Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:21:00

I ribelli yemeniti houthi hanno rivendicato un attacco ad Abu Dhabi, nella zona industriale della Musaffah e presso l’aeroporto della città, che ha provocato la morte di tre cittadini indiani e pachistani. Lo stesso giorno le difese dell’Arabia Saudita hanno distrutto tre droni che erano diretti verso la parte meridionale del Regno. In quale contesto si è verificata questa azione di guerra e quali conseguenze potrebbe avere?

 

Anzitutto va ricordato che l’attacco agli Emirati, quelli dei mesi precedenti all’Arabia Saudita, e la guerra in Yemen vanno inseriti nel contesto regionale, tenendo in considerazione almeno altri tre elementi: la strategia iraniana; l’attuale percorso di allentamento della tensione tra i Paesi del Golfo e l’Iran; i rapporti con gli Stati Uniti e il negoziato sul nucleare in corso a Vienna.

 

Al contrario dell’Arabia Saudita, finora gli Emirati erano riusciti a evitare importanti attacchi al proprio territorio da parte degli houthi e anche quando ciò era avvenuto Abu Dhabi aveva negato. L’attacco di questi giorni è differente, perché gli houthi hanno dichiarato di aver utilizzato missili balistici, da crociera e diversi droni (Wall Street Journal), il cui utilizzo è stato confermato anche dall’indagine emiratina. Perché gli houthi hanno attaccato adesso gli Emirati? Sostanzialmente per il sostegno emiratino ai rivali degli houthi in Yemen, che a differenza di quanto dichiarato da Abu Dhabi, non è cessato. Il 25 dicembre scorso, infatti, la coalizione di cui fanno parte gli Emirati ha lanciato una nuova massiccia campagna di bombardamenti. Ma soprattutto, grazie al coinvolgimento delle “Brigate dei Giganti” sostenute e armate proprio dagli Emirati, le forze governative yemenite sono riuscite a riconquistare la zona di Shabwah e parte di quella di Marib. Due località che, grazie anche alle loro risorse energetiche, costituiscono la base economica su cui far funzionare il Paese. L’attacco degli houthi sarebbe dunque una ritorsione. Ma non solo: si tratta anche di un avvertimento. Come ha infatti ribadito un membro dell’ufficio politico houthi, uno degli obiettivi dell’operazione era ristabilire la deterrenza, ovvero far comprendere agli emiratini che fintanto che proseguirà il loro intervento in Yemen, lo stesso faranno gli attacchi al territorio della federazione. Come ha evidenziato l’esperto di sicurezza Andreas Krieg su Al-Jazeera, si tratterebbe di un problema non di poco conto per gli Emirati, che fondano buona parte del loro successo sulla reputazione di Paese sicuro per il turismo e il business.

 

Dal punto di vista militare, la risposta degli Emirati e dell’alleato saudita non si è fatta attendere: due bombardamenti aerei hanno colpito un edificio a Sanaa e ucciso almeno 12 persone, tra cui alcuni membri della famiglia di Qassem al-Junaid, ritenuto un ufficiale di alto grado degli houthi. È poi notizia di venerdì pomeriggio che la coalizione a guida saudita ha bombardato un centro di detenzione a Saada (nord dello Yemen). L’attacco ha ucciso oltre 70 persone (ma il numero è ancora incerto) e interrotto il funzionamento di internet in tutto il Paese.

 

Quanto avvenuto questa settimana dimostra però, ha scritto il Wall Street Journal, il salto di qualità degli alleati dell’Iran in Medio Oriente: in meno di 10 anni gli houthi sono passati dal semplice utilizzo di mitragliatrici e lanciarazzi, a quello ben più sofisticato di droni e missili. Un balzo che permette a Teheran, per mezzo dei suoi alleati, di proiettare ulteriormente il suo potere.

 

Politicamente invece l’attacco ha dato a Israele la possibilità di esprimere la sua vicinanza agli Emirati. Il governo presieduto da Naftali Bennett si è infatti detto disponibile a condividere informazioni e strategie per combattere il nemico comune. Inoltre, dopo l’attacco gli Emirati hanno chiesto agli Stati Uniti di reinserire gli houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche (Axios). È anche probabile che Abu Dhabi utilizzi il suo seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il biennio 2022-23 per richiedere l’imposizione di nuove sanzioni contro il movimento yemenita.

