Nell’Islam. La legge di Dio, fissata dagli ulema nella sharî’a, è superiore alla legge degli uomini: una posizione molto diffusa nel mondo musulmano, ma non è l’unica
 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:48:26

Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo con una maggioranza di 48 voti favorevoli e 8 astensioni (Arabia Saudita, Polonia, URSS, Bielorussia, Ucraina, Cecoslovacchia, Unione Sudafricana, Yugoslavia). Honduras e Yemen erano assenti al momento del voto. Tale dichiarazione stipula all’articolo 18:

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

La libertà di religione designa il diritto soggettivo fondamentale delle persone a scegliere e a praticare una certa religione, mentre la libertà di coscienza è una nozione molto più ampia. Essa ingloba non soltanto il diritto di cambiare religione, ma anche quello di non averne affatto, d’essere ateo, agnostico o semplicemente senza religione. La libertà di pensiero, insomma, «conferisce all’individuo – afferma Jean Baubérot – gli strumenti intellettuali per scegliere e per esercitare con discernimento e libero arbitrio le proprie scelte in materia di coscienza, religione e credo»[1].

Fin dalla sua adozione, il testo è risultato problematico per un certo numero di Paesi che, attraverso l’astensione, hanno espresso le loro riserve non soltanto nei confronti dell’articolo 18, ma anche e soprattutto verso tutta la filosofia della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Al di là del fatto dell’astensione di alcuni stati, si pone a nostro avviso la questione delle motivazioni di tale astensione. Esse possono essere raggruppate in tre categorie. La prima è ideologica ed è rappresentata dai Paesi del blocco sovietico che avevano adottato una definizione marxista dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è soltanto un “catalogo dei diritti borghesi”. I primi diritti dell’uomo sono quelli sociali, cioè il diritto al lavoro, all’alloggio alla salute etc., proprio quei diritti che gli stati capitalisti non garantiscono, avendo adottato la legge del mercato e della libera concorrenza economica; di conseguenza tutti gli altri diritti politici non hanno alcun senso, compreso il diritto di coscienza o di religione che è un semplice sotterfugio inventato dalle classi dominanti per meglio sottomettere e sfruttare le classi dominate. La seconda motivazione è razziale: il regime d’Apartheid, praticato dal Sudafrica, stabiliva una gerarchia tra le razze e riteneva che gli uomini e le donne di colore non potessero avere gli stessi diritti dei bianchi. La dottrina dei diritti dell’uomo è allora sospettata di voler dissolvere la minoranza bianca in un vasto mondo meticcio. La terza motivazione, rappresentata dalla posizione saudita, è religiosa. Essa considera che il diritto divino è superiore ai diritti dell’uomo e che la legge di Dio, qual è fissata dagli ulema nella sharî’a, è superiore alla legge degli uomini. I diritti dell’uomo possono essere tollerati solo nella misura in cui sono strettamente sottomessi alle leggi religiose dell’islam. Ci scontriamo così con tre grandi obiezioni alla nozione di diritti dell’uomo: superiorità dei diritti sociali su quelli politici, superiorità dell’uomo bianco su quello di colore e superiorità della legge di Dio sulla legge degli uomini.

Ritorno ai Testi Fondamentali

Oggi, sessant’anni dopo quella seduta delle Nazioni Unite, che ne è di queste obiezioni? La prima, ideologica, è scomparsa, almeno come posizione ufficiale di stato, con la caduta del muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico. La seconda, razziale, è scomparsa con la fine del regime dell’Apartheid in Sudafrica, anche in questo caso in modo ufficiale e come dottrina di stato, benché singoli individui continuino a credervi isolatamente o in seno a partiti politici. Invece la terza posizione non solo non è scomparsa, ma si è radicata nelle menti e si è per così dire propagata in numerosi Paesi islamici, come mostrano i diversi testi relativi ai diritti dell’uomo adottati da molti di essi. Tali testi sottomettono i diritti dell’uomo alla supremazia della sharî’a e li riconoscono solo nella misura in cui essi sarebbero in conformità con questa [2]. Anche nella pratica i diritti di coscienza e religione incontrano difficoltà a essere accettati, persino negli ambienti ritenuti più colti o istruiti, cosa ancor più incomprensibile. Si tratta per noi di sapere quali sono le sorgenti di questa visione che oppone i diritti di Dio ai diritti dell’Uomo. Vi è davvero incompatibilità congenita, come affermano i partigiani della supremazia della sharî’a? Infine, come superare una tale aporia generatrice di frustrazioni e di violenze?  

