Difficile trovare un tema più controverso e una parola più ambigua. Di fatto è un’accusa che viene lanciata su qualunque tipo di comunicazione della fede.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:53

I temi della libertà religiosa, del proselitismo e della conversione, sono di estrema attualità. I recenti episodi di violenza verso i cristiani, nello stato indiano di Orissa, sono solo l’ultimo episodio di una lista molto lunga che ha coinvolto tutte le grandi religioni. Anche se molti credenti e molti leader di tutte le fedi si sono adoperati per far mantenere alle religioni quel significato di pace e di profondità umana che sono loro propri, il dibattito si è fatto incandescente e ha investito l’attività e i metodi delle sette, ma anche il significato della presenza di scuole cristiane e di centri caritativi in molti Paesi. Letti con occhi occidentali, questi fatti comportano una violazione della Carta dei diritti umani mentre, secondo gli interessati, sono una reazione in difesa di quel patrimonio culturale e religioso che l’Occidente appare incapace di rispettare.

L’insieme di questi fatti mostra come le conversioni siano un tema controverso e finiscano per rovesciare l’accusa di proselitismo su ogni sforzo di comunicazione della propria fede. Non sono temi nuovo in assoluto. Lo stesso Gandhi aveva espresso concetti simili. In una intervista dell’11 maggio 1935, affermava:

Se avessi il potere di legiferare, certamente fermerei ogni tipo di proselitismo. Causa molti conflitti tra classi potenzialmente evitabili e inutile rancore tra missionari.

Dopo aver qualificato come «indecenti» i metodi missionari, concludeva:

nelle famiglie indù l’arrivo di un missionario ha significato la distruzione dell’unità familiare per l’effetto di cambiamenti di abiti, abitudini, lingua, cibo e bevande[1] .

Citazioni simili sono facilmente moltiplicabili. L’attuale società, segnata da una incredibile mobilità che ha vanificato le frontiere di un tempo e imposto una visione multiculturale e multireligiosa, impone una ripresa della riflessione sulle conversioni e un suo ripensamento: che cos’è proselitismo? Comunicare la propria fede ad altri è davvero così negativo? Quale nesso esiste tra l’atteggiamento di chi testimonia la propria fede e la conversione di chi vi aderisce? Convertirsi significa cambiare religione o è sempre un convertirsi a Dio, un aderire a Lui, scoperto e riscoperto in un cammino mai conchiuso? Se ci si converte a Dio, qual è il ruolo e il valore delle diverse fedi, dei loro dogmi e delle loro pratiche religiose? Non mi sembra che la passione che oggi si riversa su queste tematiche abbia fatto fare significativi passi avanti.

Nelle scritture cristiane, i proseliti sono gli interlocutori privilegiati della missione e svolgono ruoli notevoli nella vita delle comunità

Il termine greco “proselito” ricorre quasi esclusivamente nelle scritture ebraiche e cristiane ed è il risultato della maniera con cui il mondo ebraico concepisce lo straniero. Il mondo ebraico conosce una multiforme tipologia di stranieri e si serve di una certa varietà di termini per farlo[2] ; sulla base dell’Esodo, un’esperienza di migrazione e di schiavitù, la letteratura sacerdotale e deuteronomista avvicinerà lo straniero residente – il ger – allo israelita e questo processo sarà confermato dalla traduzione greca dei LXX che, per una settantina di volte, tradurrà il termine ger con prosélytos. La valorizzazione di questa figura sarà opera del giudaismo della diaspora più che di quello palestinese: mentre quest’ultimo rimarrà centrato su un nazionalismo religioso, nella diaspora il termine prosélytos indicherà un cammino religioso, senza alcun interesse per la posizione sociale o nazionale della persona. Questa visione positiva sarà ripresa nelle scritture cristiane: i proseliti saranno gli interlocutori privilegiati della missione e svolgeranno ruoli notevoli nella vita delle comunità. Al di là di questioni aperte, resta il fatto, positivo, che il proselitismo è espressione dell’impegno che credenti e chiese profondono per far conoscere a tutti il vero Dio. Proselitismo equivale a comunicazione della fede.

