Il crollo del regime di Saddam in Iraq ha precipitato gli iracheni arabi sunniti in un vuoto di rappresentanza ed è stato soprattutto l’ISIS a cavalcarne il disagio

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:40

Il crollo del regime di Saddam Hussein ha precipitato gli iracheni arabi sunniti in un vuoto di rappresentanza. Benché non possano essere considerati una comunità compatta, varie forze politiche hanno tentato di sfruttare elettoralmente il loro risentimento. Ma è stato soprattutto l’ISIS a cavalcarne il disagio, offrendo in particolare agli ex-ufficiali baathisti una prospettiva di riscatto. E oggi che lo pseudo-califfato è sconfitto, bisogna fare i conti con una giovane generazione “militarizzata” e “confessionalizzata”.

 

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Nel trattare la crisi dell’Islam arabo sunnita in Iraq prima e dopo l’ascesa dello Stato Islamico d’Iraq e di Siria (ISIS), mi sembra necessario proporre prima di tutto una critica della nozione essenzialista di tale configurazione politico-religiosa, per esaminare invece le difficoltà incontrate dagli iracheni che si trovano a essere arabi sunniti per nascita o per geografia nello sviluppare istituzioni religiose e politiche e le preoccupazioni in materia di sicurezza che affliggono oltre ogni misura questa parte della popolazione.

 

“Arabi sunniti d’Iraq” è un’etichetta identitaria che presuppone una coesione all’interno di questa comunità, mentre in realtà sono piuttosto le sue divisioni a spiegare perché nessuna istituzione politica o religiosa possa pretendere di rappresentarne le aspirazioni. Dal punto di vista della narrazione politica, si è effettivamente sviluppata una vaga nozione di “sunnicità araba irachena”, tinta di vittimismo, ma le narrazioni non si traducono necessariamente in istituzioni politiche o religiose realmente esistenti. Sono piuttosto le élite religiose e politiche tra i sunniti arabi iracheni a invocare queste espressioni, con l’obiettivo tutto mondano della mobilitazione politica. Il successo dell’ISIS può perciò essere attribuito alla capacità di tale organizzazione di inserirsi in un vuoto istituzionale per reclutare in questa parte della popolazione.

 

Come ha affermato Fanar Haddad, benché il concetto di “confessionalismo” sia problematico dal punto di vista analitico[1], esso continua a essere usato tra i policy maker e nel discorso mediatico prevalente, al punto da essere stato interiorizzato all’interno dello stesso Iraq. Per esempio, nel 2016 Kemal Kirkuki, un politico curdo, ha affermato:

«Ci auguriamo che l’Iraq diventi tre Paesi indipendenti: il Kurdistan, lo Sciitistan e il Sunnistan»[2].

La nozione di “Sunnistan” immagina chiaramente una comunità politica fondata sull’appartenenza religiosa che possa dar vita a una forma sostenibile di Stato.

 

Questa linea di pensiero assume le differenze confessionali come originarie e inseparabili dal panorama politico iracheno. Personalmente colloco piuttosto le tensioni esistenti in Iraq a livello delle narrazioni sciite, sunnite e curde di vittimizzazione e trauma, che vengono strumentalizzate per mascherare le reali rivalità esistenti all’interno di ciascuna comunità. Anziché attribuire il conflitto iracheno alle sole differenze confessionali o etniche, occorre ricordare che la competizione elettorale, quella per le risorse finanziarie e quella per il territorio hanno provocato tensioni intra-confessionali e intra-etniche fin dal 2003. Considerare il confessionalismo come variabile causale della violenza irachena è perciò superficiale e banalizza la complessità del conflitto intra-comunitario.

 

In primo luogo, la crisi degli arabi sunniti d’Iraq, in termini di costruzione d’istituzioni politiche e religiose, non è un gioco a somma zero che si sia concluso dopo il 2003 con la sconfitta contro la maggioranza sciita, quanto una partita tra gli stessi sunniti arabi iracheni, divisi tra diverse istituzioni religiose o partiti politici. In secondo luogo, l’etichetta “arabi sunniti d’Iraq” quale categoria confessionale non tiene conto della presenza di islamisti sunniti negli altri gruppi etnici, come i partiti islamisti curdi, tra cui l’Unione Islamica del Kurdistan, o i turcomanni iracheni che sono emersi tra le fila dell’ISIS.

