Il progetto americano, aggravato da responsabilità locali, ha prodotto effetti devastanti: ha creato un legame fra jihadismo e movimenti anti-occidentali secolari, ha inoculato un settarismo etno-religioso che ha lacerato il tessuto socio-politico del Paese e ha rafforzato i rivali di Washington nella regione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:22

Vista in prospettiva, della guerra all’Iraq di Saddam Husayn tenacemente voluta dal presidente statunitense George W. Bush si può dire che tutto quello che poteva andar male sia andato male. Tutti gli errori che potevano essere fatti sono stati fatti. La sicurezza e le ambizioni (o a esser più sinceri il velleitarismo) che hanno accompagnato l’Amministrazione Bush all’inizio della sua avventura irachena sono ben presto svanite, lasciando il posto a un senso crescente di frustrazione e impotenza.

Molti analisti hanno parlato di hybris imperiale, ossia di quel senso di onnipotenza, orgoglio e superbia che scatenava le ire degli dei, i quali intervenivano piccati per punire i tracotanti eroi classici. Nel caso dell’Iraq, tuttavia, è inutile scomodare le divinità: il fallimento catastrofico degli Stati Uniti in Iraq – che ha prima lacerato la comunità internazionale, poi fatto piombare il Paese nell’anarchia e nella violenza e infine indebolito la stessa super-potenza – si può spiegare benissimo con la catena di bugie, errori, dilettantismo, incapacità degli attori coinvolti. Ma sarebbe ingiusto addossare ogni responsabilità agli americani: le tragiche difficoltà del dopoguerra iracheno sono state aggravate anche da precise responsabilità degli attori locali e regionali. La nuova classe politica irachena emersa dopo la caduta di Saddam Husayn ha dimostrato di non essere all’altezza del compito, caratterizzandosi per corruzione, settarismo e ambizione personale; i paesi regionali – chi più chi meno – hanno invece agito in Iraq con una politica cinica e miserevolmente egoistica, contribuendo alle violenze settarie.

Il fallimento di Washington

La guerra in Iraq è stata voluta strenuamente da Washington e giustificata senza troppa convinzione dalla necessità di rimuovere un pericolo per il mondo, dai timori della presenza di armi di distruzioni di massa (che si sapeva non esistere) e per “esportare la democrazia”. Per i molti che si erano opposti, fra cui Francia, Germania, Russia e gli stessi alleati arabi degli Stati Uniti, i motivi erano molto meno nobili, e avevano a che fare con la volontà statunitense di controllare un Paese chiave dal punto di vista geopolitico e geo-economico in Medio Oriente.

La strategia delle forze anglo-americane prevedeva una campagna brevissima: facili battaglie terrestri durante le quali distruggere le truppe di élite irachene e imprigionare centinaia di migliaia di soldati. In realtà, vi furono pochissimi veri combattimenti: di fatto le truppe irachene evitarono gli scontri e si dissolsero. Gran parte dei soldati semplicemente tornò alle proprie case (portando spesso con sé le armi in dotazione): è come se buona parte del popolo iracheno fosse in pratica rimasta neutrale in questo conflitto. Più che di una guerra vera e propria si parlò di una passeggiata trionfale. Ma i problemi di una pianificazione disastrosa da parte statunitense, dell’insufficienza di truppe, dei contrasti fra Dipartimento di Stato e Pentagono, dell’arroganza di molti dei consiglieri della Casa Bianca e della mancanza di una visione complessiva dei reali bisogni del Paese non avrebbero tardato a mostrarsi tragicamente.

Le forze di occupazione anglo-americane – prima ancora della fine ufficiale del conflitto – si trovarono di fronte a problemi estremamente prevedibili ma stolidamente ignorati nella pianificazione della campagna. Con la fuga di Saddam e dei vertici ba’thisti le strutture portanti del regime crollarono completamente; dissolte anche le forze armate, nelle città irachene – Baghdad in primis – la popolazione si diede al saccheggio sistematico di ogni struttura governativa o pubblica. I pochi soldati occidentali non intervennero, limitandosi a mettere in sicurezza i Ministeri dell’Interno e del petrolio, oltre che i palazzi presidenziali che avrebbero dovuto ospitare i centri nevralgici dell’amministrazione americana nel Paese (l’Autorità provvisoria della Coalizione – CPA). Tutte le strutture produttive e amministrative irachene subirono danni impressionanti finendo coll’essere letteralmente “cannibalizzate” mentre vennero sottratte enormi quantità di armi e esplosivo. Nel giro di qualche settimana l’Iraq, privo di ogni guida, si ritrovò paralizzato, mentre la popolazione diveniva sempre più ostile nei confronti dei “liberatori” occidentali. Solo nel Nord, nelle zone curde, la presenza dei peshmerga impedì il collasso delle strutture statuali.

