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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:05

Le reazioni musulmane al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI sui rapporti tra la fede e la ragione, entro il quadro iniziale di una domanda sui possibili rapporti tra Dio e la violenza, hanno tutte affermato l'importanza, nell'Islam, di un'armoniosa collaborazione tra filosofia e teologia. Come riconosce Abdelwahab Meddeb, animatore a Parigi di Cultures d'Islam, in uno studio su Le Dieu purifié, all'interno di una miscellanea La conférence de Ratisbonne: Enjeux et controverses, il Papa ha voluto collocare «senza esitazione il Dio, quale lo trova a fondamento del Cristianesimo, in un legame indefettibile con il logos e purificato da ogni violenza». Le sue parole «hanno sollecitato alcuni musulmani a riflettere sulla loro situazione nel mondo a partire dal loro presente e dalla loro storia, studiando a fondo la loro tradizione sulla base della condizione attuale», facendo udire «una voce ragionevole» di fronte al «furore di predicatori manipolatori e riduttori del senso» a servizio «di un'ideologia che semina la discordia e il crimine». I 38 mufti e ulema dell'Accademia di Amman si sono spiegati, nella loro Lettera aperta al Santo Padre, pur manifestando una certa "apologetica difensiva": «Dire che la volontà di Dio, per i musulmani, "non è legata a nessuna delle nostre categorie" costituisce una semplificazione suscettibile di sfociare in un malinteso [...]. Concludere, come Lei fa, che i musulmani credono in una divinità arbitraria che può ordinarci il male o può non farlo, è dimenticare la parola di Dio nel Nobilissimo Corano: "In verità Iddio ordina la giustizia, la beneficenza, l'amore ai parenti, e vieta la dissolutezza e il male e la prepotenza" (Corano 16,90)». Quanto all'uso del logos, essi hanno potuto affermare che «ci sono due estremi che il pensiero musulmano classico si è sforzato d'evitare in regola generale: uno consiste nel fare della ragione analitica l'arbitro supremo del Vero; l'altro nel negare che l'intelletto umano disponga della facoltà di trattare gli interrogativi fondamentali. Le ricerche dei pensatori musulmani [...] hanno soprattutto conservato un armonioso equilibrio tra le verità della Rivelazione coranica e le rivendicazioni dello spirito umano, senza sacrificare le une alle altre». Un intellettuale libico, Aref Ali Nayed, «sunnita di tradizione, ash'arita in teologia, malikita in diritto e shadhilita in spiritualità», si è a lungo interrogato sul testo di Ratisbona prima di ricordare che «gli ebrei e i musulmani, come i cristiani, hanno conosciuto più modi di armonizzare le esigenze della filosofia e le certezze della rivelazione». Secondo lui, «musulmani e cristiani concordano nell'affermare che è la grazia (rahma) di Dio che salva, e la ragione, che è una grazia, non potrebbe mai essere "al di sopra di Dio"!». È proprio quello che affermano Ibn Hazm e i teologi ash'ariti: Dio è assolutamente libero di agire, ma Egli si è liberamente imposto di agire secondo la ragione (è questa ad essere esteriormente normativa per lui), e ciò è una grazia, perché Dio 'per vero s'è prescritta la misericordia' (Corano 6,12)». Ciò non toglie che, secondo lui, «la sovranità di Dio, di cui non si conosce che la voluntas ordinata (cfr. Duns Scoto in teologia cristiana), sorpassa le pretese della ragione umana» e che le tre de-ellenizzazioni, richiamate dal Papa, non sono necessariamente degli impoverimenti della ricerca teologica. Procedendo nel medesimo senso, e non senza una certa affermazione identitaria, il pensatore libanese Ridwân al-Sayyed, per molto tempo direttore della rivista di Beirut Ijtihâd, chiede, in un lungo articolo in al-Sharq al-Awsat (1), che ci si chiarisca sull'«immagine razionale di Dio». Secondo lui, tanto da parte cristiana che da parte musulmana, i teologi sarebbero piuttosto aristotelici (ricorso alla logica formale da parte dei mu'taziliti e degli ash'ariti musulmani e da parte della scolastica cristiana medievale), mentre le esperienze mistiche esprimerebbero un approccio tendenzialmente platonico o plotiniano al mistero dell'essere divino. Inoltre egli precisa che, presso i cristiani come presso i musulmani, i teologi si raggruppano in