Frédéric Lenoir, nell’editoriale dell’ultimo numero di Mondo delle religioni pone il problema in termini chiari quando afferma: «il rispetto dei diritti fondamentali della persona mi sembra un’acquisizione imprescindibile e la sua portata universale legittima. Resta allora da trovare un’applicazione armoniosa di tali diritti in culture ancora profondamente marcate dal sigillo della tradizione, in particolare religiosa; cosa non sempre facile»[3].

In quest’affermazione si mostra ai nostri occhi tutta la complessità del problema: come trovare un equilibrio tra la dimensione universale, nel caso specifico i diritti dell’uomo come la libertà di coscienza e di religione, e la dimensione particolare, come le tradizioni e culture religiose? L’equilibrio infatti non è «sempre facile». Ma per cogliere meglio la difficoltà, ritorniamo in prima battuta ai testi fondamentali della cultura islamica, vale a dire, per la maggioranza sunnita, il Corano e la Sunna.

Leggendo il Corano si può notare che non esiste alcun versetto potenzialmente incompatibile, nella lettera e nello spirito, con la libertà di coscienza, di religione o di pensiero. La legge della sharî’a, che ha fatto dell’apostasia un’infrazione passibile della pena suprema, la pena di morte, è semplicemente un’aberrazione senza fondamento coranico. Ben al contrario, numerosi versetti invitano chiaramente ed esplicitamente al rispetto della libertà di coscienza. Potremmo citarne decine. Ne tratterremo solo qualche esempio: «Non vi sia costrizione nella Fede» [2, 256] e «La Verità viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi non vuole respinga la Fede» [18, 29]. Più volte, quando il profeta si accanisce a cercare di convertire persone che si rifiutano, Dio gli ricorda: «Ammonisci, ché un Ammonitore tu sei, non sei stato nominato loro sovrano!» [88, 21-22]. Nulla giustifica nel Corano l’appello alla guerra contro ebrei e cristiani. Nei confronti di questi ultimi si trova infatti: «troverai che i più cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: “Siamo cristiani!”» [5, 82]. Nei confronti di tutte le altre religioni che circondavano l’Islam nascente si può leggere: «Ma quelli che credono, siano essi ebrei, cristiano o sabei, quelli che credono cioè in Dio e nell’Ultimo Giorno e operano il bene, avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere né li coglierà tristezza» [2, 62]. Se ci atteniamo al Corano, non vediamo che cosa potrebbe impedire la libertà di coscienza.  

La seconda fonte per la cultura musulmana, gli hadîth o detti del profeta, sono anch’essi abbastanza ricchi di massime e precetti che vanno nella direzione della libertà di coscienza e religione. Così, nei confronti di ebrei e cristiani, un hadîth afferma: «Colui che infligge un danno a un “protetto” (cristiano o ebreo), io stesso sarò suo avversario e gli intenterò causa nel giorno del Giudizio finale». Al di fuori dei periodi di guerra, nessuna violenza verso le altre religioni è legittima: «Chi uccide un uomo che ha concluso un patto con noi (cioè che non fa più la guerra ai musulmani) non sentirà mai il profumo del Paradiso».

