Le istituzioni islamiche del piccolo Stato levantino sembrano avere gli anticorpi per resistere all’ondata jihadista e continuare a promuovere una religiosità aperta e tollerante

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:40

L’ondata jihadista che si è abbattuta sul Medio Oriente ha destabilizzato anche il Paese dei cedri, rischiando di compromettere il fragile equilibrio interreligioso e interconfessionale su cui si fonda. Mentre alcuni intellettuali si confrontano da prospettive diverse sulle cause e sulla natura di questa minaccia, le istituzioni islamiche del piccolo Stato levantino sembrano avere gli anticorpi per resistere a questa fase e continuare a promuovere una religiosità aperta e tollerante.

 

Uno degli effetti destabilizzanti della crisi siriana è stato, in Libano, il risveglio del salafismo jihadista sunnita, con l’espansione di movimenti come il Fronte al-Nusra e lo Stato Islamico. In questo contesto il salafismo è passato da un certo atteggiamento quietista, incentrato sulla predicazione, a una radicalizzazione che esalta la violenza e il terrorismo, facendo leva sul takfīr (la dichiarazione di miscredenza) per arrivare al jihadismo. Soprattutto a partire dai primi mesi del 2013, centinaia, per non dire migliaia, di jihadisti libanesi e palestinesi si sono uniti alle fila dei movimenti salafiti siriani, svolgendovi un ruolo importante. La città sunnita di Arsal, situata alle pendici della catena orientale dell’Anti-Libano, è stata il principale teatro, per oltre quattro anni, dello scontro tra jihadisti di tutti gli orientamenti e le forze di sicurezza libanesi. Nell’estate del 2017, la battaglia decisiva per il recupero della città e dei suoi dintorni montuosi è terminata con l’allontanamento dei jihadisti verso l’interno siriano e le forze di sicurezza libanesi hanno potuto rafforzare il controllo sui gruppi armati in Libano. Tuttavia, i jihadisti mantengono la presa in ampi strati della popolazione sunnita. Per capire come si sia arrivati alla situazione attuale, occorre guardare all’evoluzione degli ultimi decenni.

 

 

Tripoli, centro del salafismo jihadista

 

In Libano, uno dei primi esponenti del salafismo – la corrente che promuove un’autenticità islamica fondata sulla stretta adesione ai testi fondativi e sull’emulazione dei comportamenti dei pii antenati (salaf) – è stato lo shaykh Sālim al-Shahhāl (1922-2008) di Tripoli, che aveva abbracciato il wahhabismo a Medina dopo la seconda guerra mondiale. Tornato nella sua città d’origine fondò il gruppo Shabāb Muhammad, la prima formazione salafita in Libano. In seguito percorrerà tutti i trecento villaggi dello Akkar e le vie di Tripoli predicando la nuova ideologia, che avrebbe trovato molti seguaci tra gli imam delle moschee. In questo periodo, il successo del salafismo si spiega anche con la sconfitta degli eserciti arabi contro Israele nel 1948 e nel 1967 e col declino del nazionalismo arabo in seguito alla Guerra dei Sei giorni. Diverse personalità di Tripoli, tra cui lo shaykh Sa‘īd Sha‘bān (1930-1998), si unirono a questa organizzazione, che successivamente avrebbe assunto il nome di Jamā‘at al-muslimīn (“Comunità dei musulmani”) e poi Harakat al-tawhīd (“Movimento dell’unicità”), senza tuttavia mai riuscire a diventare un vero movimento popolare.

 

Se spingiamo lo sguardo un po’ più indietro nel tempo, emerge il ruolo decisivo svolto da Muhammad Rashīd Ridā (1865-1935), anch’egli originario di Tripoli. La sua rivista al-Manār, edita al Cairo, influenzò lo shaykh Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī (1914-1999), soprannominato “il leone della Sunna” (Asad al-Sunna), che fu uno dei padri fondatori del salafismo contemporaneo e visse a lungo in Libano. L’appellativo “salafita” si diffuse proprio ad opera di al-Albānī, che si definiva tale nel tentativo di distinguersi dalle altre correnti sunnite, che si trattasse dei Fratelli musulmani o delle confraternite sufi ritenute devianti.

