Viaggio al monastero di Al Qosh, estremo rifugio degli sfollati di Mosul, dove “chiunque porti una croce al collo rischia di essere assassinato”. Eppure c’è la convinzione che il clima di terrore possa finire: «Nonostante le nostre disgrazie il momento della comprensione reciproca ci pare più vicino».

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:42

Al QOSH – Abbassar la testa, aspettare, sperare. Il motto degli sfollati ammassati nelle celle del santuario di Al Qosh è tutto in quelle tre parole, le sole capaci di ridar fiducia alle canne al vento di questo Iraq battuto dall’uragano della guerra confessionale e dell’odio settario. Quell’uragano li ha sradicati dalle case di Mosul, spinti fin quassù, tra le mura di pietra del Monastero di Notre Dame. Da Mosul a qui ci sono poco più di trenta chilometri, ma quella strada è il primo passo della grande fuga. La nuova tappa di quell’esodo che – dal 2003 – ha spinto oltre 250 mila cristiani iracheni a lasciare il paese. Queste 50 famiglie arrivate ad Al Qosh ai primi di marzo sono l’ultimo scampolo dei dodicimila esuli fuggiti dalla città di Mosul negli ultimi sette anni. Sono approdate all’antico monastero caldeo, aggrappato alle pendici dei monti Bayhidhra, per sfuggire all’impennata di violenza costata la vita a sette loro confratelli trucidati nelle settimane precedenti le elezioni del 7 marzo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’irruzione nella casa del 39enne padre Mazen Matoka, uno dei preti più conosciuti e amati di Mosul. Forse cercavano lui. Forse volevano una vittima eccellente, ma padre Mazen quel pomeriggio non c’era. I sicari allora si son rifatti con suo padre e con i suoi due fratelli. «Hanno fatto irruzione mentre ero in chiesa. Non so se cercavano me – racconta padre Mazen – mi hanno chiesto i documenti, hanno urlato a mamma e alle mie sorelle di cambiar stanza. Mamma gli ha offerto dei soldi, ma quelli non ne volevano sapere. Lei è corsa sul balcone, ha spalancato le finestre, chiesto aiuto. Ma non è arrivato un cane. Loro si sono chiusi in una stanza con Mukhlas e Bassem, i miei fratelli, e nostro padre Jeshu. Poi hanno incominciato a sparare. A uno tremava la mano e li ha mancati, ma i suoi amici non hanno sbagliato, gli hanno sparato in bocca... alla testa... poi un colpo alla schiena mentre papà, Mukhlas e Bassem erano già a terra. Così hanno distrutto la mia famiglia. Così uccidono i cristiani a Mosul». Il clima di terrore non risparmia i vertici della chiesa caldea. Due anni fa il Vescovo di Mosul, Paulos Faraj Rahho, è stato ritrovato cadavere dopo esser stato rapito da un gruppo fondamentalista. «Qui chiunque porti questa al collo rischia di non tornare a casa vivo» ci spiega accarezzando la grossa croce dorata Emil Nona, il suo giovane e coraggioso successore. «Qui per sopravvivere dobbiamo muoverci con estrema prudenza, non percorrere mai la stessa strada, cambiare spesso auto, farci notare il meno possibile... ma ora neppure questo basta più. Gli ultimi incidenti hanno amplificato la paura e la voglia di fuga... le famiglie continuano a fare le valige e a lasciare la città. La mia grande paura è che la presenza cristiana a Mosul venga definitivamente compromessa, che i cristiani dopo secoli di vita in questa città vengano sradicati, convinti a non tornare. Per questo è importante restare. Per questo è importante dialogare con i capi delle tribù arabe e con i curdi per convincerli a garantire la sicurezza di noi cristiani. Del resto lo sanno anche loro, garantire protezione alla nostra comunità significa restituire fiducia e sicurezza a tutta la regione». La Caduta del Rais Potrà veramente cambiare qualcosa? Alcuni ci sperano. Sperano che quelle ultime staffilate di terrore settario possano contribuire a farne comprendere la bieca, stupida inutilità. Sperano che anche per i cristiani l’età dell’orrore sia vicina alla fine. «Questo clima d’odio non appartiene alla storia del nostro paese, tutto è iniziato a causa del caos generato dalla caduta di Saddam Hussein»  spiega padre Gabriel Toma, 40 anni, parroco caldeo del monastero di Al Qosh. «Quando il rais è caduto, tutti hanno pensato di poter conquistar vantaggi e diritti predicando l’odio contro gli altri. E la gente ha pagato sulla propria pelle questa spietata illusione. Ora tutti hanno capito che il male non è mai univoco, ma genera un ciclo di follia capace, alla fine, di colpirti come un boomerang. Tutti hanno compreso che l’orrore è sempre reciproco. La maggioranza di sciiti e sunniti alle ultime elezioni non ha votato per chi rivendicava più diritti per la propria comunità, ma per chi invocava un clima di riconciliazione e di rispetto tra fedi e gruppi diversi. Noi cristiani lo diciamo da sempre, ma ora quel momento ci sembra più vicino. L’era del fanatismo è prossima alla fine e il momento del dialogo e della comprensione reciproca ci sembrano, nonostante le nostre disgrazie, più vicini». Fra chi ci crede e ci spera c’è anche Monsignor Sako vescovo di Kirkuk. «Le elezioni del marzo 2010 si sono svolte pochi giorni dopo alcuni dei più gravi eccidi di cristiani nella storia di Mosul e le violenze sono continuate anche dopo