Spazi di Tolleranza

Si vede dunque che sia nel Corano che negli hadîth numerose occorrenze perorano con chiarezza e senza ambiguità la causa del rispetto della libertà dell’individuo nella scelta della religione e in quella di seguire l’Islam o lasciarlo. Sono queste fonti ad aver premesso che i diversi imperi islamici fossero spesso, lungo la storia, spazi di tolleranza e che le libertà di culto fossero accordate e garantite ai non musulmani. Ebrei e cristiani che potevano essere perseguitati in altre regioni del mondo trovavano rifugio in terra d’Islam. Ma una volta ricordato questo fatto (e noi dobbiamo costantemente ricordarlo), il problema resta aperto. Il discorso di un Islam di ampie vedute, compatibile con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e che non abbia nulla a che vedere con le leggi della sharî’a che limitano drasticamente la libertà di coscienza, non convince gli islamisti radicali che possiedono una propria lettura del Corano e che vogliono continuare a praticare l’intolleranza. Non convince neppure quanti stanno al di fuori dell’Islam e vedono una grande violenza scatenarsi nel suo nome nel mondo e in alcuni casi ricevere persino l’approvazione di alcuni dignitari religiosi.

Di conseguenza accontentarsi di affermare, come fanno molti musulmani, che i testi fondatori dell’Islam hanno previsto ogni cosa, che contengono assolutamente tutto e che possono sostituirsi alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo sarebbe semplicemente assurdo. Infatti ciò significherebbe che occorrerebbe confondere due registri completamente differenti, quello del divino e quello dell’umano, quello dei principi generali, teorici, islamici e quello della loro applicazione pratica sulla terra a livello universale.

Tra i testi sacri che affermano la dignità della persona umana e i testi dei diritti dell’uomo che proteggono le libertà fondamentali come la libertà di coscienza e religione esiste una differenza essenziale di punti di vista. I primi pongono Dio al centro del loro universo, mentre i secondi hanno l’uomo al cuore delle loro preoccupazioni.   È questa confusione mentale tra i due livelli di rappresentazione ad autorizzare alcuni islamisti radicali a cercare di giustificare la loro intolleranza appoggiandosi ad altri versetti come, ad esempio: «Quanto a coloro che credettero, poi rifiutaron la Fede, poi credettero, poi rifiutaron la Fede, poi crebbero in infedeltà ancora, Iddio non potrà più perdonarli né guidarli per una retta Via» [4, 137]. Si tratta effettivamente di una condanna, ma il versetto afferma chiaramente che spetta a Dio giudicarli. L’apostasia è un comportamento condannabile dal punto di vista religioso, ma è un affare strettamente privato dal punto di vista dei diritti dell’uomo. Essa riguarda soltanto l’uomo e la sua coscienza. A ogni modo sarà decisa soltanto il giorno del giudizio finale. Di conseguenza nessuno è autorizzato a giudicare gli altri circa la loro fede, mettendosi al posto di Dio.  

La seconda fonte di confusione è molto più grave perché tocca il rapporto che il musulmano può avere con i suoi testi sacri. Estrapolati dai loro contesti, molti versetti esortano effettivamente alla Guerra Santa e a combattere i miscredenti che fanno la guerra ai musulmani e che dunque ne minacciano la vita. Oggi gli estremisti fanno spesso leva su questi versetti o hadîth per conferire una legittimità religiosa ai loro ricatti. Tuttavia questi versetti sono collegati a una congiuntura storica precisa, oggi scomparsa, che permette di datarli e comprenderne il senso. La spiegazione in ragione del contesto storico del resto è stata costituita come vera scienza coranica, codificata e designata dai teologi musulmani come Asbâb al-nuzûl o cause della rivelazione. Questi ulema infatti hanno avvertito il bisogno di collegare un versetto al suo contesto per limitarne la portata giuridica o per spiegare una contraddizione apparente tra due versetti rivelati in contesti differenti.  