Prima dell’invasione, Washington aveva immaginato la costituzione di un governo transitorio “leggero”, composto da esponenti iracheni fidati per lo più cooptati, i quali avrebbero dovuto affiancare la CPA. Ossessionati dal concetto di iniziativa privata e diffidenti verso ogni cosa che fosse statale, i consiglieri della Casa Bianca immaginavano di ri-creare uno Stato le cui strutture fossero ridotte al minimo, favorendo una massiccia privatizzazione, a dimostrazione di quanto poco conoscessero la complessa realtà mediorientale.

Appena arrivato, il capo della CPA, Paul Bremer, commise degli errori che si rivelarono fatali. Il primo di questi – seguendo i suggerimenti degli iracheni espatriati a cui si appoggiava – fu quello relativo alla de-ba’thificazione di tutte le strutture politico-amministrative del Paese. Il secondo fu la dissoluzione totale delle forze armate irachene, dei servizi di sicurezza e di intelligence. Queste due decisioni, a cui se ne aggiunse una terza, riguardante un irrealistico piano di liberalizzazione economica, misero definitivamente in ginocchio ogni struttura gestionale e amministrativa irachena, lasciando senza paga e senza prospettive centinaia di migliaia di burocrati, soldati, poliziotti, uomini dei servizi. Molti di essi finirono negli anni successivi a rafforzare il fronte ostile al nuovo ordine iracheno. Oltretutto, se la prima ordinanza venne accolta positivamente da buona parte della popolazione , la seconda e la terza ebbero un impatto negativo immediato per milioni di iracheni.

L’idea dominante nell’Amministrazione Bush era che l’Iraq avesse un’economia dirigista simile a quelle dell’Est europeo: anche quaggiù si sarebbero dovuti adottare i metodi usati dopo la caduta della cortina di ferro a Est, ossia massicce privatizzazioni e liberalizzazioni, senza impegnarsi in pianificazioni di lungo periodo. Un’idea lontanissima dalla ben più complessa realtà socio-economica mediorientale e irachena. Ma questa visione aveva in sé anche un’altra radice, molto meno nobile, ossia quella di favorire – senza gara – le grandi corporation statunitensi per avviare i lavori del gigantesco programma di ricostruzione delle devastate infrastrutture del Paese e per garantire la sicurezza – di fatto privatizzata – viste le condizioni sempre più precarie in cui ci si trovava a operare.

Il tentativo della ricostruzione istituzionale

Tuttavia, con l’aumentare dei dissensi politici e delle difficoltà militari, Washington fu forzata a fare concessioni superiori al voluto, a beneficio delle componenti irachene meno vicine alla sua politica, in primis quelle sciite. Così, nella prima primavera 2004 vi fu un parziale trasferimento dei poteri a un governo provvisorio in attesa di elezioni e di una nuova Costituzione. Questo processo di ricostruzione istituzionale venne compiuto nel 2005, fra crescenti difficoltà: da un lato il Paese stava piombando nel caos delle violenze scatenate dalle milizie jihadiste, dall’altro le linee di frattura etnico-religiose fra curdi, arabo-sciti e arabo-sunniti si stavano polarizzando in un settarismo violento, che rischiava di lacerare il Paese. Lo stesso progetto americano di un Iraq federale finiva per istituzionalizzare le fratture etno-settarie della società irachena.

