Oltre i problemi strutturali della gioventù e la crisi del religioso, il punto in comune tra seconde generazioni e convertiti è la rottura con la cultura dei genitori

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:54:11

Trascrizione del discorso di Olivier Roy al Comitato Scientifico di Oasis – Villa Cagnola, 29 giugno 2017. Testo rivisto dall'autore

 

Le forme di violenza alle quali assistiamo oggi, ovvero il jihad globale e il terrorismo, sono nuove nella loro concettualizzazione, ideologizzazione ed estetizzazione, ma non nei termini che le descrivono: jihad infatti è un termine antico quanto l’Islam.

 

Tuttavia, a parte gli scritti di ideologi come Sayyid Qutb e Muhammad ‘Abd al-Salam Faraj[1], il primo che ha cercato di istituire un jihad globale e globalizzato è stato Abdallah ‘Azzam (1941-1989). Palestinese con passaporto giordano e insegnante in Arabia Saudita, ‘Azzam all’inizio degli anni ’80 lancia un appello ai giovani musulmani di tutto il mondo invitandoli a combattere in Afghanistan contro i sovietici.

 

La sua teoria del jihad contrasta con la tradizione dominante dei giuristi: per lui il jihad, lungi dall’essere un obbligo collettivo, è un dovere individuale. In altre parole, il fatto che ci siano dei militanti impegnati nel jihad non significa che gli altri musulmani ne siano dispensati. Il jihad riguarda tutti.

Una nuova nozione di jihad

‘Azzam perciò prende le distanze dal diritto islamico classico, secondo il quale il jihad è limitato a un momento e uno spazio precisi e può essere proclamato soltanto dalle autorità competenti, oltre al fatto che un minore può prendervi parte soltanto con l’autorizzazione dei genitori.

 

Alcuni pensatori della galassia jihadista arriveranno addirittura a dichiarare che una donna non ha bisogno dell’autorizzazione del marito per unirsi al jihad, ciò che è veramente in rottura con la tradizione musulmana. ‘Azzam aggiungerà anche che non è necessario che un musulmano sia personalmente interessato dall’attacco nemico: non deve aspettare che una minaccia incomba sul suo territorio ma è tenuto a difendere qualsiasi Paese musulmano in pericolo.

 

Inoltre, il jihad per ‘Azzam non è semplicemente una guerra per difendere un territorio musulmano ma una forma di ascetismo, un’azione spirituale nel corso della quale il jihadista deve imparare innanzitutto a staccarsi dai legami personali, dalla sua famiglia, dalla sua nazione, dalla sua etnia e tribù. L’idea perciò è formare un corpo di cavalieri della fede che possa essere portato in qualsiasi parte del mondo, unito da uno spirito di corpo e senza nessun legame con alcuna società.

 

Il progetto di ‘Azzam non è creare uno stato islamico. Lo dirà molto chiaramente ai volontari in partenza per l’Afghanistan, ai quali intima di non interferire nella vita politica afghana. Una volta vinta la guerra – aggiunge – i volontari lasceranno il Paese e andranno a combattere altrove. Infine è importante sottolineare come questa concezione di jihad non sia di natura terrorista. Negli anni ’80 i jihadisti internazionali non attaccano i civili sovietici, gli aerei di linea, i diplomatici… Il loro jihad è puramente militare.

 

‘Abdallah ‘Azzam viene assassinato nel 1989 da sconosciuti e l’organizzazione che ha fondato è presa in consegna da Osama bin Laden, che introdurrà il terrorismo come metodo di azione.

 

L’elemento di congiunzione tra ‘Azzam e Bin Laden è che questo terrorismo ha una finalità globale e allo stesso tempo è condotto da militanti anch’essi globalizzati. Qualunque siano le loro origini, essi non sono legati a un paese preciso o a una lotta nazionale. La prima impresa di questi combattenti internazionali è l’attentato contro il World Trade Center nel 1993. Nel corso degli anni ’90 seguiranno molti altri attentati, come gli attacchi alle ambasciate americane in Africa orientale o contro il lanciamissili USS Cole in Yemen nel 2000.

Costanti e domande

Quel che è nuovo è la comparsa, a partire dal 1995, di un nuovo tipo di terrorismo, l’homegrown terrorism, cioè un terrorismo che recluta giovani educati in Europa. Questo fenomeno diventerà dominante a partire dall’11 settembre 2001.

