I canti e la musica ascoltati da bambina nell’allora Sahara spagnolo le cambiano per sempre la vita. Il resto lo fanno mille peripezie, tanta sofferenza e un talento fuori dal comune

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 12:20:14

Mariem Hassan è stata molto di più di una cantante Sahrawi. È infatti riconosciuta all’unanimità come la voce più rappresentativa del suo popolo, del quale ha cantato tanto le richieste politiche quanto il grido di dolore e i sentimenti più intimi.

 

Mariem nasce nel 1958 a venti chilometri da Smara, in quello che era conosciuto come “Sahara spagnolo”, essendo ancora la regione colonia iberica. Terza di dieci figli, conduce una vita nomade e rimane colpita dai canti della madre e delle altre donne che, accompagnandosi con il tradizionale tamburello tbal, allietano gli incontri sociali e religiosi. Si appassiona così al canto e alla musica, un fatto che le cambierà per sempre la vita.

 

Poco più che bambina, Mariem scappa dalla tenda del suo promesso sposo (frutto di un matrimonio combinato) rifugiandosi nella tenda del fratello e sfidando la volontà della propria famiglia (anni dopo divorzierà anche dal primo marito che non voleva che cantasse o viaggiasse per attività artistiche).

 

Alcuni anni dopo scappa invece dalla finestra per non farsi arrestare dalla polizia spagnola mentre canta a un raduno clandestino del Fronte Polisario. Un evento che ricorderà non tanto per la fuga rocambolesca, ma perché fu la prima volta che vide una chitarra.

 

Poco tempo dopo, insieme alla famiglia, è costretta a lasciare la sua casa per recarsi, in un viaggio della speranza di venti giorni, prima a Meharrize e poi nel campo profughi di Smara (deserto dell’Hamada), a seguito dell’invasione congiunta di Mauritania e Marocco e dagli Accordi di Madrid del novembre 1975. Come tutto il popolo Sahrawi, anche per Mariem inizia l’esilio.

 

Mariem resterà quasi trent’anni nel campo di Tindouf, lavorando come infermiera, vedendo tre fratelli morire durante la guerra del Sahara occidentale, crescendo cinque figli e cantando senza sosta in hassaniyya, la variante araba colloquiale della regione.

 

Trasferitasi per motivi di salute a Sabadell (Barcellona) nel 2002, ritorna al campo profughi di Smara poche settimane prima di morire (nell’agosto 2015) a causa di un tumore con cui combatteva già da un decennio.

 

Ben prima del suo esordio nel 1976 con il gruppo al-Shahīd al-Hāfiz Bū Jum‘a (il Martire al-Hāfiz Bū Jum‘a), divenuto poi El Ouali (dal nome del primo presidente del Fronte Polisario El Ouali Mostapha Sayed, morto in combattimento), Mariem si esibisce con altri cantanti impegnati nella lotta in favore della RASD (Repubblica Araba Sahrawi Democratica). Non smetterà mai di farlo e, per tutta la sua vita, sarà diva indiscussa di numerosi world music festivals in tutto il mondo: registrerà nei Paesi Bassi nel 1980, in Spagna nel 1982 (l’emblematico Polisario Vencerà) e in Francia nel 1989. Non mancheranno tournée oltreoceano, come quella a Cuba (famoso il rapporto tra questa nazione e il popolo sahrawi).

 

Sarà però con la casa discografica Nubenegra che Mariem riuscirà ad esprimere tutta la sua musicalità e a far conoscere e a traghettare, letteralmente da una costa all’altra del Mediterraneo, la musica Sahrawi nel nuovo millennio.

 

Non possiamo qui districare la selva discografica (album da solista e non, intimi o chiassosi), i cofanetti, i tributi alla tradizione sahrawi e alla sua storia orale, i documentari (2007, La Voz del Sahara) e i libri (La Voz indómita) a lei dedicati.

 

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Un riassunto lo si trova sul sito di Nubenegra, benché come italofoni, siamo fortunati: una bella graphic novel intitolata in spagnolo Mariem Hassan – Soy Saharaui (2014) e in italiano Io sono saharaui (2016, con molti contenuti inediti) di Gianluca Diana e Andromalis ripropone la romanzesca biografia di Mariem, le sue lotte, nazionali e personali, e le sue canzoni. Senza contare i numerosi articoli, studi accademici e interviste rilasciate dalla cantante.

 

Il repertorio di Mariem Hassan rende difficile la scelta. Tante sono le canzoni prettamente politiche, come la storica Intifada, Sahara Neb Gija, Yasar Geidu, Chouhada (dedicata ai fratelli morti in guerra), Haiyu, Gdeim Izik o la celebre Shouka in risposta al discorso dell’allora segretario del PSOE Felipe Gonzalez (14 novembre 1976) e alle sue promesse – mai mantenute – di sostenere la causa sahrawi.

