A capo della hawza di Najaf, ‘Ali al-Sistani ha lavorato per garantire l’integrità dell’Iraq e limitare l’influenza della rivale Qom (Iran). Ma l’età avanzata e le condizioni di salute pongono grossi interrogativi sul futuro, con ripercussioni sugli equilibri interni e regionali

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:27

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A distanza di pochi anni dalla sconfitta del sedicente “Stato Islamico” (IS), l’Iraq si trova a far fronte a una serie di crisi che rischiano di avere ripercussioni profonde sul futuro del Paese. Oltre a dover fare i conti con un processo di ricostruzione complesso e con le eredità di una stagione di violenza che ha investito intere province, Baghdad ha dovuto fronteggiare un’intensificazione della competizione geopolitica regionale che pare aver eletto la terra dei due fiumi a proprio campo di battaglia privilegiato, come dimostrato dai tragici eventi culminati nell’uccisione del Generale Qassem Suleimani e dagli attacchi missilistici lanciati da Teheran contro forze americane dislocate nel Paese.

 

Le sfide, però, non vengono solo dall’esterno. Da oltre sei mesi migliaia di manifestanti paralizzano le maggiori città dell’Iraq centro-meridionale, chiedendo il completo rinnovamento del sistema politico-istituzionale e la fine di una corruzione ormai dilagante. In questo contesto caratterizzato da una profonda crisi istituzionale, ancora una volta gli occhi degli osservatori interni ed esterni sono rivolti alla massima autorità sciita irachena, il Grande Ayatollah ‘Ali al-Sistani. Per quanto manifestamente ostile alle ingerenze dell’establishment religioso in ambito politico, il marja‘ al-taqlīd (fonte d’imitazione, NdR) ha giocato negli ultimi decenni un ruolo di primo piano, tanto da finire per essere considerato come una sorta di deus ex machina capace di imprimere svolte significative a impasse apparentemente senza via di uscita e di superare linee di divisione profonde e sedimentate. Esempi significativi, in tal senso, sono stati gli appelli rivolti dai manifestanti all’anziano leader, considerato tra i pochi in grado di sostenere le loro istanze, così come le dimissioni del premier Adil Abdul Mahdi, avvenute a poche ore dalla presa di posizione netta del religioso a favore di un cambio di direzione.

 

Eppure, quella che potrebbe apparire come una costante del sistema iracheno, vale a dire il peso specifico della componente sciita, da un punto di vista storico rappresenta una anomalia che sottolinea ancor di più l’importanza della posizione assunta da al-Sistani in questi anni. Fino al 2003, infatti, il rapporto esistente tra le leadership al potere e le massime autorità sciite è stato segnato dalla sottomissione delle seconde alle prime e da una forte contrapposizione: per Baghdad, le guide delle ‘atabat (i luoghi santi sciiti, NdR) rappresentavano centri di potere alternativi potenzialmente in grado di minare la sua presa sul territorio; per le guide religiose sciite, invece, i dirigenti politici erano considerati intrinsecamente ostili, oltre che in larga misura illegittimi[1].

 

 

‘Ali al-Sistani tra quietismo politico, influenza interna e difesa della propria indipendenza

 

Tre anni fa le forze armate irachene si apprestavano a porre fine alla presa del sedicente Stato Islamico su Mosul e a completare la liberazione del Paese dal giogo degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. L’eliminazione delle ultime sacche di resistenza jihadista concludeva una crisi che, oltre a mietere centinaia di migliaia di vittime e a investire le vite di milioni di cittadini iracheni, aveva messo a dura prova le fondamenta stesse del “nuovo Iraq” sorto sulle ceneri del regime di Saddam Hussein. Cruciale per arrestare l’offensiva jihadista e invertire le sorti del conflitto si era rivelato il contributo di un attore formalmente esterno al sistema politico iracheno: il grande ayatollah ‘Ali al-Sistani, esponente di punta della Hawza di Najaf e riferimento per milioni di fedeli sciiti tanto all’interno quanto all’esterno della terra dei due fiumi. Di fronte allo sfaldamento delle forze di sicurezza, all’incapacità della classe dirigente di superare le proprie rivalità e alle agende contrapposte dei principali alleati (regionali e internazionali), al-Sistani si era erto a punto di riferimento per l’intero Iraq, chiamando tutti i cittadini, a prescindere della loro appartenenza etnico-confessionale, a superare le divisioni interne e a imbracciare le armi a difesa della nazione. L’appello venne raccolto da decine di migliaia di volontari che, sotto le insegne dello Hashd al-Sha‘bi (Unità di Mobilitazione Popolare - PMU), giocarono un ruolo fondamentale nell’arrestare l’offensiva di IS e nella sua successiva sconfitta[2].

 

Per quanto fedele a un’impostazione quietista, l’influenza del marja‘ al-taqlīd sul campo plitico iracheno si era inoltre palesata all’inizio del 2014, quando la sua opposizione alla conferma alla guida dell’esecutivo di Nuri al-Maliki (fatta trapelare ben prima dei tragici fatti di Mosul) si era rivelata fondamentale per l’allontanamento di questi (che pure aveva vinto le elezioni tenutesi nel marzo dello stesso anno) e per la nomina a premier di Haider al-‘Abadi. A tal proposito, è interessante notare come le posizioni di al-Sistani fossero diametralmente opposte a quelle della classe dirigente iraniana, che considerava il premier uscente un proprio partner privilegiato.

