si è inserito anche il conflitto all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita da un lato, e il Qatar dall’altro. L’embargo dichiarato nel giugno del 2017 non è riuscito né a piegare né a isolare il Qatar, che ha trovato una sponda e un sostegno nella Turchia, e si è avvicinato all’Iran. Il motivo scatenante del conflitto è, di nuovo, ideologico e di allineamento internazionale: il Qatar ha mantenuto buoni rapporti con i Fratelli Musulmani e, di conseguenza, ha sostenuto il governo di Morsi in Egitto, il governo di Serraj (Tripoli) in Libia, e alcune fazioni in Siria e in Iraq diverse da quelle sostenute dagli emiratini e dai sauditi. La maggior parte dei Paesi arabi non ha aderito alla linea politica degli Emirati e dell’Arabia Saudita, in particolare non il Kuwait (dove i Fratelli Musulmani sono rappresentati in Parlamento), né l’Oman, due Paesi che cercano un dialogo con l’Iran.

 

Quanto di questo stato di cose è dovuto al petrolio e agli alti e bassi della rendita petrolifera?

 

Stabilità dello stato rentier

 

La teoria dello stato rentier afferma che l’avvento della rendita petrolifera ha consolidato i regimi al potere e la stessa indipendenza e definizione territoriale dei Paesi produttori. Senza il petrolio è assai dubbio che avremmo ancora oggi delle monarchie patrimoniali quali quelle del Golfo, e perfino l’indipendenza di alcuni degli Stati del Golfo sarebbe stata messa in discussione (nel caso del Kuwait, lo è stata).

 

Rendendo lo Stato indipendente dalla necessità di imporre tasse sulla cittadinanza e sulle imprese del Paese, la rendita petrolifera rafforza enormemente la posizione contrattuale di chi detiene il potere e trasforma i cittadini in clienti privi di rappresentanza politica. Nonostante le ricorrenti previsioni di inevitabile crisi interna, le monarchie del Golfo, ma anche le repubbliche che hanno beneficiato di una significativa rendita petrolifera come l’Iraq, la Libia e l’Algeria, hanno dato prova di una capacità di resistenza straordinaria. Ha giocato a loro favore non solo la capacità di comprare il consenso con la distribuzione della rendita, ma anche quella di dotarsi di sofisticati strumenti di repressione e di resistere a lunghi periodi di disordine politico ed economico senza scendere a patti con gli avversari.

 

In Iraq e in Libia i regimi di Saddam e Gheddafi sono stati sconfitti solo con l’intervento esterno. In Iran la Repubblica islamica continua a tenere saldamente il potere, nonostante evidenti e ricorrenti manifestazioni di dissenso ed esasperazione da parte di larga parte della popolazione. In Algeria “le Pouvoir” ha trionfato sull’opposizione islamica dopo una sanguinosa guerra civile negli anni ’90, mentre più recentemente ha dovuto rinunciare a sostenere il quinto mandato da presidente di Abdelaziz Bouteflika, peraltro palesemente incapacitato, ma ha comunque imposto un uomo del regime, Abdelmajid Tebboune, personaggio politicamente inesistente.

 

Né si può ignorare la vicenda dell’Arabia Saudita, dove re Salman, giunto al trono in età molto avanzata, ha consentito al maggiore dei figli nati dal suo ultimo matrimonio, Muhammad, di conquistare il potere contro l’evidente resistenza di buona parte della famiglia, i cui esponenti-chiave il giovane principe ereditario non ha esitato a mettere in prigione. Come non ha esitato a far assassinare oppositori quali Jamal al-Khashoggi, e instaurare un vero e proprio regno del terrore per scoraggiare qualsiasi forma di opposizione. La rapidità con cui Muhammad bin Salman ha consolidato il potere è un’ulteriore prova dell’intrinseca solidità dello stato rentier.

 

Non si può quindi dubitare della straordinaria capacità di stabilizzazione che comporta l’accesso alla rendita petrolifera. Tuttavia, se questo consente a istituzioni politiche altrimenti del tutto anacronistiche, come la monarchia patrimoniale, di sopravvivere, è vero anche che impedisce la nascita di un nuovo patto politico fondante in quelle situazioni in cui le istituzioni vengono spazzate via dall’intervento esterno, come è avvenuto in Iraq e in Libia. In questi casi ogni compromesso tra le forze in campo è scoraggiato dalla consapevolezza che chiunque riesca a impadronirsi del controllo della rendita potrà agevolmente rendere perenne il suo potere, escludendo la prospettiva di un’alternanza democratica. Nessuna delle forze in campo accetta quindi un compromesso che la escluda temporaneamente dal controllo della rendita, preferendo ricorrere alla lotta armata.