Intolleranza e Fanatismo

Questa visione positiva sarà mantenuta per secoli senza particolari dibattiti. Saranno gli illuministi a modificare il termine: il loro interesse non verterà sulla condizione religiosa personale del proselito ma sulle modalità di comunicazione della propria fede. Poiché considerano la ragione come l’unico criterio di verità, descriveranno il proselitismo come una comunicazione delle proprie convinzioni pretestuosamente autoritaria: non mira a favorire una fede personale libera e illuminata, ma a indurre sottilmente o a obbligare palesemente una persona ad aderire alle convinzioni religiose di un altro. Il proselitismo, in quanto patologia della comunicazione, si apparenta all’intolleranza e al fanatismo. L’enfasi illuminista sull’individuo e sulla sua razionalità porterà a un radicale ripensamento della vita sociale: l’autorità lascia il suo ruolo alla ragione mentre la tradizione scompare dietro il ricorso all’esperienza personale. In questo quadro antropologico non vi è più spazio per l’appassionata comunicazione della propria fede: il proselitismo viene sentito come comunicazione asimmetrica, come violenza.

Con l'Illuminismo la parola assume un significato negativo: indica una comunicazione delle proprie convinzioni asimmetrica e autoritaria

A questa critica se ne aggiunge oggi un’altra, di carattere socio-religioso; molte comunità, che sentono il loro patrimonio culturale e religioso minacciato dalla sottile violenza della globalizzazione, insorgono contro ogni forma e ogni istituzione universalizzante e chiedono un regime giuridico di protezione per la loro tradizione e le loro religioni. Innescata dalla arroganza di gruppi evangelical e di sette fondamentaliste, questa reazione non si limita a contestare forme sbagliate di evangelizzazione[3] ma rivendica una sorta di «identità collettiva» dei popoli non-occidentali e la afferma come un valore da proteggere. Al di là della reazione, si registra l’attestazione di un patrimonio collettivo, inteso come identità intoccabile: la sua difesa arriva fino a imporre dei limiti anche ai cammini individuali di libertà. Mettere a fuoco il comportamento sbagliato di questi gruppi è necessario ma non è ancora tutto: al centro sta l’affermazione di una “identità collettiva”, categoria molto delicata da analizzare.  

Nemmeno le Chiese, a dir la verità, hanno approfondito la questione; accettando l’impostazione illuminista, si sono per lo più limitate a distinguere tra evangelizzazione e proselitismo cercando così un’immagine della comunicazione della fede che fosse accettabile anche per l’uomo moderno. In questi ultimi dieci anni questi appelli non hanno fatto che moltiplicarsi. È del settembre 1997 l’appello Towards Common Witness: A Call to Adopt Responsible Relationship in Mission and to Renounce Proselytism approvato dal Comitato centrale del WCC (Consiglio mondiale delle chiese) che presenta il proselitismo come controtestimonianza; è del maggio 2006 l’incontro riservato tra membri del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e dell’Ufficio per il Dialogo Interreligioso del WCC per discutere di Interreligious Reflexions on Conversion: Assessing the Reality e formulare un comune codice di condotta. Grosso modo si può dire che sono due le ipotesi di soluzione oggi presenti: l’introduzione di una legislazione che limiti la conversione o l’accettazione di un comune codice di condotta, per ora ancora solo ipotetico, che aiuti a distinguere tra legittima testimonianza e deprecabile proselitismo.