 

Non sarebbe stato questo l’unico caso di disallineamento tra Najaf, Teheran e Qom: a dispetto delle proprie origini persiane, la linea tenuta dal al-Sistani sul piano (geo)politico e religioso è sempre stata improntata a una strenua difesa della propria indipendenza e alla protezione degli interessi del sistema Iraq. Questi fattori, uniti all’età avanzata del Grande Ayatollah (nato nel 1930), sarebbero stati alla base dei tentativi iraniani di influire sulle dinamiche di potere interne alla Hawza irachena, in modo da poter operare da posizioni di forza una volta iniziata la competizione per la successione.

 

Simili considerazioni hanno mosso le azioni di al-Sistani nei confronti di Washington. Per quanto grato agli Stati Uniti per il contributo fornito nella lotta a Saddam Hussein, il leader religioso si è sempre opposto con fermezza alle loro ingerenze nelle vicende irachene. Nei convulsi mesi successivi alla caduta del regime ba‘thista, la ferma opposizione del Grande Ayatollah alla prosecuzione dell’esperienza della Coalition Provisional Authority (CPA) alla guida del Paese e la sua pressante richiesta di indire nuove elezioni si era rivelata fondamentale per favorire il passaggio di consegne tra l’Ambasciatore Paul Bremer III e il governo ad interim di Iyad Allawi. E questo nonostante Bremer potesse contare sulla presenza di un contingente di oltre centomila uomini stanziati sull’intero territorio e, almeno in una prima fase, sul pieno appoggio della Casa Bianca.

 

Equidistanza, salvaguardia della propria autonomia e ostilità nei confronti di qualsiasi processo di frammentazione del sistema iracheno avrebbero finito col caratterizzare anche la postura del Grande Ayatollah sul piano interno, soprattutto in relazione alle complesse dinamiche intra-sciite. Il religioso fu, infatti, tra i principali artefici della grande coalizione sciita (l’Alleanza dell’Iraq Unito – UIA) che ottenne il maggior numero di preferenze alle elezioni del gennaio e del dicembre 2005. Altrettanto significativi si sarebbero dimostrati gli appelli volti a non rispondere con le armi alla stagione stragista lanciata dalle formazioni più estreme dell’insurrezione sunnita. Una posizione, questa, che gli valse non pochi attacchi da parte delle ali più radicali della componente sciita, ma che riuscì a rallentare l’escalation di violenze registrata in seguito agli attentati del 2006 contro il santuario di Samarra[3].

 

 

Le incognite del dopo-Sistani

 

Nonostante la finestra di opportunità rappresentata dalla sconfitta del sedicente Stato Islamico, l’Iraq si trova ancora una volta avvitato in una spirale di instabilità alimentata da una crisi istituzionale che si protrae ormai da dicembre, dalle rivalità tra i principali alleati di Baghdad (Stati Uniti, Iran e Turchia su tutti), dalla profonda divisione del tessuto socio-politico del Paese e dall’esasperazione di milioni di cittadini. Per quanto ‘Ali al-Sistani abbia rappresentato per quasi due decenni un punto di riferimento imprescindibile per la terra dei due fiumi, l’età avanzata e le precarie condizioni di salute pongono seri dubbi sulla capacità del Grande Ayatollah di continuare a operare come garante dell’intero sistema. Non stupisce, quindi, che l’operazione chirurgica alla quale l’anziano leader si è dovuto sottoporre nel gennaio di questo anno abbia rinnovato le incognite relative al futuro del Paese e riacceso le voci sulla successione alla guida della Hawza di Najaf. Una prospettiva, questa, che, al di là delle importanti ripercussioni sul piano interno, andrebbe a influenzare equilibri regionali quanto mai instabili.

 

 

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Note
[1] All’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, queste dinamiche si palesarono nello scontro tra re Faysal e l’Atayollah Mahdi al-Khalisi. L’esilio di quest’ultimo rappresentò la prima vera rottura tra i due poli e l’inizio di una marginalizzazione sul piano politico del clero sciita che avrebbe avuto un peso determinante nella storia irachena. Tali dinamiche emersero in misura ancora maggiore durante la presidenza di Saddam Hussein. Il leader sunnita, infatti, non si limitò a comminare provvedimenti di espulsione, ma arrivò a eliminare fisicamente quei leader religiosi che egli considerava delle potenziali minacce. Casi paradigmatici, in tal senso, furono quelli di Muhammad Baqir al-Sadr, assassinato nel 1981, e di Muhammad Muhammad Sadiq al-Sadr, ucciso nel 1999. Per quanto sopravvissuto alla tirannia di Saddam Hussein, lo stesso Ayatollah al-Sistani aveva dovuto fare i conti con l’ostilità del regime, tanto da passare diversi anni agli arresti domiciliari.  Sul tema esiste un’ampia letteratura. Si rimanda in particolare a Pierre-Jean Luizard, Histoire Politique du Clergé Chiite, XVIII-XXI siècle, Fayard, Paris 2014; Yitzhak Nakash, The Shi‘is of Iraq, Princeton University Press, Princeton 1995 e Charles Tripp, A History of Iraq, Cambridge University Press, Cambridge 2000.
[2] Benché la gran parte delle reclute provenisse dalle province centro-meridionali irachene a maggioranza sciita, le PMU riunirono tra le loro fila anche combattenti provenienti da comunità differenti. Sul tema, così come sulle problematiche connesse al consolidamento di queste milizie, si rimanda a Andrea Plebani, Janus in the Land of the Two Rivers: What Role for Militias in Iraq?, in R. Alaaldin, F. Saini Fasanotti, A. Varvelli, T. M. Yousef, The Rise and Future of Militias in the MENA Region, Ledizioni LediPublishing, 2019.
[3] Riccardo Redaelli, Andrea Plebani, L’Iraq contemporaneo, Carocci, Roma 2013.

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