 

Altre canzoni sono maggiormente autobiografiche: Mutamaniyat è una preghiera a Dio di guarirla dal cancro; Salem è dedicata al figlio malato; La malhfa ricorda l'aggressione subita per mano di alcuni marocchini a Madrid nel settembre 2009; Alu ummi è una nostalgica telefonata alla madre; Tifla Mazlouma parla del maltrattamento di una bambina; Ana saharauia è un dolce e malinconico canto di appartenenza; Alwadae è la sua ultima canzone, scritta poco prima di morire, intitolata proprio “L’Addio”, e cantata in una scarna versione a cappella.

 

L’album che contiene la canzone di oggi è El Aaiún Egdat (“El Aaiún brucia”, 2012), che abbiamo scelto poiché si tratta del suo disco musicalmente più maturo[1], e soprattutto l’unico ad esser stato inciso dopo le primavere arabe, e da queste ultime fortemente influenzato nei testi. Delle 14 canzoni contenute, la scelta non poteva che cadere su Arrabi Arrabe, che significa proprio “Primavera araba” e che, a giudicare dagli ascolti Spotify, è di gran lunga la sua canzone più conosciuta in assoluto.

 

Il brano è stato presentato sui palchi come «un saluto a tutto il popolo arabo che lotta per essere liberato dall'oppressione». In effetti, il testo della canzone inserisce la cosiddetta causa sahrawi nel più ampio contesto delle primavere arabe. Anzi, secondo il paroliere, il poeta sahrawi Bachir Ali (che ha scritto numerose canzoni per Mariem Hassan) gli eventi di protesta sahrawi accaduti a Gdeim Izik (ottobre-novembre 2010) sono stati proprio la scintilla delle Primavere arabe, una teoria che ha avuto una certa risonanza per essere stata sostenuta anche da Noam Chomsky.

 

In realtà, se si può effettivamente parlare di un effetto domino a partire dalle proteste in Tunisia, lo stesso non si può dimostrare per gli eventi di Gdeim Izik, che presentano soltanto in parte delle caratteristiche simili alle altre “primavere” e la cui posizione cronologica appare più casuale che causale (qui un’interessante riflessione, proprio a partire dalle affermazioni di Chomsky, sull’inadeguatezza di certe “periodizzazioni” delle “primavere arabe”).

 

Se la teoria del testo appare traballante, ben più solida si dimostra essere la stoffa musicale del compositore della canzone, Luis Gimenez Amoros, a cui dobbiamo importanti contributi accademici sulla musica haul e su Mariem Hassan. Amoros ha definito la sua Arrabi al Arabe un esempio di bi-musicalità cosmopolita: sulla musica marcatamente sahrawi (ritmo dukba su tbal e voce di Mariem) ha voluto aggiungere degli ingredienti internazionali (una progressione di tre accordi pop ispirata a Walk on the wild side di Lou Reed e riff chimurenga ostinato e staccato di chitarra). Come potrete ascoltare, un piccolo capolavoro di world music.

 

Ma torniamo a Mariem. La sola biografia di questa donna scardina numerosi stereotipi. Un compito da nulla, per chi ha traghettato un intero genere musicale in tutto il mondo, ha dato voce alle istanze di un popolo e ha lottato e resistito senza sosta a livello personale e transnazionale con la medesima forza. Ed è infine morta cantando speranza.

 

Vi lasciamo con le sue parole: «La musica rappresenta la nostra eredità più preziosa e protegge la nostra esistenza. I Sahrawi non sopravviverebbero senza la musica».

 

Buon tarab!

 

Canzone: Arrabi Arabe

Artista: Mariem Hassan

Data di uscita: 2012

Nazionalità: Sahrawi

 

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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La Primavera Araba[2]

 

Le rivoluzioni per la libertà sono state scatenate dagli eventi di Gdeim[3]

Un evento precursore, capace di porsi a capo (delle rivoluzioni)[4]

Un evento precursore, capace di porsi a capo (delle rivoluzioni)

 

Attraverso la sua tenacia,[5] Gdeim ha aperto le porte alla rivoluzione di questi giovani

Attraverso la sua tenacia, Gdeim ha aperto le porte alla rivoluzione di questi giovani

In Tunisia, si sono sollevati contro l’oppressore[6]

Avvicinandosi al loro obiettivo e lasciandosi alle spalle la paura[7]

Avvicinandosi al loro obiettivo e lasciandosi alle spalle la paura

 

(Gdeim) ha scatenato l’orgogliosa vittoria del popolo egiziano

Guardate l’Egitto, dove vi era ingiustizia e distruzione!

Anche lì si tratta di una traccia dei grandiosi eventi di Gdeim![8]

Anche lì si tratta di una traccia dei grandiosi eventi di Gdeim!

 

Questo (spirito rivoluzionario) si è poi spostato in Yemen e Siria

Insegnando loro la protesta, la tenda,[9] la determinazione,

la pazienza, la coesione, l’unità e l’organizzazione

 

C’è stata una vivace rivoluzione nella popolazione

Per i diritti, in Libia, accesasi come fuoco!