 

 

Il collasso di un sistema

 

Dopo il crollo del governo baathista, dominato dall’elemento arabo-sunnita, questo segmento della popolazione irachena è precipitato in un vuoto sociale, religioso e politico privo di qualsiasi leadership unitaria. Alcuni si sono schierati con i leader tribali, altri con i partiti islamisti che stavano iniziando a emergere lentamente, mentre altri ancora si sono legati ai ribelli islamisti sunniti. Dopo il 2003 è nata tutta una serie di partiti, associazioni e coalizioni che hanno fatto a gara nel presentarsi come portavoce delle aspirazioni sunnite, soprattutto i partiti islamisti. Il Partito Islamico Iracheno (IIP) si è sviluppato nel solco della Fratellanza musulmana in Iraq, che il governo baathista aveva costretto alla clandestinità, obbligando i suoi leader, tra i quali Muhsin ‘Abd al-Hamīd e Tāriq al-Hāshimī, a cercare rifugio a Londra. Dopo il 2005 al-Hāshimī è diventato uno dei due vicepresidenti iracheni, nel contesto dell’oscillazione tra la partecipazione alla politica post-bellica e il boicottaggio del processo di transizione in segno di protesta contro le azioni militari americane, in particolare a Falluja nel 2004.

 

Il Congresso Generale dei Sunniti Iracheni (al-Mu’tamar al-‘āmm li-Ahl al-Sunna fī-l-‘Irāq), guidato da ‘Adnān al-Dulaymī, è stato uno dei primi gruppi ad adottare il termine “sunnita” nella sua denominazione, per poi assumere il nome più inclusivo di Congresso Generale del Dialogo. L’Associazione degli Ulema Musulmani, fondata dai fratelli Muthannā e Hārith al-Dārī, ha rappresentato invece un’organizzazione politico-religiosa ibrida. Queste formazioni hanno poi formato al-Tawāfuq (il Fronte dell’accordo) prima delle elezioni del dicembre 2005, coalizzandosi attorno a un programma pensato per promuovere gli interessi degli arabi sunniti d’Iraq.

 

Se i partiti sunniti islamisti si sono costituiti relativamente presto dopo la caduta del Baath, la denominazione di “Fronte dell’accordo” che si sono attribuiti è stata però smentita dai fatti per tutto il decennio successivo al 2003: lo schieramento è infatti finito preda della discordia ed è crollato a causa di rivalità personali. Anziché unire, questi politici hanno iniziato a essere visti come una nuova classe di politicanti di mestiere, ossessionati dal mantenimento del potere e indifferenti ai bisogni dei loro elettori.

 

Lo hanno dimostrato con chiarezza le proteste del 2013, quando gli iracheni arabi sunniti hanno espresso la loro delusione manifestando nelle città di Falluja e Ramadi nella provincia di Anbar, a Mosul nel governatorato di Ninive, e ad Hawija vicino a Kirkuk. Le proteste sono nate in risposta all’arresto delle guardie del corpo di un politico iracheno arabo sunnita, Rafi‘ al-‘Īssāwī, che in quel momento era ministro delle Finanze, da parte dell’allora primo ministro Nuri al-Maliki, dopo che nel 2011 era già stato emesso un mandato di cattura nei confronti di Tāriq al-Hāshimī. Al-Maliki aveva accusato entrambi gli esponenti di legami con “gruppi terroristici”, un eufemismo per indicare gli insorti[3].