Realtà Viva e Dinamica

Anche se svolto in tono minore, il quadro del dibattito risulta sufficientemente chiaro: da una parte vi è la problematica illuminista e dall’altra vi è un crescente pluralismo religioso che ha imposto alle Chiese e ai movimenti missionari una riflessione sul senso e sulle modalità della comunicazione della fede e della condivisione delle convinzioni religiose personali e comunitarie. Le Chiese cristiane rivendicano unanimemente il diritto di proclamare la loro fede: nel farlo si appoggiano sia alla libertà religiosa, intesa come innegabile diritto delle persone e come criterio per una normativa statale ispirata alla libertà[4] , sia al valore della testimonianza come forma originaria e insopprimibile di comunicazione.

Lasciando a parte la questione della libertà religiosa, trattata da altri autori, il cuore del dibattito sta nel rapporto che si stabilisce tra identità individuale e collettiva, tra libertà di coscienza e appartenenza culturale-religiosa. L’identità, e di conseguenza l’appartenenza, va pensata come una realtà viva e dinamica, irriducibile a qualcosa di immutabile; è qualcosa di vivo perché si ridefinisce in una continua relazione con altri che confermano o discutono il nostro modo di interpretare la vita. Per questo l’identità individuale vive sempre in un ambito sociale: mentre indica ciò che ci accomuna, indica pure ciò che ci rende diversi. L’identità, insomma, ha un aspetto che permane identico a se stesso e indica quell’«io» che regge ogni mutamento e un aspetto mutevole che regge il peso e la chance dei mutevoli influssi che provengono dall’ambiente e, prima di tutto, dall’incontro di altre persone.

L'identità, anche quella religiosa, è sempre in mutamento e non può cristallizzarsi in una forma immutabile

L’identità è sempre identità-in-mutamento e non può essere fissata in una forma immutabile, se non ideologicamente. Anche l’identità religiosa, anche la tradizione religiosa. Essa non è una riserva di risposte già pronte e confezionate per tutti i tempi ma è una risorsa, un pungolo a vivere con fedeltà i problemi e gli interrogativi inquietanti che le diverse epoche pongono; la fedeltà alla propria tradizione religiosa è una responsabilità e un rischio da onorare, non un talento da sotterrare. Alla propria identità appartiene una insopprimibile tensione tra ricerca personale e appartenenza culturale e religiosa; diventarne consapevoli è accettare un continuo mutamento e impegnarsi a viverlo.

In questa identità-in-mutamento trovano spazio sia le tradizioni di un popolo, dalla sua cultura alla sua religione, sia l’incontro – oggi molteplice – con persone diverse ed estranee, testimoni dell’ampiezza umanistica del mondo. Va detto che un certo etnocentrismo è presente in ogni persona e in ogni cultura: dice il particolare punto di vista di una civiltà e l’appartenenza culturale di ogni individuo. Ogni appartenenza culturale deve riconoscere i limiti della propria civiltà e dell’umanesimo che la regge; la sua pienezza si dà solo nell’apertura e nel dialogo con altre civiltà e richiederà un ripensamento fecondo, fedele e creativo, della propria identità. Certo non tutte le culture hanno il medesimo peso e lo stesso valore umanistico, ma spetta a quelle che rivendicano un significato universale farsi carico di un dialogo con tutte le altre.

Tra queste vi è la cultura occidentale. Fondata sul lógos greco, sullo ius romano e sulla pístis cristiana, la cultura occidentale ha il dovere di questo dialogo. L’orgoglio e la rabbia, di cui parla la Fallaci e che valorizzano l’universale bisogno di una patria[5] , vanno incanalati in questa direzione. Il dibattito sull’occidentalizzazione del mondo comporterà un ridiscutere l’ampiezza e la qualità di una concezione antropologica ridotta a dominio scientifico-tecnico e a consumismo personale; comporterà anche un ridiscutere l’ampiezza e la qualità delle antropologie degli altri popoli. In questo flusso di relazioni e di trasformazioni, nessuno dovrebbe rivendicare un ruolo che limiti la libertà culturale e religiosa degli altri.