 

Che conseguenze avrà questo inasprimento della tensione regionale sul negoziato in corso a Vienna e sui colloqui tra Teheran e le capitali arabe del Golfo? Quanto avvenuto non sembra pregiudicare i processi in atto, perché, come ha scritto Haaretz in riferimento ai negoziati sul nucleare, la loro buona riuscita è nell’interesse tanto americano quanto iraniano. E infatti anche Joseph Borrell, capo della diplomazia europea, ha manifestato il suo ottimismo. D’altro canto, il Wall Street Journal ha giustamente sottolineato che la rinnovata capacità degli houthi di colpire gli Emirati fornisce a Teheran una nuova leva negoziale. Un ultimo aspetto: la distanza che separa Abu Dhabi dal sito di lancio dell’attacco houthi non è molto superiore a quella tra lo Yemen ed Eilat, il punto più a sud di Israele. Per questo, considerata anche la crescente retorica anti-israeliana degli houthi, è possibile che la minaccia comune rafforzi l’intesa tra Israele e gli Emirati (Haaretz).

 

La rinnovata minaccia houthi è infine un problema anche per gli Stati Uniti: è passato ormai un anno da quando Joe Biden ha dichiarato di voler porre fine alle ostilità in Yemen, ma il conflitto non si placa perché, sostiene Annelle Sheline, Washington ha deciso di continuare a vendere armamenti ai sauditi. Il problema è che anche con le migliori armi a disposizione Riyad non riesce a imporsi. La situazione attuale è sintetizzata efficacemente da Peter Salisbury: gli houthi hanno pochi incentivi a considerare dei colloqui di pace, perché «pensano di essere troppo vicini a vincere la guerra [per accettare] un accordo per porvi fine che non sia totalmente in loro favore. [Al contrario] il governo yemenita è in una posizione così debole che un accordo significherebbe quasi certamente la sua fine».

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Alta tensione nel Golfo

 

Come ha reagito la stampa araba all’attacco lanciato lunedì scorso dalle milizie houthi contro tre depositi petroliferi situati ad Abu Dhabi? 

 

Apriamo la nostra rassegna con l’editoriale (molto militante) di Ridwan al-Sayyid, pubblicato sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. L’intellettuale libanese attribuisce la responsabilità ultima dell’accaduto all’Iran, affermando che quella contro Abu Dhabi è stata «un’aggressione a tutti gli arabi» perché ha colpito uno Stato che è il «modello della nuova civiltà araba». Sotto accusa il presidente Biden, reo di aver rimosso gli houthi, «sabotatori dello Yemen e predatori del suo popolo», dalla lista delle organizzazioni terroristiche in cui erano stati inseriti dal suo predecessore, Donald Trump. Una decisione, quella di Biden, giustificata ufficialmente dalla necessità di far pervenire gli aiuti umanitari alla popolazione yemenita stremata dal conflitto, che però, secondo al-Sayyid, nasconderebbe una vendetta bella e buona contro l’Arabia Saudita (l’autore da qualche mese ha ricevuto la cittadinanza saudita). Tant’è vero che gli Stati Uniti in questi giorni si sono detti disposti ad aiutare gli Emirati, ma negli anni scorsi quando a essere colpito dagli attacchi houthi era il Regno saudita non hanno fatto nulla per tutelare quest’ultimo. E comunque, gli americani – ha continuato l’autore – non sono stati capaci di neutralizzare «i partigiani del diavolo», come lui definisce le milizie houthi sostenute dall’Iran. Dopo aver accusato i quotidiani internazionali di aver dato molto più rilievo alle vittime dei raid effettuati della coalizione saudita-emiratina contro Sanaa che alle persone morte nell’attacco di Abu Dhabi, ha concluso citando un detto del profeta Muhammad: «Chi imbraccia le armi contro di noi, non è uno di noi».

 

Significativa anche la caricatura con cui lo stesso quotidiano ha rappresentato la vicenda: un ayatollah iraniano grondante di sudore si affanna a gonfiare i muscoli del braccio houthi che diventa esplosivo.  

