Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:18

La fine del mandato presidenziale di Obama, che non aveva impedito il rovesciamento dei regimi durante le Primavere Arabe e che si era avvicinato all’Iran con il JCPOA, ha rappresentato un momento di sollievo per l’Arabia Saudita. Una politica interna spregiudicata – seppur celata da una retorica moderata e riformista – e una politica estera assertiva – come dimostrano il caso Khashoggi e la guerra in Yemen – hanno però riportato il Regno nell’occhio del ciclone.

 

Secondo il New York Times, il viaggio di questa settimana del Principe Ereditario Muhammad Bin Salman in Asia sarebbe un tentativo di smarcarsi dall’attenzione dei media e delle istituzioni occidentali, cercando nuove partnership politiche, strategiche ed economiche a est. La copertura del viaggio da parte dei media arabi ha rispecchiato le divisioni interne al Golfo: scetticismo da parte della qatariota Al-Jazeera e entusiasmo della saudita Riyadh Daily, che ha celebrato l’ennesimo successo della “trasparente ed equilibrata diplomazia saudita”. 

 

La prima tappa è stata il Pakistan, dove MBS ha incontrato il Presidente Arif Alvi e il Primo Ministro Imran Khan, che ha definito l’Arabia Saudita “un paese amico nel momento del bisogno”. La visita è stata soprattutto l’occasione per accordarsi su un piano di investimenti da 20 miliardi di dollari che Riyadh trasferirà ad Islamabad, a cui si aggiunge la liberazione di 2100 prigionieri pakistani detenuti in Arabia Saudita (un fatto già attenzionato l’anno scorso da Human Rights Watch).

 

Il viaggio è poi proseguito in India, paese tradizionalmente ostile al Pakistan, come dimostrato dall’attacco suicida di settimana scorsa che ha ucciso oltre 40 soldati in Kashmir e che è stato subito associato a Jaish-e-Muhammad, un gruppo jihadista deobandi. Nonostante le persistenti tensioni e la smentita circa il possibile ruolo mediatore dell’Arabia Saudita (sia nei media pakistani, come il Times of Islamabad, sia nei media indiani, come il United News of India), il viaggio ha rappresentato l’occasione per siglare un accordo da oltre 100 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Anche in questo caso i siti vicini a Riyadh come Saudi Gazette hanno evidenziato il trionfo dell’iniziativa, parlando di un legame necessario per “la stabilità, la pace e la sicurezza della regione e del mondo”.

 

L’ultima tappa del viaggio è stata la Cina, partner strategico di Riyadh in ambito economico e di sicurezza. I due paesi hanno parlato di petrolio, energie rinnovabili, droni e anti-terrorismo, senza però dibattere né della repressione cinese ai danni della minoranza musulmana uigura né del conflitto yemenita, rispettando così la tradizionale politica cinese della non-interferenza.

 

Paradossalmente, ma non troppo, la Cina è stata anche la meta del viaggio di alcune personalità di spicco iraniane, come Mohammed Javad Zarif, Ministro degli affari esteri, Bijan Zanganeh, Ministro del petrolio, e Ali Larijani, speaker del parlamento, che hanno anticipato l’arci-rivale saudita di qualche giorno. Il Presidente cinese Xi Jinping ha ribadito la “fiducia strategica” nei confronti di Teheran, uno dei maggiori fornitori di petrolio della Repubblica Popolare.

 

Di estrema importanza è anche un viaggio che non si è concretizzato, ovvero quello che avrebbe portato il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Mosca da Vladimir Putin, negli stessi giorni in cui la Russia rendeva pubbliche le discussioni per vendere a Qatar e Arabia Saudita il sistema antimissilistico S-400. L’incontro, ufficialmente rimandato a causa di questioni interne (secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il problema per Netanyahu sarebbe l’avvicinamento del partito Yesh Atid a Benny Gantz, principale competitor di Netanyahu alle prossime elezioni), avrebbe trattato di Siria. Non si sarebbe parlato solo del lento ma imprescindibile processo di ricostruzione, ma anche (e soprattutto) di “meccanismi di coordinamento per evitare scontri fra forze israeliane e russe”, in vista del ritiro delle truppe americane.