 

Gli arabi sunniti tuttavia non hanno protestato per fedeltà alla classe politica araba sunnita. Quando i politici arabi sunniti hanno visitato i luoghi della protesta sono stati presi di mira dai manifestanti, che li hanno accusati di non rappresentare i loro interessi. I manifestanti denunciavano in particolare un esecutivo controllato dagli sciiti e la discriminazione subita dai politici arabi sunniti, che essi percepivano come una conseguenza della perdita sistematica di potere da parte della loro comunità. Quegli arresti hanno generato ulteriori richieste di riforma di un ordine politico che rispondesse alle loro rivendicazioni, consentisse loro di partecipare al governo e offrisse opportunità di lavoro. In quel frangente, i manifestanti si sono ispirati alla rivolta contro il governo sciita alawita in Siria. A Ramadi un dimostrante per esempio ha dichiarato:

 

Noi e i siriani combattiamo la stessa battaglia. I nostri governi sono entrambi molto vicini a Teheran, e noi ci opponiamo entrambi ai piani iraniani nella regione. L’Iran vuole trasformare Baghdad e Damasco in sue province e formare un asse sciita che si estenda da Teheran al Mar Mediterraneo[4].

 

Quando la rivolta siriana del 2011 è degenerata in guerra civile, lo Stato siriano infatti non è più stato percepito dai sunniti iracheni come uno Stato veramente baathista, ma come un regime sciita “alawita” re-immaginato, al pari del regime sciita in Iraq. Nonostante le differenze dottrinali tra l’alawismo siriano e lo Sciismo jaafarita, i governi di Bashar al-Assad e Nuri al-Maliki sono stati perciò sovrapposti dai sunniti iracheni in un unico asse di regimi sciiti repressivi.

 

Ahmad al-‘Alwānī, un membro dell’IIP, ha sfruttato le proteste per denunciare l’influenza iraniana nello Stato iracheno[5], invocando spesso il termine dispregiativo “safavide” per descrivere il governo di al-Maliki – un riferimento alla dinastia turco-persiana che nel Cinquecento convertì l’intero Iran allo Sciismo e successivamente contestò all’Impero ottomano il controllo dell’Iraq[6]. Alcuni dei manifestanti scesi in piazza mostravano immagini del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan[7], uno dei primi sostenitori della Primavera araba in Egitto, Libia e Siria, considerato un leader sunnita con un potenziale egemonico capace di contrastare l’Iran nella regione e in Iraq, simbolo di un pan-sunnismo iracheno che trascendeva la distinzione etnica tra arabi e turchi di fronte alla minaccia persiano-sciita.

 

Nel 2013 si era dunque già sviluppato un vago senso di identità sunnita irachena, che però non si era ancora tradotto in un’unità politica neppure all’interno del gruppo. Semmai, il Sunnismo arabo iracheno è un caso esemplificativo di ciò che Marina Calculli chiama “securitizzazione delle identità”, un processo sociale transnazionale utilizzato dalle élite politiche per mobilitare l’elettorato in una guerra per procura che si sostituisce allo scontro militare diretto[8]. Questo processo riconcilia discorsivamente le dissonanze tra gli attori sunniti in nome di un immaginario pan-sunnita, come fanno gli islamisti sunniti iracheni anche quando perseguono nei fatti politiche che minano l’unità confessionale. In questo senso si può dire che all’indomani delle rivolte del 2013 questi politici abbiano “securitizzato” un’identità sunnita al fine di rafforzare la propria legittimità nazionale e transnazionale, pur sapendo che il pan-sunnismo non era il motore principale delle loro scelte di politica interna, dettate piuttosto da preoccupazioni politiche reali e da rivalità di potere.

 

 

L’ISIS, sintomo di un fallimento

 

L’ISIS è un sintomo del fallimento dello sviluppo istituzionale nella politica irachena arabo-sunnita. Nel vuoto lasciato da quest’ultima, essa ha reclutato iracheni arabo-sunniti scontenti, tra cui i suoi leader, molti dei quali erano ex-militari di carriera e ufficiali dei servizi segreti sotto Saddam Hussein: tutte figure piuttosto oscure, come Abū Bakr al-Baghdādī, l’auto-proclamato califfo dell’ISIS.