il voto... eppure quella chiamata alle urne ha segnato una svolta – sostiene il Vescovo. Nel 2005 le liste erano chiuse e settarie, questa volta, invece, sono state aperte a tutti con curdi, arabi, turkmeni, cristiani, sciiti, sunniti inseriti all’interno delle stesse formazioni. Per la prima volta l’elemento religioso ha giocato un ruolo meno importante. La popolazione ha puntato su candidati laici e liste non collegate al clero religioso, sia sciita sia sunnita. E i risultati elettorali hanno dimostrato che gli iracheni vogliono un governo non settario, capace di garantire la sicurezza. Tutto questo è un ottimo segnale per chi è perseguitato». Se a sperarci è il Vescovo di Kirkuk, un po’ bisogna crederci. Kirkuk è con Mosul una delle due grandi città contese del nord dell’Iraq, una città dove – dopo la caduta di Saddam – i curdi han cercato di conquistare l’egemonia. Quella lotta senza esclusione di colpi con la comunità e le tribù arabe è all’origine del pesante clima di terrore e destabilizzazione che si respira in entrambi i centri e secondo alcune teorie la principale ragione della persecuzione ai danni dei cristiani di Mosul. «I gruppi estremisti, quelli che materialmente uccidono o rapiscono i nostri fedeli, sono solo il sintomo, la manifestazione del male – spiega padre Toma. Per capire veramente chi si nasconde dietro questa campagna bisogna chiedersi a chi giova uccidere i cristiani, a chi fa comodo cambiare la composizione territoriale della zona». Le parole di padre Toma riprendono voci e dicerie assai diffuse tra i cristiani. Secondo queste opinioni la responsabilità delle persecuzioni non andrebbe attribuita solo alle fazioni integraliste sunnite vicine ad Al Qaida, ma anche a quelle fazioni curde che lavorano per assumere il controllo del territorio. Secondo questa teoria i curdi – pur offrendo ufficialmente protezione ai cristiani del nord Iraq – non scordano l’appoggio della comunità caldea al regime di Saddam e la considerano un ostacolo al controllo della zona. «Ci sono molti modi per sterminare e perseguitare – racconta, a patto di non essere citato, un professore fuggito con la sua famiglia nel convento di Al Qosh. Se non mandi la polizia a fermare chi uccide e non indaghi sugli assassini, il risultato è lo stesso». La Bandiera con il Sole Splendente La voglia curda d’egemonia è tutt’altro che discreta. Per capirlo basta uscire da Mosul e addentrarsi nella fertile e ricca piana di Ninive. Lì a ogni posto di blocco garrisce la bandiera con il sole splendente delle milizie curde. Milizie così convinte d’incarnare l’autorità d’uno stato indipendente da richiedere agli stranieri l’esibizione dell’ancora inesistente visto curdo. Secondo Atheel al Nujaifi, il governatore della provincia di Ninive firmatario di un appello in cui si chiede a Nazioni Unite e Unione Europea di aprire un’indagine sui mandanti delle violenze, i capi miliziani curdi sono i veri istigatori di molti attacchi ai danni dei cristiani e di altre minoranze. «Far uccidere un cristiano è il mezzo migliore per diffondere una sensazione di paura e instabilità... Qui chi si oppone ai piani curdi viene perseguitato, minacciato, arrestato e spesso liquidato» – accusa Nujaifi citando a sostegno delle sue accuse un rapporto di Human Rights Watch basato sui medesimi sospetti. E Bassem Bello, sindaco cristiano del villaggio arabo di Tel Kaif, non si fa scrupoli a rilanciare le accuse. «Ogni volta che succede qualcosa noi perdiamo alcune famiglie che fuggono all’estero. Il piano è proprio questo, vogliono sloggiare gli abitanti originari di queste zone, mettere le mani sulle nostre case e sulle nostre terre. E credetemi non sono solo i fanatici islamisti a volerlo. Qui più di uno è pronto a tutto pur di mandar via noi cristiani». Se il piano è quello di acuire le tensioni, allora un ritorno alla convivenza, un accordo tra curdi e capi arabi per la gestione comune di Mosul, raggiunto in nome della pace sociale, potrebbe aiutare i cristiani e favorire il rientro di chi ha lasciato l’Iraq pensando di non tornarvi mai più. Da questo punto di vista la miglior speranza di molti cristiani è legata alle fortune di Iyad Allawi, l’energico ex Primo Ministro sciita protagonista del voto del 7 marzo grazie ad una alleanza con i partiti sunniti basata sul principio della convivenza e della fine delle lotte confessionali. Un’idea che il 65enne Iyad Allawi ribadisce anche nel corso di un incontro, confermando il suo impegno a far di tutto per garantire il ritorno dei cristiani fuggiti all’estero. «Da giovane studiavo dai gesuiti e i miei migliori amici erano cristiani... So bene quanto quella comunità abbia contribuito alla crescita del paese. Perdere i cristiani significa rinunciare a una parte della nostra identità. Durante il mio primo mandato da primo ministro ho fatto di tutto per cercare di garantire la loro sicurezza e mettere a disposizione dei fondi per ricostruire le chiese distrutte. Questa volta non sarà diverso, mi impegno a far di tutto per garantire il ritorno di chi è fuggito all’estero e assicurare a quella comunità ilruolo che aveva in passato».

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