 

 

Siria

 

Ed è proprio la Siria, e più nello specifico Baghuz, il teatro dell’ultima resistenza del sedicente Stato Islamico. Alcuni combattenti del Califfato hanno provato a fuggire nascondendosi in 15 convogli organizzati per evacuare i civili, salvo poi essere bloccati nei checkpoint fuori città. Altri jihadisti si sono invece arresi, mentre una parte resiste asserragliati nella piccola cittadina nel governatorato di Deir ez-Zor, ormai circondata dalle forze curde. Proprio qui è stato ferito il fotoreporter italiano Gabriele Micalizzi, in Siria proprio per documentare l’offensiva a Baghuz, che sul Corriere della Sera ha descritto gli istanti del suo ferimento e le cure ricevute dagli americani a Baghdad.

 

Come riportato da The Syrian Observer, il Presidente Bashar al-Assad ha tenuto un discorso in cui loda le forze armate siriane e invoca l’unità della popolazione contro il terrorismo, definito “una minaccia alla società e alla nazione siriana”. Ed è proprio sfruttando la retorica anti-terroristica che le forze governative continuano a condurre attacchi nella provincia di Idlib, come denunciato da alcune ONG a Syria DirectParticolarmente rilevante è inoltre un duplice attacco registrato a Idlib nella giornata di lunedì 18 febbraio, che ha causato 15 morti. Secondo la versione francese del quotidiano libanese Al Manar, legato ad Hezbollah, fra questi ci sarebbe il leader di Hayat Tahrir al-Sham, il cartello di milizie jihadiste affiliate ad Al Qaeda. Abu Muhammad al-Jawlani, condannato a morte in contumacia da un tribunale di Damasco, sarebbe infatti ricoverato in coma in un ospedale non meglio precisato nella provincia turca di Hatay, benché Ankara smentisca la notizia.

 

La provincia è inoltre già nota per aver accolto decine di migliaia di foreign fighters nel 2011, come scrive Alberto Negri sul Manifesto. E il tema dei combattenti stranieri che hanno abbracciato la causa di Daesh è tornato in auge dopo la dichiarazione di Trump che invitava gli stati europei a riprendersi i propri cittadini andati a combattere per il Califfato. La questione solleva problemi legali, politici, economici e di sicurezza, come ricostruito in questo focus di ISPI. A complicare il quadro, vi è l’assenza di un protocollo condiviso fra gli stati europei. E così mentre la Francia annuncia il rimpatrio di 130 foreign fighters, il Regno Unito ha intenzione di revocare la cittadinanza a Shamina Begun, andata a Raqqa nel 2015 quando aveva solo 15 anni e oggi nel campo rifugiati di al-Hawl insieme alla figlia appena nata.

 

 

Foreign fighters e minoranze in Tunisia

 

Il problema non è però solo europeo, come ricorda Neila Fkih, vicepresidente della Commissione nazionale antiterrorismo tunisina: “la Tunisia non ha scelta per quanto riguarda i foreign fighters (…) perché accoglierli è un impegno preso a livello internazionale”. Secondo i dati dell’International Centre for Counter-Terrorism dell’Aja (ICCT) ripresi da Luca Bregantini[1], la Tunisia rappresenta uno dei principali serbatoi di jihadisti con oltre 7000 combattenti su una popolazione di circa 11 milioni di persone. Il problema si assesta a due livelli: da un lato, l’elevato numero di tunisini ancora all’estero – mentre sono già 1000 le persone rientrate – pone un problema logistico legato alla gestione del rimpatrio; dall’altro, il tessuto sociale tunisino rischia di essere minato dal loro ritorno. Questo secondo aspetto risulta particolarmente problematico se si considera l’approccio soft adottato fino al 2015 dalle autorità e la decisione di bloccare gli arresti preventivi, senza comunque dimenticare che il sovraffollamento delle prigioni e l’ambiente carcerario sono due fattori facilitanti della radicalizzazione.

