Durante la guerra in Iraq le sue milizie sono state tra le più spietate oppositrici dell’esercito americano e hanno contribuito a inasprire le tensioni settarie. Oggi, il religioso sciita si è reinventato guida di proteste che chiedono la fine della corruzione e riforme

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:33

Muqtada_al-Sadr.jpgEra il leader di una delle più sanguinose milizie durante la guerra in Iraq, oggi Muqtada al-Sadr è alla testa di un movimento che porta in piazza migliaia di persone. Con toni populisti, chiede la fine della corruzione del governo del premier sciita Haider al-Abadi, e riforme. [E lo ha sconfitto alle elezioni in Iraq del 12 maggio 2018]. I manifestanti che per settimane hanno protestato attorno alla Green Zone, cuore di Baghdad e simbolo per molti iracheni della ricchezza e corruzione dei politici, protetta da alti muri di cemento e da metri di filo spinato, hanno fatto poche settimane fa irruzione nel Parlamento, a maggioranza sciita.

Muqtada al-Sadr rappresenta uno degli attori più rilevanti e complessi del panorama iracheno dopo l’invasione americana nel 2003. Membro di una delle più importanti dinastie sciite del Paese (è figlio del grande ayatollah Muhammad Muhammad Sadiq al-Sadr, assassinato nel 1999, e genero del grande ayatollah Muhammad Baqir al-Sadr, ucciso nel 1980), al-Sadr ha mostrato in questi anni una personalità poliedrica, tanto che è impossibile dare della sua figura una rappresentazione univoca. Agitatore politico dotato di un massiccio seguito soprattutto tra gli strati più poveri della popolazione sciita irachena, eppure strenuo sostenitore di un Iraq libero da corruzione, clientelismi e logiche settarie; esponente del clero sciita ma non per questo necessariamente allineato alle posizioni espresse dalla hawza [scuola] di Najaf o da quella di Qom, in Iran; (ex) guida dell’esercito del Mahdi, conosciuto per le azioni brutali condotte nell’ambito della guerra civile irachena, ma anche leader nazionalista che non ha esitato a sostenere pubblicamente la causa dei manifestanti (in gran parte arabo-sunniti) che nel 2013 paralizzarono l’intero Iraq centro-occidentale in aperta opposizione alle politiche settarie adottate dall’ex primo ministro sciita Nuri al-Maliki. E ancora, feroce oppositore dell’influenza statunitense in Iraq (e, in quanto tale, vicino agli interessi della Repubblica islamica dell’Iran), ma non per questo prono ai desiderata di Teheran, con la quale si è trovato più volte in forte opposizione; punto di riferimento del blocco al-Ahrar eppure esterno al sistema politico a causa di un auto-imposto “esilio” proclamato nel 2014[1].

Al-Sadr è tutto questo, e gli eventi delle ultime settimane non hanno fatto che confermare questa natura apparentemente schizofrenica. Eppure, dietro questa immagine di “cavallo pazzo” della politica irachena, si celano interessi e obiettivi ben definiti che il religioso sciita ha perseguito sin dai suoi esordi quando, giovanissimo, si presentò per raccogliere l’eredità del padre e divenire un punto di riferimento per l’intero sistema iracheno. È in quest’ottica che va letta la sua azione volta a trasformare il network di fondazioni e attività caritative “di famiglia” in uno strumento di pressione in grado di influenzare in maniera significativa l’establishment politico, grazie anche al notevole seguito detenuto nella capitale e in particolare nella cosiddetta Sadr City, sua roccaforte.