Il risultato di questo sforzo di confusa ricostruzione istituzionale fu – alla fine dell’anno – l’approvazione di una Costituzione “cotta al microonde”, come è stato detto, ossia scritta in fretta e furia sotto pressione degli americani, che finì per lasciare non chiarite le questioni più controverse. Nuove elezioni parlamentari si tennero il 15 dicembre 2005. Il loro successo e le violenze tutto sommato contenute facevano sperare che la fase più critica del dopo invasione fosse finalmente superata, con l’Iraq avviato verso una piena stabilizzazione e ricostruzione. Viceversa, le speranze di una progressiva normalizzazione andarono ben presto deluse. Dopo le elezioni, dovettero infatti trascorrere quasi sei mesi per completare la nuova squadra di governo, sotto la direzione del nuovo primo ministro Nuri al-Maliki, per via dei veti incrociati fra le forze politiche.

I lunghi mesi sprecati fra l’inverno del 2005 e la primavera del 2006 in questa sterile paralisi politica influirono pesantemente sullo scenario di sicurezza iracheno. Da un lato, diffusero una delusione profonda e radicata nella popolazione nei confronti della nuova élite politica post Saddam, che si mostrava tanto avulsa dai reali problemi in cui si dibattevano i cittadini (terrorismo, mancanza di acqua corrente, elettricità, disoccupazione) quanto corrotta e avida (la ricostruzione era quasi bloccata e favoriva malversazioni e ruberie di ogni sorta). Dall’altro lato, l’impasse politica ridiede slancio alle violenze dei gruppi qaedisti, che trascinarono il paese sull’orlo della guerra civile settaria, con migliaia di morti ogni mese. Per di più, tutti i paesi della regione interferivano pesantemente nelle vicende irachene, e non certo per favorirne la stabilizzazione. Chi se ne avvantaggiò fu soprattutto l’Iran: un risultato paradossale, dato che Washington sperava di isolare definitivamente la repubblica islamica sciita, con una manovra di accerchiamento che aveva portato i soldati statunitensi tutto attorno alle frontiere iraniane (dall’Afghanistan all’Asia centrale, al Golfo). Il disastro iracheno al contrario rafforzò nettamente l’Iran: con la caduta di Saddam venne rimosso uno dei nemici storici di quel Paese; con le elezioni, gli sciiti andarono al potere; con l’anarchia, le milizie sciite filo-iraniane e le forze di sicurezza iraniane (servizi segreti e i potentissimi pasdaran) penetrarono in tutti i gangli del potere iracheno.

La (finta) stabilizzazione

Per tutto il 2006 e parte del 2007, a causa degli errori strategici, tattici e politici degli Stati Uniti e dell’assenza di forze nazionali di sicurezza affidabili, si registrò un progressivo aumento delle violenze insurrezionali, che distrussero l’aura di invincibilità delle forze americane e attrassero molti delusi dal “nuovo Iraq” verso i gruppi insurrezionali. Tuttavia, i terroristi e gli insorti erano estremamente eterogenei e privi di unità: le loro violenze e la loro alleanza con semplici bande criminali posero le premesse per il mutamento dello scenario di sicurezza, avvenuto nel 2007.

Proprio quando la situazione in Iraq sembrava irrecuperabile, infatti, quattro fattori permisero un inaspettato miglioramento: 1) il cambio di strategia militare deciso dalle forze armate statunitensi e il cosiddetto Surge, ossia l’aumento dei soldati impiegati sul terreno dal Pentagono; 2) la rottura fra milizie qaediste e i sunniti, che lasciò privi di protezione locale gli insorti; 3) la marginalizzazione delle milizie radicali sciite; 4) la diminuzione degli scontri settari come conseguenza dell’avvenuta “pulizia etno-settaria” del 2006, che aveva finito per creare, soprattutto nella capitale, a zone più omogenee al loro interno. Nel corso del 2008, pertanto, le violenze si ridussero enormemente, permettendo di stabilizzare l’assetto politico interno.

Il governo al-Maliki tornò allora a concentrarsi sulla difficile situazione economica in cui versava il Paese. Gli anni neri del terrore appena trascorsi avevano fortemente ritardato il rilancio di un’economia danneggiata da trent’anni di guerra e di sanzioni: una catena di conflitti e di isolamento iniziata nel lontano 1980 con l’improvvida guerra all’Iran. Come in una spirale, le violenze bloccavano la ricostruzione economica e questi ritardi producevano nuove violenze. Di particolare importanza era la rivitalizzazione della produzione petrolifera, da cui dipendeva il Paese. Le rivalità fra le comunità etno-religiose, la corruzione dilagante e le differenze di opinioni crearono una frattura crescente fra il governo regionale curdo (KRG), che di fatto agiva in modo indipendente, e Baghdad, provocando altri ritardi e tensioni.