A contesti sociali e politici differenti corrispondono leggi differenti e ciò vale per i testi fondatori dell’Islam e anche per gli avvenimenti politici che hanno segnato la nascita dello Stato islamico. Così è per le guerre della Ridda o apostasia condotte dal primo califfo Abû Bakr che gli islamisti radicali citano come esempio per giustificare la pena capitale in caso di apostasia. Tali guerre furono lanciate non contro individui che avevano rinnegato l’Islam, ma contro intere tribù che rifiutavano di pagare l’imposta della Zakât allo Stato, adducendo il pretesto che il profeta era morto e che erano ormai sciolti dalla loro dichiarazione d’alleanza. Tale rifiuto minacciava la semplice sopravvivenza del giovane Stato islamico. Non era dunque un problema di coscienza o religione, ma piuttosto un problema politico ed economico. Nessuno stato potrebbe infatti sopravvivere senza tasse. Usare questo pretesto, oggi, per rifiutare la libertà di coscienza è indice di oscurantismo e cecità.  

Abbiamo dunque, da un lato, una lettura dei testi fondativi che, con l’intento di promuovere la moderazione o di difendere e illustrare l’Islam, trattiene solo quegli elementi che vanno nel senso della tolleranza e dell’apertura alla libertà di ciascuno nello scegliere la propria religione. Questa lettura è spesso praticata dalle autorità religiose ufficiali, seguite in questo dalla grande maggioranza dei musulmani, pacifici, sinceri e che hanno appreso da secoli a coabitare con ogni genere di minoranze religiose, certo conservando le debite distanze, ma senza grandi urti né conflitti. Ma d’altro canto oggi vediamo bene i limiti di questo discorso, che è contestato da una frangia dell’islamismo radicale la quale opera una lettura differente degli stessi testi, assolutizzando i versetti che evocano la guerra o la legittimano. Costoro ritengono che tali testi sono sempre attuali. Sono divini e di conseguenza resteranno sempre validi, per ogni tempo e per ogni luogo (li-kulli zamân wa makân). Ciascuno dei due partiti trova alla fin fine nei testi ciò che desidera trovare e l’utilizza a suo modo a beneficio della causa. Arriviamo così a una impasse in cui due discorsi paralleli si oppongono appoggiandosi entrambi sul Corano e sulla Sunna. Entrambi attingono alla stessa fonte argomenti totalmente opposti. Ciò lascia molti musulmani smarriti.  

Penso che oggi, per uscire da questa impasse, sia necessario andare oltre. Occorre far saltare il catenaccio che dall’XI-XII secolo pesa su una delle fonti più importanti del pensiero islamico, cioè la Ragione. Il dramma del mondo islamico è cominciato con il fallimento della dottrina mu‘tazilita. Scuola razionalista, essa fu vinta da quella ash’arita e dallo hanbalismo, dottrina dell’imam Ibn Hanbal, fondatore di una delle quattro tendenze della Sunna, la più rigorista e letteralista. Dopo essere stato elevato dal califfo abbaside al-Ma’mûn al rango di dottrina ufficiale dello Stato, il razionalismo mu’tazilita divenne, per un rovesciamento di situazione politica e storica, una dottrina vietata e i suoi adepti furono scacciati e perseguitati. A partire da quel momento la lettura letterale del Corano ha avuto la meglio, mentre ogni esercizio della ragione umana e sforzo d’interpretazione libera e innovatrice diventava sospetto. Ogni innovazione era condannata come pericolosa (bid’a) e destinata a condurre all’inferno. È l’imprigionamento della Ragione e l’inizio del declino di una delle civiltà più ricche e feconde che il Medioevo abbia conosciuto.  