 

Neppure si deve dimenticare che ci sono state eccezioni alla regola della stabilità dello stato rentier, prima fra tutte la Rivoluzione iraniana negli anni ’70. Il regime dello Shah era molto più illuminato e progressista di quelli dell’altra sponda del Golfo, anche se non meno repressivo, e aveva accesso a una rendita non meno importante (in assoluto, ma la popolazione iraniana è molto più numerosa, dunque la rendita iraniana è sempre stata inferiore in termini pro capite). Da allora gli strumenti della repressione sono diventati molto più efficaci. In particolare, l’avvento di Internet e dei social media, se da un lato consente agli oppositori di organizzarsi più facilmente, dall’altro permette ai detentori del potere di penetrare molto più profondamente nella società e mappare con precisione la geografia del dissenso. La lotta tra hackers di Stato e strumenti di difesa della privacy ha visto il successo dei primi, almeno nel Medio Oriente.

 

L’impatto della rendita a livello regionale

 

Tuttavia, se a livello interno la rendita petrolifera ha un effetto stabilizzatore, lo stesso non è altrettanto vero a livello regionale. Al tempo del primo forte aumento dei prezzi del petrolio, nei primi anni ’70, la linea di conflitto principale nella regione era tra le repubbliche popolose e modernizzatrici, il cui principale esponente era l’Egitto di Nasser, e le monarchie conservatrici e scarsamente popolate, capitanate dall’Arabia Saudita di re Faysal. I due Paesi erano impegnati in una guerra per procura in Yemen, costata all’Egitto risorse enormi. Inoltre, l’Egitto e gli altri principali Paesi della regione erano sotto shock per la sconfitta subita a opera di Israele nel 1967.

 

L’avvento della rendita petrolifera ha mutato radicalmente la natura dei rapporti regionali. Il potere si è spostato «dalla canna del fucile ai barili di petrolio». La tensione tra Paesi esportatori e Paesi che di petrolio ne avevano poco o nulla è stata inizialmente attenuata attraverso due meccanismi di circolazione regionale della rendita: i consistenti trasferimenti unilaterali dai Paesi esportatori agli altri Paesi della regione, in particolare quelli impegnati contro Israele; e il massiccio aumento delle migrazioni regionali, che hanno consentito alle popolazioni dei Paesi non produttori di beneficiare della circolazione della rendita.

 

Questi due meccanismi, insieme alla promessa di maggiori investimenti dei Paesi produttori in quelli non produttori, e a diverse iniziative industriali regionali, hanno compensato per qualche tempo il risentimento dei governi e delle élite dei Paesi non produttori.

 

Eppure, già all’epoca, il problema dell’incompatibilità tra regimi di diverso orientamento politico nella medesima regione si faceva sentire. L’ascesa della Repubblica islamica in Iran, in sé stessa e indipendentemente dalle azioni del governo iraniano, veniva percepita come un pericolo mortale per i regimi dei Paesi vicini. L’occupazione della Grande Moschea della Mecca da parte di un gruppo di fondamentalisti islamici guidati da Juhaymān al-‘Utaybī nel novembre 1979 ha segnato un punto di svolta nella storia dell’Arabia Saudita: re Fahd, privo di qualsiasi credibilità religiosa, ha ceduto il passo alla componente salafita, destinando somme piuttosto ingenti al proselitismo internazionale, con gli esiti che, 40 anni dopo, tutti conosciamo.

 

Al-‘Utaybī è una delle prima incarnazioni dell’estremismo islamista violento, a cui sarebbero seguiti Bin Laden e al-Qaida, e, più recentemente, al-Baghdādī e lo Stato Islamico. Ripetutamente sconfitta sul piano militare, questa componente rimane una delle principali fazioni in lizza nella guerra civile regionale araba e gode di un certo seguito nell’opinione pubblica della regione.

 

A livello regionale, le tensioni sono sfociate nell’attacco iracheno all’Iran e nella conseguente sanguinosissima guerra, durata ben otto anni e conclusasi con un nulla di fatto. A questo è seguita l’invasione del Kuwait nel 1990, che ha avuto un effetto estremamente polarizzante nella regione. Molte realtà arabe (l’OLP, la Giordania, lo Yemen) si sono schierate a favore di Saddam e dell’invasione, dimostrando come i due sopracitati meccanismi di circolazione regionale della rendita petrolifera non fossero sufficienti a creare il consenso e la solidarietà per i Paesi produttori.