 

Al-Jazeera si domanda se attaccando Abu Dhabi gli houthi stiano cercando di neutralizzare gli Emirati, impegnati in Yemen nelle battaglie di Ma’rib e Shabwa. A quanto pare sì. Un rappresentante dell’Ufficio politico di Ansar Allah (nome ufficiale dell’organizzazione armata houthi) ha dichiarato all’emittente qatariota che «le operazioni houthi non si fermeranno finché continuerà l’aggressione da parte degli Emirati», i quali hanno sistematicamente violato gli accordi che prevedevano la loro uscita di scena. Secondo Maysa’ Shuja‘ al-Din, ricercatrice del Centro di studi di Sanaa (organizzazione non governativa), gli houthi hanno scelto la via del bombardamento «perché gli Emirati sono un Paese fragile che, a differenza dell’Arabia Saudita, non sopporta gli attacchi missilistici. I sauditi resistono di più, mentre gli Emirati sono maggiormente inclini al compromesso».

 

Il quotidiano londinese al-Quds al-Arabī, tradizionalmente sensibile alle grandi cause arabe (quella palestinese in primis, ma ultimamente molto attento anche ai problemi politici che stanno attraversando Paesi come il Sudan e la Tunisia), ha pubblicato pochi e scarni commenti sugli attacchi houthi agli Emirati, rimanendo sempre un osservatore abbastanza distaccato dai fatti e collocando la vicenda nel più ampio contesto dei negoziati di Vienna. Questo modo asettico di parlare dell’attacco potrebbe dipendere anche dal fatto che questo quotidiano è finanziato dal Qatar, Paese che continua ad avere rapporti piuttosto freddi con gli Emirati, pur non essendo più ufficialmente in rotta di collisione.

 

L’altro quotidiano panarabo londinese, al-Arabī al-Jadīd, ha ospitato un editoriale dell’ex diplomatico sudanese Mada al-Fathi, secondo il quale l’Iran è il principale responsabile dell’escalation contro gli Emirati essendo gli houthi «una delle armate più importanti dei Guardiani della Rivoluzione nella regione». Perché l’Iran e la sua «armata» yemenita avrebbero interesse ad agitare le acque nel Golfo? Due sono le ipotesi avanzate da al-Fathi: attaccando gli Emirati l’Iran vuole inviare un messaggio per rafforzare la propria posizione nei negoziati di Vienna, oppure gli houthi hanno agito spontaneamente per rappresaglia alle perdite subite di recente sul fronte di Shabwa. Quale che sia la verità, secondo l’autore l’Iran non può sottrarsi alle proprie responsabilità di fronte ai Paesi del Golfo, con cui da diversi mesi ha iniziato una serie di dialoghi al fine di ripristinare la fiducia reciproca.

 

Il sito d’informazione libanese Asas Media ha fatto qualche previsione sulle mosse future della coalizione saudita-emiratina e ha aperto con una frase pronunciata nel 2016 dal principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammad bin Zayed, in un discorso ai soldati emiratini durante l’Operazione Tempesta Decisiva – l’azione militare guidata dall’Arabia Saudita in Yemen per contrastare l’avanzata dei ribelli houthi nel Paese: «Quando si arriva alla tenda, non c’è questione che tenga», quando cioè si toccano la patria e l’onore:  una frase che sarebbe passata alla storia e che questa settimana è stata twittata migliaia di volte insieme al video che riprende MBZ intento a spiegare che la patria viene prima di tutto, difenderla è un dovere, e chi la usurpa non troverà altro che il linguaggio del fuoco e della polvere da sparo. Secondo le fonti emiratine contattate da Asas Media, sono almeno tre gli obbiettivi che la coalizione potrebbe prendere di mira: 1) l’aeroporto di Sanaa, controllato dagli houthi, dalle Guardie della Rivoluzione e da Hezbollah, che ha perso l’immunità dopo esser stato trasformato in una base militare e in un punto di deposito e lancio di droni d’attacco; 2) il porto di Hodeidah, una delle principali arterie che alimenta l’arsenale houthi di droni e missili balistici provenienti dai porti iraniani; 3) i fronti di battaglia a Marib, Shabwa, al-Bayda, al-Jawf e Taiz.

 

Con toni più pacati, l’attacco è stato condannato anche da al-Azhar che sul suo bollettino settimanale ha espresso la sua solidarietà al popolo emiratino e dipinto gli Emirati come modello di tolleranza, fratellanza e sicurezza.