due famiglie: l'una esalta la trascendenza divina e la sua totale dissomiglianza dalla nostra umanità, anche se Dio si obbliga al "ragionevole" per misericordia verso di noi (da cui il nostro abbandono alla sua provvidenza), l'altra sottolinea una certa rassomiglianza tra Dio e gli esseri umani, che si traduce in un impegno reciproco, così che Dio è tenuto a portare a compimento le sue promesse o minacce e l'uomo è pienamente responsabile dei suoi atti. E Ridwân al-Sayyed giunge a proporre a tutti uno sforzo comune per interrogarsi sul rapporto fede e ragione, che equivale al rapporto «mistero astratto e reale concreto», perché fino a dove può reggere l'analogia (qiyâs) nella teologia e nella mistica? Di origine tunisina, ma residente a Parigi, Abdelwahab Meddeb richiama a buon diritto che si tratta di «salvare l'idea di Dio» e che il Papa non poteva non ricordare, a un Occidente in preda al relativismo culturale e a un ateismo pratico, che non si può mai «escludere il divino dall'universalità della ragione». Egli si rallegra ancora di più per la Lettera aperta di Amman: «I suoi autori vi lasciano intendere - a suo avviso - di accordare un posto centrale all'esperienza mistica, la quale non esaurisce le speculazioni sulla natura di Dio visibile/invisibile, che oscillano tra il polo del tanzîh (l'allontanamento determinato dalla trascendenza, dall'astrazione e dall'invisibilità) e il polo del tashbîh (la prossimità, prodotta dall'antropomorfismo e dall'energia mimetica che approda alla sua raffigurazione)». E arriva ad aggiungere che «un tale richiamo è tanto istruttivo per il Papa quanto utile per i musulmani del giorno d'oggi, dimentichi della pluralità, dell'ambivalenza e della complessità della loro tradizione e della diversità delle loro concezioni di Dio, nonché di quei vissuti multipli del divino, tanto le anime sono state abbandonate a se stesse, alla mercé delle prediche di agitatori che hanno mutato una tradizione aperta all'esperienza dell'Assoluto e dell'Invisibile in un'ideologia sanguinaria [...] per un combattimento rivoluzionario». I nuovi pensatori dell'Islam È dunque questa la paradossale conseguenza del discorso di Ratisbona: un invito indiretto a dialogare insieme, tra credenti, sull'approccio congiunto al mistero di Dio, coniugandovi le esigenze della ragione e le ricchezze della fede. Cristiani e musulmani hanno sempre conosciuto, e conoscono ancora, pensatori inclini al razionalismo e intellettuali piuttosto fideisti, mentre l'ideale sembra proprio, da una parte e dall'altra, armonizzare filosofia e teologia secondo una via mediana. Bisognerebbe, con tanti filosofi greci e occidentali, accontentarsi del solo Atto primo e assoluto, negando ogni possibilità di rivelazione, oppure, con Pascal, rinunciare al «Dio dei filosofi», per aderire unicamente al «Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe», disprezzando ogni approccio "ragionevole"? I credenti avrebbero molte cose da mettere in comune su questo duplice argomento, perché la lunga storia delle loro ricerche spirituali, nella grande varietà di scuole e di dottrine, insegnerebbe loro, senza dubbio, il miglior modo di congiungere, con Benedetto XVI, «fede e ragione», «rivelazione divina e saggezza umana». Una rapida rassegna delle posizioni contemporanee nell'Islam testimonia, a suo modo, questa curiosa varietà. Certi intellettuali privilegiano le esigenze della ragione come, ai suoi tempi, l'indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1898) e, al giorno d'oggi, parecchi dei nuovi pensatori dell'Islam, come vengono chiamati, i quali si vogliono razionalisti alla maniera dei mu'taziliti di un tempo e riformisti secondo lo spirito di Muhammad 'Abduh (1849-1905), a costo di raggiungere paradossalmente certe posizioni dell'Illuminismo europeo. Altri si vogliono più particolarmente fideisti, come lo shaykh e dâ'î Muhammad al-Ghazâlî, missionario e cantore del solo credo islamico, e Sayyid Qutb (1906-1966), il cui commento al Corano (Fî zilâl al-Qur'ân) è fatto proprio dai Fratelli Musulmani. Molti, nondimeno, si riconoscono nella "via mediana", quale fu praticata dal grande Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111) nella sua Rivificazione delle scienze religiose (Ihyâ' 'ulûm al-dîn). È questa la