Iraq: dopo le elezioni il quadro politico è paralizzato mentre aumentano le violenze

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:32

La speranza è che dopo Eid al-Fitr, la lunga festa che segna la fine del digiuno del mese di ramadan, i maggiori partiti iracheni siano infine capaci di interrompere il lunghissimo stallo che dalle scorse elezioni paralizza il quadro politico iracheno. Dal marzo scorso, infatti, quando si tennero le elezioni politiche generali, il paese è bloccato per l'incapacità di raggiungere un accordo da parte dei due “vincitori” della contesa elettorale, l'ex primo ministro Iyad Allawi e il primo ministro Nuri al-Maliki.

Il primo guida l'alleanza elettorale Iraqiyya, risultata il maggior partito, sia pure per pochissimi seggi, e ha presentato una piattaforma politica anti-settaria e secolarizzante. Al-Maliki, primo ministro uscente, ritiene tuttavia di avere maggiori chance nel formare il governo e accusa Allawi di rappresentare solo gli interessi dei sunniti e dei nostalgici del vecchio regime, proponendosi come l'unica formazione capace di mediare fra le tre diverse comunità principali, sciiti, sunniti e curdi.

A rendere più complesso il quadro gli interessi, i veti incrociati e i tatticismi delle altre alleanze elettorali, fra tutte quella dei curdi e dell'altro raggruppamento sciita, formato dall'ISCI – uscito pesantemente penalizzato dal voto – e dagli sciiti radicali di Muqtada al-Sadr. Lo stallo sta producendo effetti fortemente negativi a livello di sicurezza (con l'aumento delle violenze e degli attacchi terroristici), nel campo economico e della ricostruzione (finora fallimentare) e genera un crescente allontanamento del “paese reale” – piagato dalla mancanza dei beni primari (acqua e luce sono ancora intermittenti) e da una forte disoccupazione o sotto-occupazione – da quello politico. Una battuta fra le più in voga attualmente a Baghdad è quella che descrive così la situazione politica: «oggi è peggio di due mesi fa e meglio di fra due mesi». Una visione pessimista che rispecchia la precarietà dell'assetto istituzionale e politico del nuovo Iraq e che rischia di vanificare tutti i successi degli ultimi anni nel campo della lotta contro i jihadisti guidati da al-Qa'ida, le milizie radicali, oppositori vari o semplici bande di delinquenti.

Certo le forze jihadiste appaiono ormai marginalizzate e incapaci di abbattere con la forza il nuovo sistema istituzionale post Saddam. Ma è evidente come l'instabilità politica favorisca un aumento degli attentati e delle violenze, spesso utilizzate cinicamente tanto dai politici iracheni quanto dai paesi regionali limitrofi. Se lo stallo fra al-Maliki e Allawi dovesse incancrenirsi, il risultato sarebbe la nascita di un esecutivo affidato a una personalità minore, che rischia di non avere una maggioranza certa e che dovrà probabilmente affrontare una nuova radicalizzazione delle tensioni etnico-settarie. In questo scenario, l'alleanza curda potrebbe essere tentata di indebolire ulteriormente i propri legami con il centro, dando vita a un'indipendenza mascherata delle province curde.

Ciò farebbe precipitare le relazioni curdo-arabe nelle zone miste (Mosul e Kirkuk in primis) e provocherebbe un aumento delle interferenze dei paesi confinanti, i quali – sia pure per ragioni diverse – non vogliono una frammentazione del Paese (pur perseguendo politiche che da anni minano il consolidamento del nuovo ordine politico post Saddam). Una situazione pericolosissima e che potrebbe favorire colpi di mano militari, soprattutto dopo la partenza degli ultimi militari statunitensi prevista per la seconda metà del 2011. La soluzione auspicata da molti – soprattutto a Washington – è al contrario la composizione di un governo di larghe intese, con un compromesso fra al-Maliki e Allawi che sancisca una spartizione del potere politico e permetta un temporaneo superamento della contrapposizione politica. In ogni caso, restano fondamentali riforme costituzionali che riequilibrino i poteri degli organi dello Stato, ora troppo favorevoli al primo ministro.

Parimenti, non sono più rinviabili decisioni attese ormai da cinque anni, come la legge per la distribuzione dei proventi degli idrocarburi fra centro e periferia, un compromesso sulle “città contese” fra curdi e arabi (Kirkuk e Mosul) e una maggiore tutela delle minoranze. Fra tutte quella cristiana, oggetto da anni di violenze brutali e vessazioni che rischiano di cancellare la più antica comunità presente in Iraq: senza di essa, il paese perderebbe una parte di se stesso.

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