 

I commenti alla vicenda sui quotidiani emiratini sono in generale molto militanti e promettono vendetta, come quello di Muhammad al-Dohori, pubblicato su al-‘Ayn al-Ikhbāriyya, in cui l’autore ha lanciato un’invettiva contro i «codardi houthi», e celebrato la grandezza dell’esercito emiratino – «uno dei più forti tra quelli arabi» – e la fitta rete di relazioni degli Emirati, che «godono del sostegno dei principali Paesi della regione e del mondo».  O come la lettera degli Emirati agli houthi pubblicata sempre su questo quotidiano, che celebrava le gesta compiute dalla coalizione saudita-emiratina in risposta agli attacchi ad Abu Dhabi, quando «i falchi degli Emirati e dell’Arabia Saudita […] hanno messo in fuga i ribelli, che si sono rifugiati nelle loro tane atterriti come topi».

 

Lo stesso tono partigiano, ma di segno opposto, si ritrova sul quotidiano libanese filo-sciita al-Mayadīn in un articolo firmato dal capo del governo di salvezza nazionale yemenita, ‘Abdulaziz bin Habtoor, il quale ha spiegato in sei punti le ragioni che hanno spinto gli houthi ad attaccare gli Emirati. Sostanzialmente l’attacco, ha spiegato, è una rappresaglia per l’ingerenza emiratina in Yemen, che si sostanzia nell’istituzione del Consiglio di transizione meridionale rappresentante le forze secessioniste del Sud del Paese, nella costruzione di basi militari sulle isole dell’arcipelago di Socotra e Mayun, nella creazione delle Armate dei Giganti, milizia filo-emiratina composta da secessionisti meridionali, e nelle «pratiche immorali sdoganate dalle forze militari emiratine nella città di Aden».

 

Cresce la persecuzione anticristiana nel mondo

 

È stato pubblicato il rapporto sulla persecuzione dei cristiani nel mondo curato dalla ONG evangelica Porte aperte/Open Doors. Come spiega quest’ultima sul suo sito, il documento identifica tre diversi gradi di persecuzione: alta, molto alta ed estrema. La metodologia con cui è stato redatto il report è sottoposta a una valutazione terza, svolta da parte dell’International Institute for Religious Freedom, che ne certifica la serietà. Quali sono i risultati messi in luce dal report di quest’anno? In primo luogo, come ha scritto Gerolamo Fazzini su Avvenire, «la situazione va peggiorando». Sono infatti più di 360 milioni i cristiani che subiscono un grado di persecuzione considerato almeno come “alto”, il numero più grande mai registrato da quando il report viene pubblicato. Il direttore della sezione italiana della ONG, Christian Nani, permette di cogliere queste cifre nella loro gravità: «un cristiano ogni 7 al mondo viene perseguitato, in Africa un cristiano su 5, in Asia due ogni 5».

 

L’aumento della persecuzione è in parte legato alla riconquista talebana dell’Afghanistan, Paese che è balzato in cima alla classifica dei meno sicuri per i cristiani. Ma come ricorda La-Croix, sono Nigeria e Pakistan le nazioni in cui il maggior numero di cristiani ha perso la vita l’anno scorso a causa della propria fede. Sul totale di 5.898 cristiani che sono morti a causa della persecuzione, se ne sono registrati 4.650 nel Paese africano e 620 in quello asiatico. Sono invece più di 5.000 le chiese prese di mira l’anno scorso, e tra queste si segnalano in particolare le 3.000 in Cina. Altro dato allarmante: l’aumento della persecuzione contro i cristiani in India per mano degli estremisti indù. Christianity Today pubblica un’analisi approfondita del report che mette in luce anche situazioni meno note. Un esempio è il caso del Qatar, dove i cristiani non sono perseguitati, ma con la scusa delle restrizioni legate al Covid-19 ad alcune chiese è stato impedito di riaprire.