 

Al-Baghdādī è nato nel 1971 a Samarra, come indica il suo nome originale Ibrāhīm ‘Awwād Ibrāhīm ‘Alī al-Badrī al-Sāmarrā’ī. Il padre era un imam della moschea Ahmad Ibn Hanbal della città. Negli anni della campagna di promozione della fede di Saddam, periodo in cui, dopo la guerra del Golfo del 1991, lo Stato favorì una maggiore visibilità dell’Islam nella sfera pubblica, al-Baghdādī si era iscritto alla neonata Università islamica dell’Iraq a Baghdad. Durante i suoi studi fu introdotto agli scritti dei Fratelli musulmani, ma nel 2003, durante l’insurrezione irachena, gravitava già verso il salafismo. Sembra che abbia conseguito la laurea in studi islamici presso la stessa università e avesse intenzione di continuare con il dottorato quando, nel 2004, è stato arrestato mentre stava rendendo visita a un amico affiliato ad al-Qaida in Iraq (AQI)[9].

 

In quel momento al-Baghdādī non era ancora membro dell’organizzazione, ma è stato comunque trattenuto nel carcere di Camp Bucca, una struttura di detenzione nel deserto vicino al confine con il Kuwait. A Camp Bucca al-Baghdādī guidava le preghiere e teneva i sermoni del venerdì ed è entrato in contatto con Hajjī Bakr, il nome di guerra di Samīr al-Khalīfāwī, con Abū Muhannad al-Suwaydāwī e con Abū Ahmad al-‘Alwānī, tutti ex-ufficiali dell’epoca di Saddam entrati nelle fila di AQI. È probabilmente in questo periodo che al-Baghdādī ha abbracciato l’ideologia di AQI e ampliato le reti del gruppo in prigione. Secondo la biografia diffusa dall’ISIS, al-Baghdādī è stato rilasciato nel dicembre 2004 dopo meno di un anno di carcere e ha poi completato il dottorato in Sharī‘a all’Università islamica[10].

 

Quando nel giugno del 2006 il leader di AQI Abū Mus‘ab al-Zarqāwī fu ucciso in un bombardamento, gli succedette Abū Ayyūb al-Masrī, un fabbricante di bombe egiziano. Quest’ultimo, capendo che un iracheno avrebbe dovuto assumere un ruolo di leadership, promosse Abū ‘Umar al-Baghdādī a leader del neo-dichiarato Stato Islamico dell’Iraq (ISI), pensato evidentemente come organizzazione ombrello di gruppi iracheni ribelli. Abū Bakr ha rapidamente conquistato la fiducia di Abū ‘Umar al-Baghdādī e ha scalato la gerarchia fino a raggiungere il Consiglio consultivo dei mujāhidīn, composto da nove uomini, il massimo organo esecutivo e decisionale del gruppo. Sia al-Masrī che Abū ‘Umar sono stati uccisi nell’aprile 2010 in un raid congiunto tra forze statunitensi e irachene vicino a Tikrit[11]. Hajjī Bakr, l’ex ufficiale dell’epoca di Saddam che nel frattempo era stato rilasciato da Camp Bucca, ha allora appoggiato Abū Bakr quale nuovo emiro di AQI, cercando evidentemente qualcuno con le credenziali religiose necessarie ad assumere la guida spirituale.

 

Quando Abū Bakr al-Baghdādī è diventato leader di AQI/ISI, il gruppo, fondato da non iracheni e foreign fighters, era già stato trasformato dal suo predecessore Abū ‘Umar e da Hajjī Bakr. Entrambi provenivano dalla vecchia guardia del governo di Saddam Hussein e avevano iniziato una scalata graduale alla leadership. A partire dal 2014, la struttura di comando dell’ISIS ha così visto una prevalenza di iracheni nelle posizioni dirigenziali, tra cui ufficiali veterani dell’epoca del governo baathista[12]. Come si desume dai loro cognomi, la maggior parte dei leader dell’ISIS erano iracheni arabi sunniti e turcomanni con alle spalle carriere militari o legate alla sicurezza[13], buona parte dei quali aveva raggiunto il grado di colonnello e prestato servizio nell’aviazione o nell’intelligence militare. Per esempio, un membro del Consiglio consultivo, Abū Muslim al-‘Afarī al-Turkmānī, incarcerato a Camp Bucca, aveva lavorato nei servizi segreti dell’esercito e nelle forze speciali in epoca baathista. Un altro membro del Consiglio, Abū Ayman al-‘Irāqī, anch’esso detenuto nello stesso campo, aveva lavorato in una delle numerose agenzie di intelligence di Saddam. Ad eccezione di al-Baghdādī, nessuno dei leader dell’ISIS aveva alle spalle una carriera religiosa. Se nel 1958 un informe e controverso gruppo di colonnelli, noto come Ufficiali Liberi, aveva organizzato un colpo di Stato a Baghdad in nome del nazionalismo laico arabo e/o iracheno, nel 2014 sono stati questi “ex-ufficiali” che avevano raggiunto il grado di colonnello nelle forze di sicurezza a riconfigurare l’Iraq e la regione riportando in auge il Califfato.