 

Nello sviluppo del salafismo libanese fu però determinante il fatto che, dopo l’inizio della guerra civile nel 1975, gli imam delle moschee sunnite libanesi andarono a formarsi a Medina e alla Mecca, in Arabia Saudita, ricevendo un’educazione più rigorista rispetto a quella che per più di un secolo era stata loro impartita all’Università dell’Azhar, in Egitto. Il ripiegamento politico egiziano dalla scena libanese durante i mandati dei presidenti Sadat e Mubarak fu compensato dal sostegno dell’Arabia Saudita che, forte della sua influenza anche economica sulla comunità sunnita, orientò i candidati all’imamato verso le sue scuole di formazione religiosa. Stando alle parole di un ex-segretario della Dār al-fatwā, la principale istituzione sunnita libanese, fu soprattutto questo fenomeno a produrre fin dall’inizio degli anni ’80 una nuova generazione di imam, dal discorso più radicale e allineato alla dottrina wahhabita.

 

 

I gruppi salafiti in Libano

 

Oggi sono diversi i gruppi che in Libano si rifanno al salafismo. Tra i più importanti si possono citare Fath al-Islām, le Brigate della Libera Resistenza, ‘Usbat al-Ansār, Jund al-Shām e le Brigate ‘Azzām. Fath al-Islām, gruppo jihadista guidato da un militante palestinese, lo shaykh Shākir al-‘Absī, è nato nel 2007, stabilendo la propria base nel campo palestinese di Nahr el-Bared. La sua storia è legata all’attacco mortale lanciato il 20 maggio di quell’anno contro alcune postazioni dell’esercito libanese e in particolare contro alcuni elementi sunniti. L’incidente fu un punto di svolta nella percezione libanese del salafismo, che alcuni anni prima si era già contraddistinto per la sua violenza sulle montagne di Sir el-Diniye, a est di Tripoli.

 

Tra i salafiti libanesi spicca anche la figura dello shaykh Ahmad al-Assīr, noto fin dal 1989 per i suoi sermoni salafiti nella moschea Bilāl Ibn Rabāh di Abra, una località nei pressi di Sidone. La sua predicazione rimane piuttosto quietista fino al 2012. Poi subisce una radicalizzazione aggressiva, caratterizzandosi per gli inviti a sostenere l’insurrezione siriana e per la demonizzazione del movimento sciita Hezbollah. Lo shaykh ha favorito anche la costituzione delle Brigate della Libera Resistenza. Il movimento è stato represso nel sangue nel 2015, e successivamente al-Assīr è stato arrestato e condannato a morte.

 

‘Usbat al-Ansār invece è un gruppo armato jihadista wahhabita palestinese, probabilmente legato ad al-Qaida, radicato nel campo palestinese di Ain al-Hilweh, vicino a Sidone. Formato da libanesi e palestinesi, il suo obiettivo è istituire uno Stato islamico in Libano. L’organizzazione è stata inserita nella lista ufficiale delle organizzazioni terroristiche di Canada, Stati Uniti, Australia, Regno Unito e Russia. Jund al-Shām è un movimento jihadista palestinese, con base anch’esso nel campo di Ain al-Hilweh. Alcuni suoi membri si sarebbero uniti a Fath al-Islām. Il suo obiettivo è istituire uno Stato islamico su tutto il territorio siriano. Dal 2006 figura nella lista ufficiale delle organizzazioni considerate terroristiche dalla Russia e da altri Paesi. Durante la guerra civile siriana i suoi membri hanno partecipato a operazioni contro lo Stato di Bashar al-Assad. Questa organizzazione è stata inoltre accusata di aver massacrato, nell’agosto 2013, decine di cristiani siriani nella Valle dei Cristiani (in arabo Wādī al-Nasārā) nel governatorato di Homs, presso il confine libanese.

 

Le Brigate ‘Abdullah ‘Azzām infine sono un gruppo terrorista sunnita affiliato ad al-Qaida e fondato nel 2009 dal saudita Sālih al-Qar‘āwī. Hanno reti locali in diversi Paesi, principalmente in Egitto, Iraq, Siria, Giordania, nella Striscia di Gaza e in Libano.