 

In secondo luogo, tutti gli attacchi si trasformano in attacchi suicidi. Questa doppia evoluzione spiega l’esistenza di traiettorie simili negli attacchi degli ultimi venti anni. Prendiamo l’esempio di Khaled Kelkal del GIA algerino, che inaugura la serie di attentati francesi nel 1995 a Lione. Egli commette degli attentati contro i trasporti pubblici francesi e muore, armi in mano, davanti alla gendarmerie.

 

Tra Kelkal e l’attentato contro il Bataclan è possibile individuare una linea di continuità. Durante questi vent’anni la stragrande maggioranza dei terroristi si divide effettivamente in due gruppi: le seconde generazioni, ovvero i giovani nati da genitori immigrati in Europa, e i convertiti. Le seconde generazioni rappresentano all’incirca il 65 per cento mentre i convertiti sono più o meno il 20 per cento con ovviamente delle variazioni.

 

Sorge allora una domanda: perché per ventidue anni la percentuale delle seconde generazioni si mantiene costante? Ventidue anni è il tempo di una nuova generazione. Ora ci si aspetterebbe una terza generazione, ma sul campo, se a volte costatiamo la presenza tra i ranghi jihadisti delle prime generazioni, la terza è praticamente assente. Fenomeno curioso, la seconda generazione sembra dunque costituire una costante.

 

Da parte loro, i convertiti rappresentano quasi ovunque il 20 per cento, 25 per cento o addirittura il 30 per cento degli estremisti. La cifra è simile in Francia, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda e Danimarca. Se avessimo a che fare con una rivolta delle popolazioni musulmane che si sentono oppresse dall’imperialismo neocolonialista o dal razzismo e l’islamofobia, perché la percentuale dei convertiti si aggirerebbe intorno al 25 per cento da vent’anni?

 

Terzo elemento: praticamente nessuno di questi giovani può vantare un passato religioso, praticamente nessuno di loro ha frequentato una madrasa, nessuno ha una laurea in scienze religiose. Il più delle volte, la radicalizzazione religiosa e la decisione di passare alla violenza politica si sono verificate contemporaneamente.

 

La metà dei jihadisti in Francia, in Germania e in Gran Bretagna sono delinquenti. In Belgio la percentuale è più bassa. I loro reati non sono legati all’Islam: sono la droga e le rapine in banca ad averli portati in prigione, dove si sono radicalizzati. La prigione, come sappiamo, è il luogo per eccellenza della radicalizzazione.

 

Inoltre, perché c’è una sovrarappresentanza di magrebini? Questa affermazione è stata contestata. Resta il fatto che in Germania, dove i turchi superano di gran lunga i magrebini, i turchi radicalizzati non sono neppure il 10 per cento. Perché? Perché in Olanda e in Belgio i responsabili degli attacchi sono marocchini e non turchi? Negli attentati in Gran Bretagna nella primavera 2017, su cinque terroristi che si sono fatti esplodere uno soltanto era indo-pakistano: questo non corrisponde alla demografia dei musulmani nel Regno Unito.

Le cellule composte da fratelli

Altra osservazione, altra domanda: perché in quasi tutte le cellule terroristiche sono presenti fratelli? La metà dei venti membri del gruppo Bataclan-Zaventem sono fratelli. Si sarebbe tentati di dire che la causa è da ricercarsi nella famiglia, ma non c’è alcuna famiglia: i padri e gli zii sono assenti, ci sono soltanto i fratelli. E perché una parte notevole di jihadisti, circa il 20 per cento degli uomini, fanno un figlio con la moglie prima di uccidersi?

 

Nel caso di chi va in Siria questo è sistematico: tutti fanno un figlio, e l’organizzazione li spinge in questa direzione, prima di uccidersi. È incredibile, questi giovani fanno dei figli pur sapendo che non li educheranno. Il rapporto con i genitori è altrettanto interessante: in generale, i genitori non capiscono perché il loro bambino passa alla violenza. Un gran numero di giovani, come i fratelli Abaoud e Abdeslam coinvolti negli attacchi del 2015 in Francia, scrivono un testamento.

 

In generale, si rivolgono alla madre, non al padre. Spesso esprimono la speranza che possa entrare nel paradiso, pur essendo una cattiva musulmana, grazie al martirio del figlio. In altre parole, essi invertono il rapporto generazionale diventando i genitori spirituali dei loro genitori e rifiutando la trasmissione parentale perché rifiutano di allevare i propri figli.