 

 

Il ritorno degli ex-ufficiali

 

Se avessero scalato la gerarchia durante l’epoca di Saddam, questi militari avrebbero professato il secolarismo del partito Baath. Certo, alcuni degli ex-ufficiali entrati nelle fila dell’ISIS erano veri “musulmani sunniti reborn”, che avevano riscoperto la fede durante la campagna per la fede lanciata da Saddam negli anni ’90[14]. Altri tra i suoi leader, probabilmente, erano diventati più credenti dopo il 2003, durante la detenzione a Camp Bucca e avevano aderito sinceramente alla visione religiosa dell’ISIS[15]. Altri, forse, hanno cercato cinicamente di manipolare il potere della fede[16]. Dal punto di vista della ragion di Stato, gli ex ufficiali hanno evidentemente sfruttato la facciata salafita dell’ISIS per garantirsi un seguito religioso tra i combattenti siriani e iracheni, oltre che dei foreign fighters provenienti dall’Europa e dal Medio Oriente.

 

Dopo il 2003 questi ufficiali della sicurezza hanno coordinato le loro attività con altri gruppi di ribelli iracheni, si sono organizzati durante i periodi di detenzione, o hanno agito come individui isolati prima di unirsi all’ISIS. Indipendentemente dalle scelte concrete, resta il fatto che il contesto post-2003 offriva loro poche possibilità di dar vita a un’organizzazione politica capace di mobilitare sostenitori per ritornare in politica. Il baathismo della vecchia guardia irachena deposta non era assolutamente in grado d’ispirare una mobilitazione di massa. Per riconquistare il potere perduto, gli ex-ufficiali iracheni dell’ISIS hanno quindi fatto appello alla popolazione araba sunnita che aveva perso il lavoro e le prospettive per il futuro dopo che le forze armate erano state sciolte dall’Autorità Provvisoria della Coalizione o a cui era stato negato l’impiego a causa delle successive politiche di de-baathificazione.

 

L’ISIS e il suo jihadismo salafita rappresenterebbero quindi una scelta razionale in termini di ideologia religiosa per riconquistare il potere, in quanto capace di mobilitare combattenti sunniti sia in Iraq che in Siria contro Stati governati dagli sciiti. L’anti-sciismo presente nel salafismo dell’ISIS ha funto da potente attivatore delle comunità locali e dei sunniti residenti fuori dall’Iraq e dalla Siria contro i governi sciiti di Assad a Damasco e al-Maliki a Baghdad. A loro volta questi volontari religiosi hanno agito nell’interesse degli ex-ufficiali, consentendo alla leadership irachena di conquistare territori e formare un anti-Stato contro i governi iracheno e siriano. L’ISIS e i suoi comandanti iracheni hanno abilmente sfruttato le energie e la devozione dei sunniti locali e di un’ala sunnita transnazionale che avevano subito le conseguenze dei pesanti combattimenti ed erano decisi a morire in operazioni suicide.

 

Quanto agli ex-ufficiali, sia singolarmente che come gruppo devono aver pensato che recuperare il controllo dell’intero Iraq, tornando alla situazione precedente al 2003, fosse impossibile, dato che le élite politiche sciite e curde erano riuscite a consolidare il proprio potere sui rispettivi governi di Baghdad e Erbil. Mentre infatti la maggior parte dei gruppi ribelli è collassata dopo il “surge” del 2008, compresi quelli che combattevano in nome dell’ex-regime o del nazionalismo iracheno, l’ISIS è sopravvissuto[17] anche dopo la morte del suo fondatore, al-Zarqāwī.