Di fatto, il dibattito sulla libertà di coscienza ha già opposto la scuola mu’tazilita e quella ash’arita. I mu’taziliti hanno difeso l’idea che la fede e le credenze non possano essere imposte con la forza, perché è Dio che «accorda o nega il dono della fede, che rende il cuore attento agli avvertimenti o lo indurisce in seguito ad azioni o atteggiamenti indesiderabili da parte dell’individuo»[4]. Un hadîth afferma: «i cuori sono nelle mani di Dio» (al-qulûb bi-yad Allâh). Se le cose stanno così, in nome di che cosa si può esercitare la costrizione sui cuori degli uomini? La costrizione in materia di religione è contraria alla volontà di Dio. La Ragione è così elevata al rango di seconda fonte a lato della Rivelazione e non meno importante di questa per conoscere la volontà divina. In opposizione a questa razionalità, la scuola ah’arita ha difeso e finito per imporre l’idea che la volontà divina non possa essere conosciuta altro che attraverso la legge islamica. Seguendo il Corano alla lettera, gli ash’ariti hanno decretato che solo “le genti del Libro” (ahl al-Kitâb), cioè ebrei, cristiani e zoroastriani, possono godere del diritto libero esercizio della fede, perché dispongono di libri sacri e divini che li guidano. Al contrario per tutti gli altri l’uso della costrizione è lecito, come il profeta avrebbe ben dimostrato nel suo comportamento con pagani e apostati.

I Versetti di Medina

Quello della libertà di coscienza è dunque un vecchio dibattito. Oggi occorre riprenderlo là dove i mu’taziliti sono stati costretti ad abbandonarlo a causa della violenza esercitata da uno stato abbaside decadente. I pensatori musulmani contemporanei hanno bisogno di scavalcare i secoli del declino e dell’oscurantismo per ritrovare questa sorgente feconda della razionalità musulmana che fu dei mu’taziliti, ma anche di Ibn Rushd (Averroè) e dei falâsifa. È camminando sulle loro orme che si potrà vivificare il pensiero islamico contemporaneo. In questo consiste la loro responsabilità storica.  

Una tesi riformista di un pensatore musulmano contemporaneo riguardo alla libertà di coscienza riveste al proposito un interesse particolare. È quella espressa nell’opera di Mahmûd Muhammad Taha intitolata Il secondo messaggio dell’Islam [6] . L’autore sudanese l’ha pagata con la vita, essendo stato condannato a morte per impiccagione per crimine d’apostasia (Ridda) e giustiziato a Khartoum il 18 gennaio 1985, a settant’anni d’età. Per difendere la libertà di coscienza e di religione, Taha avanza l’idea che solo i versetti, essenzialmente meccani, che affermano la libertà di coscienza e di religione debbano essere trattenuti quale fondamento coranico a una legislazione musulmana moderna e compatibile con i trattati internazionali e i valori universali. Gli altri versetti, quelli di Medina, che legiferano su guerra e pace e regolano la vita politica e sociale (Ayât al-Ahkâm), e che sono dunque troppo legati al contesto medinese, devono essere certamente mantenuti nella lettera, ma le leggi che enunciano devono essere considerate caduche. Per uscire dalla contraddizione tra alcuni versetti rivelati alla Mecca e altri rivelati a Medina gli ulema musulmani avevano inventato infatti l’idea secondo la quale i versetti più recenti, medinesi, abrogherebbero (naskh) i versetti più antichi, meccani. Considerando che l’insieme dei versetti coranici merita di essere trattenuto, Taha propone invece di rovesciare lo schema tradizionale. Questa tesi purtroppo ha avuto un’eco molto limitata e resta ancora largamente misconosciuta. Tuttavia porta in sé una possibilità di rinnovamento e di riforma radicale della coscienza islamica.  

Infine una terza fonte, a fianco della Ragione e della Riforma, anch’essa rimasta marginale benché manifesti una grande generosità e una profonda tolleranza, è la spiritualità sufi. Una delle grandi figure del sufismo, Ibn ’ Arabî, scrive infatti: «Il mio cuore è aperto a tutte le immagini e a tutte le situazioni. Immagini di gazzelle sulle terre del cammino o di un monastero e dei suoi monaci. Santuario pagano o immagine di un pellegrino che gira intorno alla Ka’ba, la nostra pietra sacra. Rotoli della Torah o del Corano, libro santo. Là mi conducono i passi e la mia cavalcatura. L’amore è la mia sola religione, la mia sola fede»(6).  