 

La reazione è stata immediata: i trasferimenti unilaterali tra governi sono terminati di colpo, e gli emigrati arabi rimpatriati. Il Kuwait e gli altri Paesi del Golfo hanno espulso i palestinesi e i giordani, mentre l’Arabia Saudita ha messo alla porta quasi un milione di yemeniti che fino ad allora avevano diritto a entrare e risiedere nel Paese senza visto. Da quel momento, i Paesi del Golfo hanno iniziato a importare in maniera massiccia manodopera dal subcontinente indiano, considerata politicamente meno pericolosa, e la circolazione della rendita fra i Paesi arabi si è drasticamente ridotta.

 

I tre cicli del prezzo del petrolio

 

Possiamo distinguere tre principali cicli del prezzo del petrolio e conseguentemente dell’importanza della rendita petrolifera. Il primo ciclo va dal 1970 al 1985: i prezzi del petrolio salgono rapidamente fino al 1980 e poi, altrettanto rapidamente, scendono. Il secondo va dal 1985 al 2000: i prezzi del greggio rimangono bassi e anzi tendono a diminuire progressivamente. Il terzo ciclo va dal 2000 al 2015: i prezzi salgono rapidamente, in particolare tra il 2004 e il 2008, crollano nel 2008-2009, tornano a livelli elevati tra il 2010 e il 2013, per crollare nuovamente a partire dalla metà del 2014.

 

Dal punto di vista politico, il primo periodo è quello dell’avvento della rendita petrolifera come determinante dei rapporti di forza regionali; il secondo è un periodo di vacche magre in cui tutti sono obbligati a fare concessioni tanto all’interno che a livello regionale; il terzo è un nuovo periodo di vacche grasse, in cui la crescita della rendita induce ad aumentare la spesa pubblica.

 

Nel primo periodo l’avvento della rendita petrolifera ha un effetto di consolidamento dei regimi esistenti mentre a livello regionale crea delle tensioni che però sono contenute dai due meccanismi di circolazione regionale di cui si è già detto. Nel secondo periodo il consenso interno è progressivamente eroso, e la circolazione regionale della rendita fortemente ridotta. Nel terzo periodo all’abbondanza della rendita e all’aumento della spesa non corrisponde un comparabile miglioramento del consenso, e le tensioni regionali esplodono in mancanza di una visione o una prospettiva d’integrazione regionale.

 

Nel terzo periodo, dopo un’iniziale esitazione ad aumentare la spesa, i regimi dei Paesi produttori allentano i cordoni della borsa e spendono senza remore, ma sono incapaci di aggiornare i modelli di spesa e di circolazione della rendita. Si ritorna ai medesimi modelli del primo periodo: si spende in infrastrutture e opere pubbliche, lo Stato offre ai cittadini posti di lavoro di cui non ha bisogno e i prezzi di alcuni beni, in particolare dei prodotti petroliferi e dell’elettricità, vengono tenuti artificialmente molto bassi.

 

Questo tipo di spesa ha avuto un forte impatto positivo nel primo periodo, consentendo di collegare tutti i centri abitati con strade asfaltate, portare l’elettricità in ogni piccolo villaggio, costruire ospedali e scuole dove non ne esistevano: tutte iniziative che avevano migliorato nettamente la qualità della vita della popolazione. Ma quando si passa da una strada a quattro corsie a una strada a sei o a otto corsie, o quando si costruisce un’università in ogni piccolo centro (senza peraltro riuscire a garantire la qualità), a beneficiare di simili progetti faraonici sono soprattutto le imprese di costruzione, mentre la maggioranza dei cittadini, e in particolare i più poveri, rimangono ai margini.

 

Quanto all’offerta di posti di lavoro pubblici, valgono delle considerazioni analoghe: nel primo periodo l’espansione della burocrazia e delle imprese di Stato aveva consentito una carriera mirabolante a molti giovani usciti, letteralmente, dal deserto; nel terzo periodo i giovani vengono integrati in strutture ormai sclerotiche, governate dalle regole di anzianità e, nella maggior parte dei casi, terribilmente disincentivanti.

