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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:01

L'uomo cammina quando sa bene dove andare. Tuttavia se per il cristiano, e generalmente per l'uomo religioso, è chiara la meta - la vita eterna verso la quale siamo fin d'ora incamminati - nessuno può disporre a priori dei passi che ad essa conducono. Non possediamo il futuro. Per questo ci abbandoniamo con ragionevole fede a Dio che ne è il padrone aderendo, attraverso le circostanze e i rapporti, al Suo disegno di bene per l'intera umanità. Questa lettura religiosa della storia consente una sobria capacità critica del presente e domanda un forte senso del passato. Oasis - ogni numero della rivista ben ci ricorda che la scelta del titolo è legata alla celebre affermazione di Giovanni Paolo II tratta dal discorso a Damasco presso la moschea di Omayyade del 6 maggio 2001 - indica al riguardo un preciso cammino. Quello di un incontro con il Dio misericordioso, con i nostri fratelli e le nostre sorelle nel vincolo della religione. Non sarà inutile ricordare anche che il metodo con cui vogliamo operare un confronto a tutto campo con le problematiche derivanti dal processo di inedita mescolanza tra i popoli è quello di passare umilmente attraverso la presenza delle minoranze, provate ma intensamente testimoniali, dei nostri fratelli cristiani. La bontà di questo metodo si è già più volte documentata nella sua capacità di costringere noi cristiani d'Occidente a superare l'intellettualismo che endemicamente ci affligge, e nel pro-vocare i nostri fratelli d'Oriente ad assumersi fino in fondo il compito di accompagnarci all'incontro con le religioni, in particolar modo con l'Islam nelle sue diverse forme. Già nel primo numero della rivista, con «ardita metafora», parlavamo «dell'inevitabile imporsi di una sorta di meticciato di civiltà». E proseguivamo dettagliando questo meticciato in senso figurato come «mescolanza di culture e fatti spirituali che si producono quando civiltà diverse entrano in contatto», concludendo tuttavia che «abbiamo in comune l'umana natura su cui poggia la famiglia dei popoli». A distanza ormai di quasi tre anni da quelle prime affermazioni, era necessario mettere esplicitamente a tema questa categoria interpretativa. Lo abbiamo fatto durante l'annuale comitato scientifico, occasione per una verifica, a un tempo teoretica e pratica, sui limiti oggettivi entro cui mantenere o rinunciare alla tesi del meticciato; di questo comune lavoro molti degli articoli che seguono sono il frutto. La scelta della categoria di meticciato ebbe in me il carattere di una in-ventio intuitiva, provocata dalla domanda di un giornalista. Non è nata dallo studio della letteratura in proposito, ma piuttosto dai miei viaggi in Messico e, in particolare, dalla considerazione del carattere fortemente meticcio del popolo messicano. Il ricorso a questa categoria nasceva anche dalla insoddisfazione che l'impiego di termini tradizionali come identità, dialogo, integrazione, multiculturalità e persino interculturalità continuava a produrre in me di fronte alla poliformità del processo. I processi storici sono anzitutto dell'ordine degli accadimenti e pertanto ultimamente imprevedibili e non dominabili. Tuttavia, per l'interazione e la durata dei fattori da cui sono costituiti, non solo possono essere sempre meglio conosciuti, ma anche, entro limiti non certo stabiliti a priori, orientati. Anche il processo di meticciato di civiltà e di culture, pur nel suo tumultuoso e spesso violento attuarsi, chiede di essere affrontato con questa positiva attitudine critica. Essa poggia ultimamente su un duplice fermo convincimento che altre volte abbiamo richiamato. Anzitutto l'aspirazione all'universalità e all'unità costitutiva del cuore dell'uomo, che è fatto per la verità. L'esperienza umana elementare, comune a tutti gli uomini di ogni tempo e cultura, ne è la conferma più lampante. Ogni uomo e ogni donna, ogni giorno, vive di affetti, di lavoro e di riposo. Questi sono i simboli di un linguaggio dinamico universale che non cessa di affratellare la famiglia umana. E ne sappiamo bene la ragione. Essa - ed è questo il secondo convincimento - risiede nel fatto che un Padre ha aperto la sua dimora creando tutta l'umanità e, amorevolmente raccogliendoci da ogni dove, ci sta riportando nella sua casa dalle porte aperte. Dio guida la storia con un preciso disegno, cui le movenze contraddittorie della nostra libertà e la potenza della libertà del maligno non può, alla fine, resistere. Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati, li vuole «figli nel Figlio». L'umana avventura della libertà di ogni singolo e di ogni popolo non fa che mostrare la profondità dell'amore di Dio che ha scelto, per comunicarsi, di passare, con la croce di Cristo, attraverso la libertà finita e il suo continuo vagabondare. Questo stato di cose ci chiama alla responsabilità del faticoso lavoro di lettura delle circostanze storiche. Una lettura che non può mai evitare l'autoesposizione: la testimonianza. Religioni e culture, nella loro insuperabile polarità di universale e di particolare, stanno dentro questo disegno unitario. Anzi, lo esaltano nel gioco delle differenze che per la potenza dell'evento trinitario si danno ultimamente solo nell'unità. L'unità - e perciò l'universalità - è l'alfa e l'omega della storia perché non teme la differenza, dal momento che essa vive in modo perfetto e non contraddittorio nello stesso supremo fondamento (Trinità). Da dove e perché nasce ultimamente una cultura o una religione se non dal riconoscimento umile che il mistero di Dio supera qualsiasi comprensione umana? «Si comprehendis, non est Deus» (Agostino). «Incomprehensibile incomprehensibiliter comprehenditur» (l'in-compren-sibile [il fondamento] viene compreso in-comprensibilmente (1): formula paradossale ricavata da un passaggio del De Trinitate del Vescovo di Ippona (2) , cui fa eco anche Anselmo nel Monologion (3) e Tommaso nella Summa (4). Questo è il modo con cui il mistero di Dio ci attira a Sé, come mostrano, in maniera gratuita e splendida, le meraviglie della Rivelazione cristiana. Ciò avviene a livello dell'intelligenza personale, ma ciò che vale per l'intelligenza personale, che è comunque una intelligenza "incarnata" e solidale con tutta l'umanità, avviene anche per le culture e le religioni che in fondo non sono altro che un'espressione personale e comunitaria dell'autocoscienza di un determinato popolo. Quindi Dio si dà in qualche modo agli uomini, tutti segnati da un inestirpabile senso religioso. Si dà pienamente in Gesù Cristo, sua Rivelazione vivente e personale. Egli, come dice il Vaticano II, viene «per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia» (GS 22). Questo significa che la Rivelazione cristiana è per sua natura meta-culturale. Come afferma la Fides et ratio nei paragrafi 70-72, essa può essere accolta in ogni forma di cultura e proprio per questo non è riducibile ad alcuna cultura. La Rivelazione del Dio Uni-Trino è rivelazione dell'Ineffabile, è come il roveto ardente di Mosè che non si consuma mai, al quale non ci si può accostare in modo diretto senza velarsi, senza togliersi le scarpe. Culture e religioni sono come il velo e le scarpe della storia dell'umanità. Niente di meno e niente di più. Qualcosa di storicamente irrinunciabile, ma mai assolutamente definitivo. Questa visione, ribadita autorevolmente nella Fides et ratio, è straordinariamente importante perché è doppiamente liberante. Da un lato ci fa capire che il conversatus est cum hominibus di Dio in Gesù Cristo dice la infinita misericordia dell'Assoluto nei confronti della nostra contingenza. Essa viene abbracciata fino alla più infima e secondaria delle manifestazioni culturali e religiose del costume e della vita di un popolo, e inoltrata nell'eternità. D'altro lato, l'alterità in cui il mistero si mantiene apre all'umana esperienza la capacità critica di purificazione e di eventuale distacco da culture e religioni, secondo l'insuperabile principio metodologico enunciato da Paolo: «Vagliate ogni cosa e trattenete il valore» (cfr. 1Ts 5,21). L'annuncio del logos-amore giovanneo, il Figlio di Dio incarnato, Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, consente a chi vi aderisce nella fede di valorizzare pienamente le culture e le