Universalità Differenti

In un articolo pubblicato nel 2005 su «Il Corriere della Sera», Tommaso Padoa Schioppa indicava il proselitismo come «la libertà di persuadere». La comunicazione ad altri delle proprie convinzioni è indispensabile ed è praticata in tutti i campi, da quello scientifico a quello politico a quello religioso. Per questo riteneva che fosse almeno arduo, se non impossibile, separare la libertà di espressione dal proselitismo, cioè dal desiderio di convincere altri di quanto siamo convinti noi e perché ne siamo convinti noi. Lo sforzo appassionato di comunicare in profondità con l’altro convincendolo – la testimonianza cristiana – ha un valore illuminante anche per se stessi: si coglie meglio il valore e il peso delle proprie scelte. Questa “libertà di persuadere” non è solo lontana da ogni proselitismo ma è l’ossatura di una corretta vita sociale.

Molti degli spunti avanzati dall’autore sono condivisibili ma il tono latamente illuminista non è del tutto adatto alla vita di istituzioni religiose rivolte a quel fondamento ultimo che indicano con il nome di Dio. Il cuore della loro vita e del loro cammino, infatti, è quella consegna della propria vita a Dio che illumina e gerarchizza ogni altra esperienza. Tale esperienza è decisiva anche nella conversione: non si tratta di un cambio di religione, ma di una scoperta o riscoperta più profonda di Dio. Perché dovrebbe essere unethical conversion, una conversione immorale, la scelta di vita di una persona povera o incolta? Solo chi è ricco e sapiente può decidere a fondo della propria vita? È a questo che si dovrebbe guardare: se una persona sta prendendo in mano la propria vita. Certo non favorisce la libertà di una persona il decidere per lui.

 Ad Gentes 13 descrive la conversione come «un itinerario spirituale»: chi si converte «viene introdotto nel mistero dell’amore di Dio», quel Dio che – in Cristo – lo chiama a una relazione personale con Lui. Questo ingresso esige un cambio di mentalità e di vita, un mutamento di scelte etiche e un’appartenenza comunitaria, ma l’evento decisivo resta la consegna della propria vita a Dio. Il ministero cristiano di comunicazione della fede – l’apostolato o, se vogliamo, il proselitismo – è al servizio di questo evento.

Su questo servizio pesa una storia in cui l’incontro con questi popoli fu vissuto come “esportazione”, “diffusione”, “imposizione” di un modello straniero di comunità religiosa. Il prezzo pagato fu lo stabilirsi di una distanza tra la fede e la pratica delle comunità cristiane e le tradizioni proprie delle culture non-europee; ancora oggi, dopo secoli, il Cristianesimo è sentito in quelle terre come una religione straniera. Oggi è venuto il momento di riprendere nuovamente quel discorso.

Per prima cosa andrà chiarito che l’universalità delle Chiese cristiane e quella dell’Occidente non rispondono ai medesimi interessi e ai medesimi progetti: le scelte degli ultimi Papi durante le guerre in Kosovo e in Iraq, i loro interventi sui problemi della maternità, delle donne e della sessualità, su una globalizzazione solo economica e mercantile, sul legame tra pace, libertà e diritti umani, sul futuro della famiglia umana e sul ruolo delle istituzioni internazionali bastano per sostenere che il Cristianesimo non è oggi appiattibile sull’Occidente. In linea di principio e in termini statistici.

In seconda battuta si dovrà mostrare che l’universalità di Cristo e della sua salvezza non è la stessa cosa della cattolicità della Chiesa: con la testimonianza della sua vita – espressione primaria di ogni comunicazione – la Chiesa è al servizio di quel regno di cui è già germe e inizio. In poche parole, solo Chiese fedeli al Vangelo e autenticamente inculturate potranno capovolgere la percezione di estraneità culturale che ancora accompagna il Cristianesimo. La convinzione poi che la pluralità culturale risalga, in ultima analisi, all’atto creatore di Dio rende ancora più urgente e indispensabile questo impegno.