posizione di Rashîd Ridâ (1865-1935) nel suo commento del Manâr, dello shaykh Mahmûd Shaltût (1893-1963) nel suo libro L'Islam, Credo e Legge (al-Islâm, 'aqîda wa-sharî'a), il quale fu per lungo tempo rettore dell'Università di al-Azhar del Cairo, e dello shaykh Abû Rîda che insegnò, da parte sua, all'Università del Kuwait; tale fu anche l'orientamento dello shaykh tunisino Muhammad Ben 'Âshûr (1879-1973) nel suo commento coranico intitolato Tafsîr al-tahrîr wa-l-tanwîr. Che si tratti di teologia (kalâm) o di diritto (fiqh), essi si sforzano di assicurare tutte le necessarie corrispondenze tra le richieste della ragione e i dati della rivelazione. Teologi e giuristi non ripetono spesso che «la legge è ragione che procede dal di fuori, mentre la ragione è legge che procede dal di dentro» (al-Shar' 'Aql min khârij wa-l-'Aql Shar' min dâkhil)? Si potrebbe dire altrettanto nel campo delle verità relative al mistero di Dio, dell'uomo e dell'universo? È qui che i teologi spesso divergono, proprio nella misura della loro capacità di sforzo interpretativo (ijtihâd), per integrare le istanze di una sana filosofia nella loro "intelligenza della fede". Baghdad ne è stata testimone, più di mille anni fa, e il grande storico egiziano Ahmad Amîn ne descrive l'importanza nel suo Mattino dell'Islam (Duhâ l-Islâm), deprecando che se ne sia troppo in fretta «chiusa la porta», perché, scrive, «lo scacco dei mu'taziliti fu una catastrofe per l'Islam». Emulazione spirituale Conviene dunque accogliere con interesse, se non con simpatia, tutte le reazioni musulmane al discorso di Ratisbona, perché esse riconoscono, nello stesso tempo, che i veri dibattiti di un dialogo coraggioso ed esigente si situano a quel livello della spiegazione filosofica e teologica del mistero divino, attraverso le espressioni culturali alle quali essa è obbligata a ricorrere, il che non è senza effetti circa la relativizzazione del loro valore assoluto. Bisogna d'altronde rallegrarsi, con Abdelwahab Meddeb, del fatto che, con la Lettera aperta di Amman, «questa riconsiderazione da parte di voci istituzionali della più bella parte dell'Islam, quella del sufismo, disegna una linea di spartizione che le separa dagli islamisti, nemici dichiarati di coloro che lasciano venire Dio in sé secondo un approccio e un'esperienza dell'intimo che fa di loro dei "cristici" in forma coranica, confermando il loro cammino sulla via aperta dal loro Profeta». Ecco emergere prospettive rinnovate che dovrebbero favorire, da una parte e dall'altra, la volontà dialogica di spiegarsi, di aiutarsi vicendevolmente e di stimarsi in nome di una santa emulazione spirituale tra credenti sinceri e generosi. Tale è il voto che esprime lo stesso autore nell'interpretare il discorso di Ratisbona come segue: «Il Papa ha voluto (in questo discorso) incitare i musulmani a condurre un lavoro d'anamnesi perché depongano la violenza e ritornino all'articolazione del logos che i loro antenati avevano conosciuto, al fine di poterlo ampliare e approfondire». E Abdelwahab Meddeb evoca poi tre esempi per incoraggiare i suoi a questo lavoro di anamnesi: quello del poligrafo Bîrûnî (973-1050) nella sua Descrizione dell'India (1030), quello di Averroè (1126-1198) con il suo Trattato decisivo (Fasl al-maqâl) e quello di Tâhâ Husayn (1888-1973) con la sua opera letteraria nell'Egitto del XX secolo. «È verso questi territori, egli continua, che il musulmano deve far ritorno, per partecipare al grande logos, al suo ampliamento e al suo approfondimento nella via della purificazione che neutralizza la violenza e che instaura una serenità etica». Chi non vede che ce n'è abbastanza per instaurare un dialogo filosofico e teologico più che mai necessario tra musulmani, ebrei e cristiani? Ricchi dei loro patrimoni spirituali, non sono essi invitati ad attingere insieme valori ed energie che permettano loro, come invita Benedetto XVI, di chiamare «la ragione delle scienze moderne» a oltrepassare la sua «autolimitazione» al mero commento dei fenomeni della natura, per interessarsi anche al loro perché, così da comprendere meglio «le grandi esperienze e intuizioni religiose dell'umanità»?


(1) Vedi Ridwan Al-Sayyed in «al-Sharq al-Awsat», 21 settembre 2006.

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