 

A livello regionale, la circolazione della rendita si basa sull’iniziativa privata e sulla corruzione. I governanti dei Paesi non petroliferi sanno che la loro unica chance per arricchirsi è favorire gli investimenti privati dei Paesi produttori. I vari Mubarak e Ben Ali promuovono quindi l’ascesa di imprenditori locali politicamente fedeli ai quali chiedono di associarsi con i capitali dei Paesi del Golfo per lanciare iniziative speculative, principalmente immobiliari o turistiche, a cui i governanti possano surrettiziamente partecipare.

 

Sebbene le statistiche abbiano registrato una crescita soddisfacente del PIL nei Paesi non produttori, le distanze tra ricchi e poveri sono aumentate e hanno alimentato il risentimento dei secondi. Lo sviluppo delle emittenti televisive regionali porta lo spettacolo del successo e della ricchezza di Dubai, Abu Dhabi e Doha nelle case dei poveri egiziani, giordani o marocchini, ai quali però non è concesso cercare lavoro nel Golfo, che agli arabi preferisce i lavoratori indiani.

 

Non stupisce dunque che le tensioni regionali siano aumentate nonostante l’elevata rendita petrolifera che ha caratterizzato il terzo periodo, fino all’esplosione della Primavera araba, che, come molti episodi rivoluzionari nella storia del mondo, ha condotto alla guerra civile regionale.

 

L’attuale periodo di prezzi bassi del petrolio

 

Siamo ora in un nuovo periodo di prezzi bassi del petrolio. All’inizio tutti si aspettavano che le quotazioni sarebbero risalite in fretta perché i prezzi bassi non piacciono a nessuno: non ai Paesi produttori, non alle grandi compagnie, non ai governi dei Paesi industriali preoccupati delle conseguenze deflazioniste. Ma la realtà della domanda e dell’offerta ha avuto la meglio: il petrolio è disponibile in abbondanza e produrlo costa poco. L’OPEC, anche nella sua versione allargata alla Russia e agli altri Paesi che non fanno parte dell’organizzazione, non riesce a fare molto di più che evitare ulteriori ribassi.

 

Quanto durerà questo nuovo periodo? Se si è disposti a credere alla regolarità dei fenomeni storici, potrebbe durare quindici anni come i precedenti, quindi fino al 2030. Dopo aver toccato un minimo all’inizio del 2016, l’accordo tra OPEC, guidata dall’Arabia Saudita, e i principali produttori non-OPEC, guidati dalla Russia, ha consentito una certa ripresa dei prezzi fino al 2020. Questa ripresa tuttavia ha anche dimostrato i limiti dell’azione del gruppo cosiddetto OPEC+: nonostante la progressiva eliminazione dal mercato di almeno tre produttori importanti (Venezuela, Iran e Libia) a causa di conflitti interni e/o internazionali, le scorte internazionali di petrolio non si sono ridotte in maniera significativa, anche a causa del continuo aumento della produzione di petrolio da scisto negli Stati Uniti.

 

Su questa timida ripresa si è abbattuta all’inizio del 2020 la crisi del Covid-19, che ha innescato una drastica riduzione della domanda di petrolio e un nuovo crollo dei prezzi. Ancora una volta, OPEC+ ha raggiunto un accordo per ridurre in modo significativo produzione ed esportazioni, ma il perdurare della crisi sanitaria ha finora impedito una ripresa dei prezzi, che rimangono a un livello pari a circa un terzo di quello degli anni 2011-2013, e ben al di sotto del cosiddetto livello di equilibrio fiscale per i Paesi produttori, cioè il livello al quale i bilanci pubblici possono raggiungere il pareggio.

 

Che cosa avverrà esattamente dopo il Covid-19 non è ancora possibile dirlo, anche se molti ritengono che la domanda non raggiungerà più i livelli del passato. Bisogna anche considerare che quello causato dal coronavirus, per quanto imprevedibile, non è uno shock del tutto atipico: l’economia internazionale dava chiari segni di tensione e debolezza anche prima dello scoppio della pandemia, e anche quando questa sarà risolta permarranno fattori di squilibrio e di crisi estremamente importanti, come l’elevato indebitamento di molti Stati industriali o la crisi della globalizzazione, che è stata il motore della crescita negli ultimi settant’anni.

 

Allo stato attuale è difficile prevedere una ripresa forte della crescita economica internazionale, che torni a far crescere la domanda di energia e, in particolare, di combustibili fossili. A fronte di una crescita probabilmente asfittica si prospetta invece la possibilità di un ritorno, almeno parziale, dei “grandi esclusi” (Venezuela, Iran e Libia) sulla scena petrolifera mondiale, ciò che renderebbe certamente più difficile una politica di contenimento dell’offerta.