Dare e Ricevere

In questo contesto, l’evangelizzazione o apostolato o proselitismo ben inteso perde la sua durezza. È testimonianza e servizio di quell’Amore che è la forza di ogni autentico cammino religioso; è appassionata comunicazione di quel Vangelo del regno che fa dell’amore il contenuto e il metodo di ogni apostolato; vivere l’evangelizzazione come il dono di se stessi nella kénosis dell’Incarnazione e nell’agápe della Pasqua è viverla in modo lontano da ogni eccesso o perversione proselitistica.

Questa comunicazione della propria fede comporta un dare ma anche un ricevere. Testimone ed erede di una tradizione religiosa che ha imparato a guardare con occhi cristiani, chi si converte non è solo un credente in via di maturazione, ma è una grazia e un dono che aiuta l’intera Chiesa ad aggiungere nuovi lineamenti alla fede che vive e alla testimonianza con cui la serve. Convertirsi non è aderire a un sistema religioso precostituito e immutabile ma è aggiungere il proprio apporto al cammino di una comunità. Poiché chi si converte non può fuggire né la tragedia delle divisioni tra cristiani né il nodo dei rapporti tra le diverse religioni, la sua storia e il suo apporto sono un momento di straordinaria fecondità dialogica per tutta la Chiesa.

 Per questo la comunicazione della propria fede o evangelizzazione non è questione di tolleranza o di dialogo ma di testimonianza e servizio al disegno di Dio; per questo la Chiesa sostiene la libertà religiosa per tutti: una vera religiosità si esprime vivendo le proprie convinzioni e non impedendo agli altri di vivere le loro.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

 

[1] Mohandas Karamchand Gandhi, 80. Interview to a missionary Nurse (before May 11, 1935), in IDEM, The Collected Works of Mahatma Gandhi, vol. 67 (25 April, 1935 – 22 September, 1935), The Publication Division – Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, New Delhi 1960-1987, 48-49.

[2] I termini usati sono ger, nokrî, zar, tôshab. Su questi si veda Robert Martin-Achard, «gur- dimorare come forestiero», in Ernst Jenni, Claus Westermann, Dizionario Teologico dell’Antico Testamento. I, Marietti, Torino 1978, 355-358; Adam Simon Van Der Woude, «zar – straniero», ivi, 451-454; Karl Georg Kuhn, «prosélytos», in GLNT, XI, Paideia, Brescia 1977, 297-344. Il termine proselito ritorna 4 volte nelle scritture cristiane: Mt 23,15; At 6,5; 13,43 ed è alluso in 8,27.

[3] Ad esempio la caricatura di dottrine e pratiche di altre fedi, l’accusa di idolatria per la venerazione di icone mariane o di santi, il rifiuto del battesimo ricevuto in altre confessioni e l’obbligo di essere ribattezzati, l’esagerare i problemi di alcune chiese, l’offrire aiuti umanitari o educativi in vista della conversione, il ricorso a pressioni economiche culturali o etniche, l’approfittare dell’ignoranza per confondere le persone, lo sfruttare la solitudine o la malattia o la delusione per proporre la conversione come rimedio.

[4] L’articolo 18 della Dichiarazione dei Diritti Umani, approvata e proclamata dall’ONU il 10 dicembre 1948, precisa che «everyone has the right to freedom of thought, conscience and religion; this right includes freedom to change his religion or belief, and freedom, either alone or in community with others and in public or private, to manifest his religion or belief in teaching, practice, worship and observance».

[5] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano 2001.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Gianni Colzani, Sul proselitismo e i suoi troppi significati, «Oasis», anno IV, n. 8, dicembre 2008, pp. 24-27.

 

Riferimento al formato digitale:

Gianni Colzani, Sul proselitismo e i suoi troppi significati, «Oasis» [online], pubblicato l'8 dicembre 2008, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/sul-proselitismo-e-i-suoi-troppi-significati.

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