L’Islam sufi ha costituito lungo la storia una vera opposizione all’Islam legalista dei muftî, distinto da tutte le altre tendenze sunnite. Ha rifiutato il ritualismo in nome della prossimità al divino (hulûl). Ha rifiutato la costrizione in nome del metodo o della via che ciascuno segue e che conduce a Dio (tarîqa). Infine è sfuggito all’autorità degli ulema costituiti in una vera e propria casta, per ricercare la fusione con l’essenza divina. Considerato dalla maggioranza degli ulema sunniti come eretico, anche il sufismo fu perseguitato e ridotto a sopravvivere solo in isolotti di spiritualità come le zaouia o le confraternite. Ma la sua presenza è sempre viva negli ambienti popolari.  

In definitiva, l’Islam rispetto alla libertà di coscienza si trova in un atteggiamento d’apertura o di chiusura? Abbiamo cercato di dar conto della complessità della situa¬zio¬ne. Questa complessità ci impone una risposta in due tempi: sì, l’Islam nel suo spirito e nel suo testo – numerosi versetti e hadîth lo testimoniano – è favorevole alla libertà di coscienza, ma a condizione che quei testi siano letti in modo ragionato e storicizzandoli. In mancanza di questo, come abbiamo visto, una risposta rapida e semplicista rischia di non tradurre tutta la realtà dell’Islam nella sua diversità e complessità. L’Islam ha conosciuto durante i secoli della sua grandezza una grande capacità razionale che gli ha fatto toccare l’apogeo della civiltà. Tuttavia i musulma¬ni, non avendo saputo preservare e sviluppare questa capacità, si sono lasciati para¬liz¬zare sotto il peso d’un sistema giuridico che vieta ogni sforzo di riflessione e soffoca ogni libertà di pensiero. Si tratta oggi di uscire da questa situazione liberando la forza del pensiero, assumendo il rischio della Riforma e ritrovando la via di una vera spiritualità che permetta di ritrovare il legame diretto tra l’uomo e il suo Dio. Ciò passa attraverso l’accettazione senza riserve della libertà di pensiero, della libertà di coscienza e della libertà di religione. Il Cristianesimo ha opposto anch’esso una fiera resistenza, fino all’inizio del ventesimo secolo, alla dottrina dei diritti dell’uomo e alla libertà di coscienza. E allora, a quando un “Vaticano II” islamico?

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

 

 [1] Jean Baubérot, Laicité et pluralisme en France, «Conscience et Liberté» 54 (1997), 70.

[2] Si possono citare a titolo esemplificativo: La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam (DUDHI, 1981), La dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam (DDH, 1990) e la Carta araba dei diritti dell’uomo (CADH, 1994).

[3] Frédéric Lenoir, Les droits de l’homme sont-ils universels? in « Le Monde des Religions », Septembre-Octobre 2008, n. 31.

[4] Abdulaziz A. Sachedina, Freedom of Conscience and Religion in the Qur’an, in «Human Rights and Conflicts of Cultures», 67, citato da Robert Traer, Le soutien des musulmans aux droits de l’homme, in «Coscience et Liberté», n. 49 (1995), 22. Cfr. anche Encyclopédie de l’Islam, Leiden-New York, E.J. Brill, 1993, articolo «Mu’tazila», tomo VII, 791.

[5] Traduzione italiana edita da EMI, Bologna 2002 (N.d.R.).

[6] Ibn ‘Arabî, Tarjumân al-Ashwâq, Bayrût, 1966, 43-44.  

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Abderrazak Sayadi, Quando la scuola razionalista perse la guerra, «Oasis», anno IV, n. 8, dicembre 2008, pp. 37-42.

 

Riferimento al formato digitale:

Abderrazak Sayadi, Quando la scuola razionalista perse la guerra, «Oasis» [online], pubblicato il 9 dicembre 2008, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/quando-la-scuola-razionalista-perse-la-guerra.

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