Una lotta di libertà e grande determinazione

e grande determinazione

e grande determinazione

 

الربيع العربي

ثورات التحرير مزعمها الكديّم

وزاعمھا جدیر بيعود لھا زعیم

وزاعمھا جدیر بيعود لھا زعیم

 

بالصمود فتح باب لثورة ذاك الشباب
بالصمود فتح باب لثورة ذاك الشباب

وفي تونس قام أصحاب كادي ذاك الحریم

اللي عنه طار أقرب الخوف ورانا سيم

اللي عنه طار أقرب الخوف ورانا سيم

 

وزاعم لفخرا نصر الشعب في مصر

شوفوا في مصر اللي طرا الظلم من التحطيم

ھذا كمان نقرة من الكديّم العظيم

ھذا كمان نقرة من الكديّم العظيم

 

انتقل ذاك بتمام لین الیمن والشام

علّمھم الاعتصام والخيمة والتصمیم

والصبر والالتحام والوحدة والتنظیم

والصبر والالتحام والوحدة والتنظیم

 

قام بثورة حیّة في الجماھیریة

قام بثورة حیّة في الجماھیریة

في الحق الليبية شعلت فيها جحيم

كفاح الحرية والتصميم العظيم

كفاح الحرية والتصميم العظيم

والتصميم العظيم

والتصميم العظيم

 


[1] In questo disco l’antico (già attestato nel 1685!) genere tradizionale sahrawi-mauritano del haul, definito un po’ sbrigativamente il “blues del deserto”, si mischia magistralmente con sonorità jazz e blues contemporanee. Il genere haul, di cui Mariem fu tra le più importanti rappresentati, si basa su otto modalità melodiche e su sonorità semplici: una o più voci sono accompagnate dal tbal, il sopracitato tamburo di circa 60 centimetri di diametro, costituito da una ciotola di legno scavata e cuoio dalla pelle di un cammello o di una capra. Il tbal è percosso con le sole mani, quasi esclusivamente da donne, producendo un suono secco e profondo allo stesso tempo. A voce e tamburello si aggiunge infine il tidinit, un liuto rustico a quattro corde (oggigiorno sostituito con la chitarra) che propone spesso riff ripetitivi e l’ardin, un’arpa che suonano solo le donne. Qui un breve ma interessante approfondimento su questo genere e sul ruolo della donna nella musica sahrawi, mentre qui troviamo uno studio (un po’ “tecnico”) sull’evoluzione musicale del genere haul e delle sonorità di Mariem Hassan nello specifico.
[2] Sia il testo in arabo sia la traduzione in italiano sono approssimativi. L’Hassaniyya è una forma colloquiale dell’arabo, diffusa nel Sahara Occidentale, nel sud del Marocco e dell’Algeria, in Mauritania, in Senegal e nell’estremo settentrione del Mali e del Niger. Spesso non riportata in forma scritta, risulta ostica anche a un orecchio arabofono non abituato a questa variante dell’arabo. La preziosa collaborazione di alcune persone madrelingua ha confermato che la canzone di oggi presenta un testo poetico con alcuni termini e costruzioni sintattiche di non semplice resa. Ringrazio come sempre Omar, per tutto l’impegno, da arabofono giordano-palestinese e libanese d’adozione, nel decifrare questo testo; ringrazio inoltre Omar Zein Bachir e Hamudi Abdelkrim, per aver chiarito diversi riferimenti e termini della canzone.
[3] Come spiegato sopra, secondo il paroliere di questo testo, gli eventi di Gdeim Izik hanno rappresentato la scintilla delle “primavere arabe”, la quale ha successivamente infiammato tutto il bacino mediterraneo meridionale. Abbiamo tradotto il polisemico verbo za‘ama in diversi modi: “capeggiare”, “ispirare”, “precorrere”, “scatenare”, “porsi a esempio”, etc.
[4] Si tratta di una traduzione non letterale. Il testo sembra voler ribadire che gli eventi di Gdeim siano stati precursori (ossia “a capo”) delle varie rivoluzioni.
[5] Sumūd è traducibile con “fermezza”, “saldezza”, ma anche “resilienza” e “tenacia”.
[6] Harīm, qui inteso come colui che compie qualcosa di haram, ossia di “proibito”, “illecito”, “illegale”, “ingiusto”. Il senso di haram si estende naturalmente all’ambito della politica, ad esempio nella tirannia di un oppressore o di un’autorità ingiusta. Gādī indica l’azione di “accendersi”, “infiammarsi”, qui tradotto con “sollevarsi”.
[7] Non essendo certi dell’arabo, proponiamo una parafrasi del senso generale, dove “l’obiettivo principale” menzionato è “la libertà” (lett. “la liberazione”, al-tahrīr) citata nel primo verso.
[8] Il termine “traccia” (nuqra) vuole indicare qui “l’eredità” di Gdeim. Parafrasando: in ogni “primavera araba” nazionale c’è la “traccia” antesignana di Gdeim.
[9] La tenda è uno dei simboli per eccellenza della condizione Sahrawi e, per estensione, della loro protesta e volontà di autodeterminarsi come popolo e nazione.
 

 

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