 

Nello scenario post-2008 l’ISIS si è rivelato il mezzo più adatto per consentire a questi ex-ufficiali di riaffermare il loro potere nelle aree irachene dalle quali provenivano, come Mosul, Ramadi, Falluja, Rawa, Hit, Tal ‘Afar e Tikrit[18]. Alcuni ex-ufficiali si erano uniti a un altro gruppo ribelle, Jaysh rijāl al-tarīqa al-naqshbandiyya (Gli uomini della confraternita naqshbandiyya), guidato dall’ultimo ufficiale di alto rango dell’era di Saddam, ‘Izzat al-Dūrī. Questo gruppo però non offriva lo stesso potenziale dell’ISIS. L’insurrezione di al-Dūrī, che combinava il sufismo con un nazionalismo sunnita iracheno, non è infatti riuscita a mobilitare lo stesso numero di combattenti dell’ISIS.

 

Attraverso l’ISIS gli ex ufficiali della precedente élite irachena hanno conquistato e governato un vasto territorio arabo sunnita tra i due fiumi, l’alto Eufrate e il Tigri, che a nord di Baghdad divergono per creare una lingua di terra storicamente nota come al-Jazīra, una penisola racchiusa tra queste due arterie d’acqua. Hanno perso il controllo dell’area corrispondente alla Mezzaluna fertile inferiore, ma hanno creato un nuovo Stato nella parte superiore della Mezzaluna fertile, durato fino alla fine del 2017 quando esso è stato espulso della maggior parte dei grandi centri urbani in Iraq e in Siria.

 

Anche se l’ISIS è stato distrutto militarmente, per gli arabi sunniti iracheni continuano a mancare alternative istituzionali. Questo dilemma è ulteriormente aggravato dal fatto che molti giovani, in particolare quelli meno istruiti, sono stati spesso reclutati dall’ISIS. Di conseguenza, buona parte di questa generazione non è stata solo “militarizzata”, ma anche “confessionalizzata”. L’ISIS ha offerto loro una retribuzione, ma anche benefici meno tangibili, come un senso di forza e appartenenza, un sostituto a una famiglia sfilacciata e a legami sociali deboli. Questa evoluzione ha rafforzato l’identità confessionale e pone oggi il problema della futura smobilitazione e reintegrazione. Inoltre, nel contesto immediatamente successivo all’ISIS, si sono verificati fin da subito rappresaglie da parte di alcune tribù arabe sunnite, ricorse alla giustizia fai-da-te per punire altri sunniti arabi che avevano collaborato con l’ISIS[19].

 

 

I problemi sul tappeto

 

Le elezioni parlamentari del maggio 2018 sono state il primo referendum nazionale dalla sconfitta dell’ISIS, eppure le divisioni arabo-sunnite persistono. Il blocco arabo-sunnita più grande fra quelli candidati alle elezioni, i Muttahidūn, ha sfidato i partiti minori, che hanno scelto di correre separatamente. L’unico punto programmatico sul quale tutti i sunniti si sono trovati d’accordo è stata la richiesta di un rinvio delle elezioni per dare agli sfollati interni il tempo necessario di tornare alle loro case. Secondo le stime, infatti, alla fine del 2017 2,6 milioni di persone erano ancora sfollate all’interno del Paese, la maggior parte delle quali elettori arabi sunniti[20]. Il rinvio è stato respinto dalla Corte suprema e dal Primo Ministro in carica, Haydar al-‘Abadi, dal momento che le elezioni erano già state rimandate dalla data originariamente prevista del settembre 2017 a causa dei combattimenti con l’ISIS. Indipendentemente dal risultato ottenuto dai partiti arabo-sunniti iracheni alle elezioni, i problemi che affliggono questa parte della popolazione sono drammatici.