Perché tutti i terroristi degli ultimi anni muoiono in azione? L’uomo che ha commesso l’attentato alla Manchester Arena il 23 maggio 2017 avrebbe potuto lasciar scivolare lo zaino sotto il suo sedile e lasciare l’arena prima di far esplodere la bomba che vi aveva nascosto. Ma ha scelto di morire. Allo stesso modo, chi attacca la polizia con un coltello è sicuro di morire. C’è una sola conclusione possibile: la morte è al centro del progetto jihadista. Non è la costruzione di una società o di uno stato islamico ad attrarre i jihadisti, è la morte.

L’attrazione della morte

Un ultimo elemento importante è l’iconoclastia. I jihadisti distruggono tutto ciò che è culturale, non solo le espressioni della cultura pagana o cristiana: durante la caduta di Mosul a giugno 2017 hanno fatto saltare la moschea storica di al-Nuri, dove peraltro al-Baghdadi aveva proclamato il ritorno del califfato nel 2014.

 

Occorre tenere conto anche dell’estetica della violenza. I video di decapitazione di Daesh – acronimo in arabo per Stato Islamico, ndr - che ci fanno giustamente inorridire, sono montati secondo codici estetici presi in prestito dai narcos messicani.

 

È ben noto che la propaganda di Daesh gioca sull’estetica della cultura giovanile contemporanea (non di tutti i giovani, evidentemente), la cultura dei videogiochi, dei film ultra violenti... Il risultato estetico è un’islamizzazione della cultura giovanile occidentale contemporanea. Per fare un esempio, il modo di procedere di un boia saudita è diverso da quello dei jihadisti. Tra i due esiste un elemento comune, la decapitazione, ma la messa in scena, la giustificazione, l’estetizzazione sono completamente diversi.

L’estetica della violenza dei narcos messicani

Tutti questi elementi mi portano a dire, come ho già ripetuto più volte, che al centro del progetto jihadista c’è un certo nichilismo. Il termine potrebbe non essere scelto bene perché questi militanti credono di andare in paradiso. Siccome sono sinceramente credenti, parlare di nichilismo non è opportuno in questo senso. Resta il fatto però che non hanno alcun progetto nella vita terrena. Si uccidono uccidendo il maggior numero possibile di persone, a sangue freddo, senza emozioni.

 

Il grande genio di al-Qaeda prima, e Daesh dopo, è avere permesso a sentimenti nichilisti, macabri e mortali di inserirsi in una grande costruzione narrativa eroica islamica. Quando passano all’azione, infatti, sono musulmani.

 

Tuttavia, nelle loro azioni c’è qualcosa d’incomprensibile dal punto di vista razionale. La strategia di Daesh conduce alla morte di Daesh, e tutto ciò che mette in scena fin dall’inizio porta alla sua scomparsa. La vittoria di Daesh è impossibile a meno che Daesh non pensi che le società occidentali crolleranno sotto il peso delle proprie paure mediante un effetto di stordimento. Questa peraltro era l’illusione di Bin Laden, ma le cose sono andate molto diversamente.

La strategia di Daesh conduce alla morte di Daesh, e tutto ciò che mette in scena fin dall’inizio porta alla sua scomparsa

Il progetto di Daesh di creare un califfato senza frontiere è ovviamente impraticabile perché gli metterebbe tutti contro. Questo è pertanto un progetto suicida che si nasconde dietro un grande racconto dell’Apocalisse. Ci troviamo di fronte a una costruzione apocalittica della religione islamica.

Tra angoscia e deculturazione

I jihadisti mettono a nudo un vuoto di spiritualità, una grande angoscia. Questi giovani non si battono per l’utopia di una società nuova. Anche se ci sono alcuni casi, per quanto dubbiosi, di giovani partiti per dedicarsi all’umanitarismo islamico, praticamente nessuno di loro prende la via dell’Iraq o della Siria per curare le persone.

 

 Il loro obiettivo è combattere. Se sono in rottura totale con la società, lo sono anche con la comunità musulmana: non ci sono esempi di giovani jihadisti con un passato militante pro-palestinese. Nessuno di loro in Europa è passato attraverso la Fratellanza musulmana. L’unica eccezione è Hizb ut-Tahrir, la prima organizzazione ad aver messo sul mercato, se così si può dire, negli anni ’90 la nozione di califfato globale immediato. Questo movimento che promuove un califfato globale deterritorializzato, dopo aver acquisito una grande influenza negli anni 2000 tra i giovani studenti di seconda generazione britannica, ha conosciuto il declino perché rifiutava la violenza armata.