Questo evidente punto di forza ha rappresentato, però, anche un limite. Il suo presentarsi come campione dei poveri e dei diseredati, unito alla giovane età, a un passato burrascoso e a uno stile tutt’altro che moderato, ha circoscritto il suo appeal all’interno di una fascia sociale ben definita, impedendogli di far risuonare il proprio messaggio tra la borghesia religiosa e buona parte della classe media. Per liberarsi di queste costrizioni, al-Sadr ha avviato un processo di ridefinizione della propria immagine volto a trasformarlo da figura di spicco della comunità sciita a leader dotato di credenziali “nazionali”. O, quantomeno, di una proiezione non limitata alla sua sola comunità. È in quest’ottica che vanno letti tanto il sostegno ai movimenti di protesta del 2013 (espressione chiara, sebbene sottovalutata dall’amministrazione irachena e dalla comunità internazionale, della montante opposizione che si andava formando all’interno della comunità arabo-sunnita) quanto i tentativi registrati nello stesso anno di avvicinare i principali movimenti curdo-iracheni in funzione anti al-Maliki[2].

Lungi dal limitare le sue manovre alla sola classe politica, al-Sadr ha puntato con forza a presentarsi come uno dei pochi leader estranei a scandali e non coinvolti nelle manovre politiche che tanto discredito hanno portato alle istituzioni del Paese. In questo modo è riuscito a intercettare il vasto dissenso coagulatosi in maniera trasversale all’interno della società irachena e a sfruttare la rabbia popolare generata dalla cattiva gestione della res publica e dalla corruzione che ha investito il nuovo Iraq su tutti i livelli.

È in questa prospettiva che si pongono le recenti mosse di al-Sadr, che sembra voler cavalcare il malcontento popolare per perseguire le sue aspirazioni politiche. Malcontento che si è tradotto, già a partire dall’estate scorsa [2015, ndr], in una serie di manifestazioni che hanno registrato un crescente attivismo dei sadristi. Da un punto di vista più istituzionale, al-Sadr sembra mirare al superamento del “quota system” che, dalla caduta dell’ex presidente Saddam Hussein, ha di fatto allocato le diverse posizioni su base etno-settaria, e alla formazione di una compagine di governo più snella e composta da tecnici super partes.

Sul piano politico, invece, l’obiettivo non dichiarato è quello di “oscurare” gli altri grandi attori del panorama iracheno. Nuri al-Maliki su tutti, ma anche, paradossalmente, lo stesso al-‘Abadi, che il religioso sciita ha a più riprese dichiarato di sostenere. Il 16 aprile 2016, al-Sadr ha lanciato al Parlamento un ultimatum di 72 ore per nominare il nuovo governo. La scelta di procedere a un rimpasto parziale con il cambio di sei ministri non è stata però ritenuta soddisfacente dal religioso, che non ha esitato a ordinare ai suoi sostenitori di irrompere nella Green Zone e occupare il Parlamento. L’atto ha fortissimi connotati simbolici e importanti implicazioni anche sul piano della sicurezza e delle relazioni interne e internazionali, dato che l’area ospita non soltanto le principali istituzioni irachene ma anche molte sedi diplomatiche.

Per la prima volta nella storia del “nuovo Iraq” la zona internazionale[3] è stata violata e migliaia di cittadini sono entrati in un’area divenuta espressione dei privilegi detenuti da una classe dirigente accusata di corruzione e negligenza. Sebbene la mossa abbia aumentato, almeno nell’immediato, la popolarità di al-Sadr, ha rinnovato i dubbi sulla sua responsabilità sia all’interno del sistema politico iracheno sia a livello internazionale, evidenziando ancora una volta l’opacità e le molteplici sfaccettature di un leader che sfugge a qualsiasi classificazione. E che sembra incarnare perfettamente il mito di Giano bifronte.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note

[1] Andrea Plebani, Muqtada al-Sadr and his February 2014 Declarations. Political Disengagement or Simple Repositioning?, ISPI Analysis (244), Aprile 2014.

[2] Toby Dodge, Iraq: from War to a New Authoritarianism, Routledge, London 2013, pp. 434-435.

[3] Altro nome col quale era chiamata ai tempi della presenza delle forze della coalizione la green zone.

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