religioni proprio anche rinunciando a ciò che si rivela come caduco. Queste notazioni sembrano a prima vista meglio riferibili alla categoria dell'interculturalità che a quella del meticciato. A prima vista la categoria di interculturalità sembra meglio consentire la costruzione di uno spazio comune di riconoscimento, al di là delle trincee identitarie ma al di qua di caotiche ibridazioni e di pericolosi sincretismi. Personalmente, tuttavia, mi permetto di insistere su una certa preferenza da dare alla categoria di meticciato. Tanto più che, essendo impensabile ricondurre la descrizione del processo di mescolamento di uomini e popoli a un'unica categoria, è inevitabile che il privilegio dato a una comporterà la necessità di far continuo ricorso a tutte le altre che si possono mettere in campo, per meglio rendere conto del processo nel tentativo di orientarlo. In questo senso nessuna categoria, anche quella di meticciato, può diventare "il" metodo con cui affrontare il fenomeno della mescolanza. Sarebbe grave trasferirla dal livello della descrizione dei fatti al livello dell'orientamento prescrittivo. Tanto più che, come ogni categoria, essa è pesantemente pregiudicata non solo biologicamente, ma anche ideologicamente. Tuttavia, se ben trattenuta nei limiti imposti dalla specificazione "meticciato di civiltà e di culture" essa pare a me, nonostante tutti i rischi a cui è esposta, una categoria da privilegiare. A cui, in un qualche modo, subordinare le altre (interculturalità, integrazione, identità, dialogo, ecc.) e non viceversa. La ragione di questa mia preferenza viene dal carattere estremamente realistico, per così dire sanguigno, che il termine meticciato esprime. Ciò lo rende più capace di leggere il processo storico in atto mentre lo lascia aperto a necessarie delimitazioni rigorose, cosa che del resto sarebbe esigita anche da tutte le altre categorie. Anzi, in questo senso mi permetto di aggiungere che, ritornando spesso in questi anni su questo tema, ovviamente non in modo rigorosamente accademico, mi sono convinto che persino l'impiego metaforico di questa categoria debba essere attenuato e il mantenimento del nesso con la sua genesi biologica non debba andare smarrito. Il Cristianesimo - ritorno qui all'esempio del Messico - deve forse temere la fusione di razze e di popoli che è passata attraverso la generazione di persone da genitori di popoli diversi? Con tutto il dolore che ciò comporta, non conserva questo dato una eco di quell'abbattimento del muro che separa per fare «dei due uno», cui si riferisce la Lettera agli Efesini (cfr. Ef 2,14)? Il dato di fatto del meticciato, implicante il riconoscimento che la storia è inevitabilmente luogo di incontro che spesso, tuttavia, passa attraverso lo scontro e che la pace sempre da perseguire ci è data, come dice Paolo, «per quanto possibile» (cfr. Rm 12,18) non dice che solo Dio è il padrone del futuro? Senza cedere a facili irenismi o a ingenui ottimismi circa un processo che ci chiama a ripensare i nostri strumenti culturali e anche giuridici (passando, per riprendere l'espressione del prof. Cesare Mirabelli, «da un meticciato dei diritti a un diritto del meticciato»), possiamo tuttavia essere certi che questa, nei fatti, è la strada che si disegna oggi davanti a noi. Una strada forse impensata, certo impervia, ma che già siamo avviati a percorrere. A nulla vale dunque attardarsi sulle illusorie trincee di un'identità, intesa come chiusura, dimenticando che il pericolo per l'Occidente risiede piuttosto nel diventare sempre di più, come diceva genialmente il poeta Eliot, degli «uomini impagliati».


(1) La formula è di Jean-Luc Marion in: J.L. Marion, A discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc Marion, in J.D. Caputo - M. J. Scanlon (edd.), God, Gift and Post-modernism, Indiana University Press, Birmington University Press, Birmington - Indianapolis 1999, 75. (2) Cfr. Agostino, De Trinitate, XV, II, 2 (3) "Rationaliter comprehendit incomprehensibile esse", Anselmo, Monologion, 64, ripreso in FR 42. (4) Cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, I, q. 12, a. 7.

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