Con la nuova presidenza Obama, l’interesse statunitense verso l’Iraq scese ai minimi termini: gli Stati Uniti iniziarono a ritirare i propri soldati, trasferendo la gestione della sicurezza alle nuove forze armate irachene, fino a lasciare definitivamente il paese alla fine del 2011. L’Iraq sembrava allora stabilizzato. In realtà, i limiti della nuova classe politica irachena hanno impedito che il miglioramento dello scenario di sicurezza si traducesse in una reale stabilizzazione politica: il Paese è sempre rimasto nel limbo pericoloso di un’instabile precarietà.

Leader politici corrotti e settari – che si fingevano nazionalisti, ma che volevano solo l’espansione del proprio potere personale – hanno vanificato i risultati ottenuti nel campo della sicurezza. Il parlamento eletto nel 2010 ha sprecato quattro anni in liti insensate, senza riuscire a risolvere nemmeno uno dei veri problemi del nuovo Iraq: ad esempio, come ripartire fra le diverse province e comunità irachene i proventi del petrolio, come risolvere la questione delle zone contese fra curdi e arabi, come aiutare le minoranze – in primis quella cristiana – a superare lo shock delle terribili violenze subite, ricreando uno spazio pubblico, sociale e politico, in cui vivere come parte integrante dell’Iraq e non già come “aporie storiche”, resti di un passato ormai tramontato, come vorrebbero far credere gli islamisti radicali.

La volontà di mantenersi al potere da parte di al-Maliki, nonostante le molte opposizioni (anche in campo sciita) alle sue strategie politiche, hanno favorito un tatticismo e un clientelismo esasperato, che ha degradato ulteriormente l’immagine della nuova classe politica. Soprattutto ha riaperto le ferite con la minoranza arabo-sunnita, provocando l’esplodere di nuove violenze durante il 2013. Un anno sciagurato, che ha riportato il conto dei morti ai livelli degli anni peggiori del post invasione. Con l’aggravante di non poter contare più sulle forze armate statunitensi, ma di dover fronteggiare gli effetti deleteri della guerra civile in Siria e il contagio dello scontro sempre più violento fra sciiti e sunniti che sta dilagando in tutto il Medio Oriente.

Verso nuove elezioni

È in questo scenario precario e incerto che il Paese si appresta a nuove elezioni politiche generali[1]. Nello scorso decennio, esse non hanno mai contribuito a un miglioramento della situazione; anzi: le difficoltà terribili che ha vissuto la popolazione irachena si spiegano anche con la manifesta incapacità di una nuova classe politica nel promuovere una progettualità condivisa e de-polarizzante che riducesse la frammentazione della società irachena.

Il clamoroso fallimento del progetto statunitense ha così prodotto una serie di effetti paradossali e perversi: ha finito per creare un legame fino ad allora inesistente fra jihadismo islamista radicale e movimenti anti-occidentali secolari iracheni; ha inoculato nel paese un settarismo etno-religioso molto più forte e violento che in passato, che ha lacerato i tessuti socio-politici iracheni e gettato nel caos lo sfortunato Paese; ha rafforzato i principali rivali geopolitici di Washington nella regione; ha portato al potere una classe politica tanto litigiosa quanto incapace. Un esempio da manuale di come non favorire la democratizzazione e il processo di istitution-building nella regione. Purtroppo, questo “caso scuola” al contrario ha finito per essere pagato in prima persona dalla popolazione irachena, che si è sì liberata di un feroce dittatore quale era Saddam Huseyn, ma pagando prezzi spaventosi. E ritrovandosi ora, undici anni dopo l’invasione anglo-americana nuovamente sul ciglio di una frammentazione etno-settaria.

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[1] Questo articolo è stato chiuso il 31 marzo 2014 [N.d.R.].

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