 

A essere in particolar modo preoccupate sono le minoranze tunisine e le organizzazioni che tutelano questi gruppi a rischio, come l’Associazione Tunisina di Supporto alle Minoranze (ATSM). Ne è un esempio l’articolo dedicato al tema pubblicato da Tunisie News. Ghayda Thabet, portavoce di ATSM, racconta come, nonostante i progressi significativi ottenuti con la Costituzione del 2014, le minoranze ebraiche e cristiane nel Paese soffrano ancora parecchie discriminazioni e minacce. Benché riconosca il ruolo positivo ricoperto dai media e dalla società civile, particolarmente florida in Tunisia, Thabet ammette che alcuni segmenti della popolazione siano ancora restii ad accettare la composizione plurale della popolazione dal punto di vista religioso, soprattutto quando si tratta di casi di convertiti dall’Islam.

 

 

Cristiani e Yazidi in Iraq

 

L’assenza di riforme costituzionali, la debolezza dello stato centrale e della società civile insieme al prosperare di gruppi jihadisti, costituiscono dei fattori di rischio per le minoranze, religiose o etniche, che vivono invece in Iraq.

 

Ne sono un esempio gli Yazidi, una minoranza del Sinjar, perseguitata prima in epoca ottomana[2], poi nel periodo post-coloniale[3] e più recentemente da Isis[4]. Oltre alla morte della massima autorità yazida, il Principe Tahseen Said, che non ha lasciato eredi e che di conseguenza ha scatenato un’aspra diatriba sulla successione, lo spettro del sedicente Stato Islamico non è scomparso dall’orizzonte yazida. Lo si coglie appieno leggendo le testimonianze di Hassan e Ibrahim raccolte da Reuters il 19 febbraio. Mentre Hassan ripercorre i suoi tre anni di prigionia nelle mani di Isis, Ibrahim racconta come sia vivere a pochi metri da una fossa comune, senza potersi più fidare delle comunità sunnite della zona.

 

Le stesse problematiche sono vissute dai cristiani d’Iraq, anch’essi per lo più presenti nel governatorato di Ninive. Invasione americana del 2003 e persecuzioni di Isis hanno fatto crescere il numero di cristiani sfollati, spesso costretti a trovare rifugio in campi profughi e impossibilitati a tornare a casa a causa degli ingenti danni alle strutture. Estremamente critica è la situazione nelle vicinanze di Mosul, come a Bartella, cittadina totalmente cristiana negli anni ’90. Secondo The Christian Science Monitor, delle 3800 famiglie cristiane solo un terzo vi ha fatto ritorno dopo le violenze di Isis. Ma come sottolinea il sacerdote cattolico Behnam Benoka, la situazione non è affatto migliorata, in particolare a causa della presenza di un’altra minoranza, a sua volta bersaglio delle persecuzioni di Isis. Si tratta del gruppo etnico di professione sciita Shabak, dominante a Barletta, Karamles e Qaraqosh. Secondo Don Paolo Thabit Mekko, “oltre 600 famiglie sono bloccate a Erbil” e l’unico modo per superare questa marginalizzazione dei cristiani sta nel creare “una forza di polizia ufficiale e istituzionale” che limiti il potere delle milizie Shabak. Infine, riportando le parole del Patriarca caldeo, il cardinal Louis Raphael Sako, a The National “i cristiani d’Iraq sono alla ricerca di libertà (…) e giustizia e diritti devono essere garantiti”.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

Note

[1] Luca Bregantini, I foreign fighters europei. Un profilo sociologico, «Futuribili – Rivista di studi sul futuro e di previsione sociale» 22 (2017), n. 2, pp. 49-90.

[2] Adam Roberts, The Yazidis and the Responsibility to Protect, MA Thesis in International Relations at University of Oregon (2005).

[3] Nelida Fuccaro, Ethnicity, State Formation, and Conscription in Postcolonial Iraq: The Case of the Yazidi Kurds of Jabal Sinjar, «International Journal of Middle East Studies», 29 (1997), n. 4, pp. 559-580.

[4] A/HRC/32/CRP.2 (2015). “They came to destroy”: ISIS Crimes Against the Yazidis.