 

Quello più vero e urgente è trovare leader religiosi e politici in grado di affrontare “le questioni legate alla sicurezza militare”, cioè garantire la sicurezza nei centri urbani oggi minacciata dai reduci dell’ISIS, e “le questioni legate alla sicurezza delle persone”, ovvero prendersi cura degli sfollati dopo la guerra. A questo proposito, la speranza più affidabile per gli iracheni arabi sunniti nell’attuale scenario post-bellico sono i gruppi più decentralizzati della società civile, tra cui le tribù arabo-sunnite. Sono loro che potranno contribuire a risollevare questa parte della popolazione.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

1 Fanar Haddad, Sectarianism in Iraq: Antagonistic Visions of Unity, Hurst & Co., New York & London 2011.

2 Paul Iddon, Peshmerga Commander: We are planning for future operations against ISIS, «Rudaw», 2 aprile 2016, https://bit.ly/2qEhvdj

3 Harith Hasan Al‐Qarawee, Sectarian Relations and SocioPolitical Conflict in Iraq, «ISPI Analysis» 200, settembre 2013, p. 13

4 International Crisis Group (ICG), Syria’s Metastasizing Conflicts, «Middle East Report» 143, 27 giugno 2013, p. 12.

5 Ali Abel Sadah, Ahmad Al-‘Alwānī: Za‘īm rādīkālī li-sunnat al-Anbār [Ahmed Al-‘Alwani: Radical leader of the Sunnis of al-Anbar], «Al-Monitor», 1° ottobre 2013, https://bit.ly/2HLLPu9

6 Ali Mamouri, Don Quixote mā zāl yuhārib tawāhin al-hawā’…fī l-‘Irāq [Don Quixote continues to attack windmills in Iraq], «Al-Monitor», 26 gennaio 2014, https://bit.ly/2qDoPG3

7 Ranj Alaaldin, Iraq’s Sunni Spring, 8 gennaio 2013, https://bit.ly/2J1Tnbm

8 Marina Calculli, Middle East Security: Conflict and Securitization of Identities in Louisa Fawcett (a cura di), International Relations of the Middle East, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 219-235.

9 Ali Hashim, Al-asmā’ al-muta‘addida allatī yahmiluhā Abū Bakr al-Baghdādī [The Many Names that Abu Bakr Al-Baghdadi Carries], 23 marzo 2015, https://bit.ly/2J3Wa3T

10 Ibid.

11 Ibid.

12 Sarah Childress, Who Runs the Islamic State?, «PBS», 28 ottobre 2014.

13 Most of Islamic State’s Leaders Were Officers in Saddam Hussein’s Iraq, «Washington Post», 4 aprile 2015.

14 Liz Sly, The Hidden Hand behind the Islamic State Militants? Saddam Hussein’s, «Washington Post», 4 aprile 2015. 

15 Terrence McCoy, Camp Bucca: The US Prison that Became the Birthplace of Isis: Nine Members of the Islamic State’s Top Command Did Time at Bucca, «The Independent», 4 novembre 2014.

16 Sul dibattito sulla religiosità di ISIS si veda Samuel Helfont e Michael Brill, Saddam’s ISIS? The Terrorist Group’s Real Origin Story, «Foreign Affairs», 12 gennaio 2016, e Amatzia Baram, Saddam’s ISIS: Tracing the Roots of the Caliphate, «Foreign Affairs», 8 aprile 2016.

17 Islamic State, «Mapping Militant Organizations», Stanford University, 4 aprile 2016, https://stanford.io/2HGmiSZ

18 Si veda Ibrahim Al-Marashi e Sammy Salama, Iraq’s Armed Forces: An Analytical History, Routledge, London and New York 2008.

19 Vera Mironova e Mohammed Hussein, Iraq after ISIS: Why More Fighting May Be in Store, «Foreign Affairs», 3 novembre 2016, https://fam.ag/2g8ffIw

20 Ibrahim Al-Marashi, Iraq Elections: A Very Divided Political Landscape, «Middle East Eye», 5 febbraio 2018, https://bit.ly/2scAoHp

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ibrahim Al-Marashi, Ma esiste davvero un “Sunnistan” iracheno?, «Oasis», anno XIV, n. 27, luglio 2018, pp. 79-88.

 

Riferimento al formato digitale:

Ibrahim Al-Marashi, Ma esiste davvero un “Sunnistan” iracheno?, «Oasis» [online], pubblicato il 4 settembre 2018, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/musulmani-sunniti-isis-iraq.

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