 

La musica che crea problemi (?) agli Stati

 

Come sapete se avete seguito la nostra rubrica T-Arab, la musica aiuta a comprendere alcuni aspetti sociali, politici e religiosi del mondo arabo. Oggi torniamo su questo tema dopo che il parlamento egiziano aveva approvato nel novembre 2021 un decreto che permetteva al sindacato dei musicisti di vietare il mahraganat, il New York Times vi ha dedicato un articolo di Mona El-Naggar. Tanto per cominciare, cosa è il mahraganat? È una combinazione tra la musica popolare shaabi suonata ai matrimoni, la musica dance elettronica e l’hip hop. Dov’è il problema? Nel fatto che nelle canzoni di questo genere, come la hit da oltre mezzo miliardo di visualizzazioni su YouTube “La figlia del vicino” di Hassan Shakosh, si possono ascoltare frasi come «Se mi lasci sarò perso e assente, bevendo alcool e fumando hasish». Gli artisti che si cimentano con questo genere musicale sono accusati di «normalizzare, e perciò incoraggiare, comportamenti decadenti, di rappresentare in maniera errata l’Egitto» e di corrompere il buon gusto pubblico, si legge sul New York Times. Per questo, come ha riportato dopo l’uscita del decreto Middle East Eye, il sindacato egiziano deve multare ogni locale che assume cantanti mahraganat e gli artisti di ogni genere devono attenersi alle linee guida imposte dalle istituzioni statali. Tuttavia, come ha sottolineato Mona El-Naggar, lo streaming online e le piattaforme social permettono ai musicisti di aggirare i media su cui lo Stato detiene il controllo. E del resto, come ha affermato il manager di Shakosh: come si può dire che la musica mahraganat rappresenta erroneamente l’Egitto, «quando le sue canzoni sono ascoltate e condivise dall’intero Paese?». I testi, infatti, parlano di «amore, sesso, potere e povertà» e «rappresentano la vita e la cultura reale» di una importante fascia di popolazione. Il mahraganat, ha scritto Joseph Fahim su Middle East Eye, «è una porta su un mondo che rapidamente rende pacifica la consapevolezza dell’oppressione, della povertà e della bruttezza; un veicolo di intrattenimento libero da ogni intervento o credo governativo».

 

L’Egitto non è però l’unico Paese in cui nell’ultima settimana la musica ha creato qualche problema. Se da un lato, come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente, le agende di politica internazionale di Israele ed Emirati Arabi vantano numerosi punti di contatto, dall’altro le rispettive società rimangono più distanti. E così ha destato un certo scalpore la canzone satirica “Dubai, Dubai” della cantante e comica Noam Shuster-Eliassi, che ironizza sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi. In “Dubai, Dubai”, inoltre, è forte la critica alla propaganda in lingua araba di Israele. Shuster-Eliassi fa notare infatti come vengano indirizzati messaggi di «amore e pace» agli arabi, ma solo a quelli «che si trovano a 4000 chilometri da qui», riferimento piuttosto esplicito alla differenza di trattamento riservato agli arabi palestinesi. Come ha scritto Haaretz, questo piccolo incidente è sfruttato  a proprio vantaggio dalle personalità arabe che si oppongono alla normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi, che lo utilizzano per mettere in evidenza come in realtà Israele continui a disprezzare gli arabi, e, conseguentemente, per criticare la posizione emiratina.

 

In fondo Erdogan l’ha detto piuttosto chiaramente: «è un fatto che le armi più potenti di coloro che reggono il sistema globale sono gli strumenti culturali». Il presidente turco è uomo di parola e, come ha ricordato Zvi Bar’el su Haaretz, dopo aver ottenuto il controllo di quasi tutta la carta stampata turca, ha messo nel mirino gli artisti, i musicisti e persino le danzatrici del ventre, vietando dopo la mezzanotte le manifestazioni artistiche. La motivazione ufficiale è la lotta contro il Covid-19, ma le vittime «ritengono che queste direttive siano parte di una campagna per sopprimere la musica moderna, rock, pop, rap e altri generi che “fanno impazzire i conservatori”».

 

In breve

 

Il sistema sanitario del Tigré è completamente al collasso. E secondo quanto si legge su Devex si tratta dell’effetto di una campagna deliberata.

 

La tensione nel nord dell’Iraq è desinata a crescere secondo Amwaj Media, perché le azioni della Turchia, che bombarda gli obiettivi che ritiene legati al PKK, contrastano con gli interessi sia dell’Iran che degli Stati Uniti.

 

Dopo che almeno sette persone sono morte negli scontri di lunedì, le organizzazioni pro-democrazia in Sudan hanno dichiarato uno sciopero di due giorni (WSJ).

 

La moneta afghana è crollata di circa il 25% da quando i talebani hanno preso il potere e questo, ha scritto il Financial Times, contribuisce ad aggravare la crisi umanitaria.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici

Tags