 

Di fronte all’ascesa di al-Qaeda e Daesh, i giovani hanno più o meno abbandonato Hizb ut-Tahrir, e si è prodotta una scissione dalla quale è nato il cosiddetto Islam4UK, coinvolto negli ultimi attentati. Ma questa è l’eccezione, non la norma.

 

Il divario tra la popolazione di origine musulmana in Europa e questi gruppi di estremisti è totale. Questi ultimi vivono sempre ai margini delle popolazioni musulmane, sociologicamente, culturalmente e anche sul piano religioso.

 

Nessuna organizzazione musulmana mainstream conta il 25 per cento di convertiti, tranne forse alcune confraternite neo-sufi. L’elevata percentuale dei convertiti è, a mio avviso, un fatto importante nella misura in cui il punto di convergenza tra le seconde generazioni e i convertiti è proprio la rottura con la cultura dei loro genitori o, più precisamente, la rottura del legame tra religione e cultura che era presente nei loro genitori.

 

In genere, le prime generazioni di immigrati in Europa non sono state in grado di trasmettere l’Islam culturale, il loro “Islam nazionale”, tranne i turchi, ciò che a mio avviso spiega la percentuale minima di turchi tra gli estremisti. Nella popolazione turca, per vari motivi, la lingua e la cultura sono stati trasmessi, grazie in particolare all’azione del governo di Ankara, ciò che comunque non è privo di effetti negativi.

 

Questa deculturazione del religioso porta a una sorta di esacerbazione di un puro religioso che non è possibile collegare né a una cultura né a una vita sociale. Inoltre è un Islam desocializzato.

 

C’è dunque un grande lavoro da fare sulla ri-culturazione, la risocializzazione del religioso. Ovviamente i metodi cambieranno a seconda che si tratti di Paesi a maggioranza musulmana o di Paesi in cui i musulmani sono immigrati. Tuttavia è importante ricordare che la crisi della cultura religiosa colpisce anche i Paesi musulmani tradizionali e si esprime attraverso il successo del salafismo, che è per definizione la proclamazione di un religioso al di fuori di ogni cultura. In questo senso, il salafismo, anche se non è certamente la causa del terrorismo, ha molti punti in comune con quest’ultimo nel modo in cui concepisce il rapporto tra cultura e religione. La priorità quindi è la riconnessione sociale e culturale del religioso, sia in Europa sia nei Paesi musulmani.

 

Alcuni cristiani cominciano a sperimentare lo stesso fenomeno della deculturazione in Paesi in cui la secolarizzazione è tale che le comunità si sentono emarginate nella loro stessa società. In Francia esse tendono a ricostruirsi come comunità di fede e vivono un rapporto di tensione e conflitto con la società dominante.

 

La deculturazione riguarda infatti tutte le religioni, ma assume una forma esacerbata nell’Islam a causa dei conflitti in Medio Oriente e delle migrazioni che la accentuano, e della presenza delle organizzazioni islamiche estremiste che predicano a livello globale la rottura totale con l’ordine mondiale esistente. Se sei un giovane alla ricerca di radicalizzazione perché sei globalizzato, non resta che una solta causa ora, Daech, e il genio di Daesh è stato saper giocare su quello.

 

Eppure, Daesh scomparirà in Medio Oriente. Che cosa resterà dopo? Che cosa ne sarà dei giovani che tornano dalla Siria e dall’Iraq? Che cosa faranno questi giovani che hanno sempre lo stesso sentimento di ribellione verso il mondo e la società? Dove andranno? Reinventeranno una causa islamica o qualcosa di completamente diverso? Sono queste le sfide di lungo termine alle quali dobbiamo pensare, e superano di gran lunga la questione di breve termine della sicurezza e del terrorismo.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

[1] L’intellettuale egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) dopo aver aderito ai Fratelli musulmani, assunse delle posizioni sempre più estremiste fino a teorizzare la legittimità dell’azione armata contro il governo egiziano accusato di apostasia. Fu impiccato da Nasser. Muhammad ‘Abd al-Salam Faraj (1954-1982), discepolo di Sayyid Qutb, è noto soprattutto per il pamphlet L’obbligo assente (al-Farīda al-ghā’iba), in cui sottolinea l’importanza del jihad. Fu ucciso nel 1982 a causa del suo ruolo nell’uccisione del presidente egiziano Sadat (NdR). 

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