 

Se i prezzi dovessero rimanere al di sotto dei 50 dollari al barile, nel tempo l’offerta andrebbe diminuendo per il naturale declino dei pozzi attualmente in produzione e per l’impossibilità di aprirne di nuovi a fronte di investimenti scarsi. In ogni caso, questo processo di aggiustamento “naturale” richiede tempo, e difficilmente una nuova fase di prezzi elevati potrebbe aprirsi prima del 2030.

 

Quale impatto sulla regione?

 

Se l’abbondanza di risorse finanziarie ha incoraggiato la corsa agli armamenti e la conflittualità regionale, la penuria non porta necessariamente a una pacificazione. La guerra civile regionale può concludersi solo con un compromesso tra alcune fazioni o con la vittoria di una di esse.

 

Oggi possiamo individuare quattro forze principali in campo nella guerra civile regionale: la componente sciita, guidata dall’Iran ma presente anche in numerosi altri Paesi della regione; la componente sunnita moderata (i Fratelli Musulmani), che si proclama democratica ma vuole che la politica sia ispirata e guidata dai dettami della sharī‘a; la componente sunnita estremista, che ritiene eretico chiunque non aderisca letteralmente alle norme islamiche, sulla scia di al-Qaida e dell’Isis; e infine le monarchie patrimoniali assolute del Golfo, con gli apparati militari, burocratici e tecnocratici che le sostengono.

 

A queste quattro forze si aggiungono delle componenti di rilevanza locale, come i curdi nel Nord dell’Iraq e della Siria, o altre minoranze etniche o religiose. Infine, nel gioco delle forze locali si infiltrano/sovrappongono gli attori esterni alla regione: la Turchia, sostenitrice dell’Islam politico moderato; la Russia e la Francia preoccupate, per motivi di politica interna, dal possibile successo dell’Islam politico; gli Stati Uniti, che hanno visto fallire il progetto di conciliare il sostegno alle monarchie del Golfo con una progressiva democratizzazione della regione, e sembrano oggi del tutto privi di una visione strategica.

 

Le quattro componenti principali sono in lotta le une con le altre: si combatte tra sciiti e sunniti, tra sunniti moderati e radicali, tra monarchie patrimoniali e islamisti. Nessuna di queste forze è in grado di “vincere” da sola, e nessuna sembra disposta a scendere a compromessi con le altre. Tra le monarchie patrimoniali, il Qatar, l’Oman e il Kuwait cercano un modus vivendi con l’Iran e con gli islamisti moderati, contrariamente all’Arabia Saudita, agli Emirati e al Bahrain che hanno tentato, senza successo, di soffocare il Qatar. Quest’ultimo si pone come “protettore” dei Fratelli Musulmani e cerca un accomodamento con l’Iran, ma non ha il peso necessario a promuovere il compromesso tra queste due componenti e le monarchie del Golfo.

 

Con il passare del tempo, diventa sempre più difficile immaginare un compromesso che ponga fine alla guerra civile regionale. Nessuna crisi è risolta e altre se ne aggiungono, da ultimo il collasso economico del Libano. I prezzi bassi del petrolio e la profonda crisi del turismo, sul quale si fondano molte economie della regione, non fanno che rendere più difficile la situazione. Con ogni probabilità, la guerra civile sarà lunga e le prospettive di sviluppo della regione compromesse per decenni.

 

*Questo articolo è una versione ampliata e aggiornata del saggio Il petrolio e la guerra civile araba, apparso su «Aspenia» n. 78 (2017), pp. 16-24.

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Giacomo Luciani, Se il petrolio alimenta il fuoco della guerra, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 84-93.

 

Riferimento al formato digitale:

Giacomo Luciani, Se il petrolio alimenta il fuoco della guerra, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/se-il-petrolio-alimenta-il-fuoco-della-guerra

 

Bibliografia

 

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Mehran Kamrava, Mehran (a cura di), Routledge Handbook of Persian Gulf Politics, Routledge, Abingdon-New York 2020.

 

Giacomo Luciani (a cura di), Combining Economic and Political Development: The Experience of MENA, «International Development Policy» vol. 7 (2017), http://poldev.revues.org/2239.

 

Kjetil Selvik, Bjørn Olav Utvik (a cura di), Oil States in the New Middle East: Uprisings and Stability, Routledge, London-New York 2015.

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