 

Vi è un’ultima considerazione da fare: nonostante le differenze che si possono cogliere tra questi gruppi, essi fanno parte di un’unica internazionale islamista, che promuove la violenza e il terrore come strumento per raggiungere i propri scopi. Alcuni sono legati ad al-Qaida, altri allo Stato Islamico. Parlare di un jihadismo strettamente libanese nella misura in cui i suoi membri sono libanesi è possibile, ma la sua vitalità risiede nella sua capacità di far rete con il resto della galassia jihadista. D’altra parte questi movimenti – e gli avvenimenti della regione l’hanno dimostrato – sono forti quando il jihadismo siriano e iracheno o saudita sono forti, mentre s’indeboliscono quando il movimento jihadista nel suo complesso s’indebolisce. In questo momento l’azione visibile di questi gruppi è confinata in alcuni campi palestinesi, e le loro armi sono rivolte contro altri gruppi palestinesi.

 

 

La natura e le azioni dei movimenti islamisti

 

L’ideologia e le azioni violente dei movimenti jihadisti sono state oggetto di un dibattito tra diversi intellettuali libanesi, prima e dopo che questo fenomeno diventasse una minaccia per il Libano. In un articolo apparso nel 2016 sul quotidiano libanese al-Safīr, lo shaykh Muhammad Shuqayr, professore all’Università Libanese, si è concentrato sulla natura takfirista dei movimenti salafiti, che, in nome dell’Islam, o di un’interpretazione distorta dell’Islam, lanciano l’anatema contro chiunque professi una dottrina diversa dalla loro[1].

 

Secondo Shuqayr questi movimenti si nutrono del patrimonio tradizionale islamico, che è frutto dell’impegno di esperti religiosi musulmani al servizio del potere e del suo apparato cognitivo. I movimenti jihadisti fanno appello esclusivamente al passato, sono staccati dalla realtà e attingono a una tradizione che non ha saputo riformarsi. Secondo lo shaykh, inoltre, gli strumenti metodologici di cui i takfiristi si servono sono molto limitati. Essi hanno infatti eliminato dal proprio quadro epistemologico il presupposto della storia come esperienza e il metodo sperimentale, che consentono di ampliare il campo dell’analisi, la definizione degli obiettivi da raggiungere e l’elaborazione delle azioni politiche volte al loro conseguimento.

 

Questi movimenti riducono la ragione a semplice dispositivo di proiezione sul presente delle lezioni del passato e a strumento di calcolo per perseguire i propri scopi. Essi non fanno altro che riesumare attraverso la violenza un linguaggio superato e una terminologia desueta, elevati a strumenti di lettura della realtà. Così facendo riproducono gli odi del passato, dominati come sono dal fanatismo e dal settarismo.

 

Lo shaykh Shuqayr constata infine che questi movimenti sviliscono qualsiasi sistema di valori fondato su una cultura umanistica e religiosa aperta. La loro ideologia è dominata dall’esasperazione dell’aspetto giuridico e della tradizione, eretta a riferimento esclusivo a scapito di qualsiasi altra autorità, soprattutto di quella della ragione critica. Lo stesso testo religioso, anziché purificare la tradizione dalle sue impurità, diventa un pretesto per legittimarla. I movimenti jihadisti takfiristi – conclude lo shaykh Shuqyar – vengono manipolati dai nemici della nazione araba, che per sopravvivere e prosperare si appoggiano su chiunque possa essere funzionale al loro progetto, ben sapendo che l’unico successo a cui possono puntare è distruggere ciò che la società ha costruito.

 

 

Il rapporto tra wahhabismo e nuovo salafismo

 

Se lo shaykh Shuqayr non presta molta attenzione al carattere salafita dei gruppi jihadisti, lo studioso di scienze islamiche Ridwān al-Sayyid, anch’egli professore all’Università Libanese, si sofferma invece sul rapporto tra il salafismo e la natura jihadista e takfirista dei movimenti islamisti[2]. Dal punto di vista epistemologico, le mutazioni del Sunnismo salafita in Libano e altrove vanno comprese secondo al-Sayyid alla luce dell’evoluzione della dottrina wahhabita.

 

A suo avviso infatti negli ultimi decenni si è gradualmente sviluppato un neo-salafismo, non lontano dal salafismo wahhabita tradizionale quanto alle dottrine, ma diverso a livello del comportamento e degli obiettivi. Se il wahhabismo ha scelto di annunciare l’Islam come alternativa globale con la forza della persuasione, i movimenti islamisti jihadisti hanno optato per il ricorso alla violenza e a null’altro che la violenza. Il nome dato a questa violenza è il jihad in nome dell’Islam. Alcuni lo definiranno jihad difensivo, mentre al-Qaida e lo Stato Islamico lo chiameranno jihad offensivo.

 

Secondo i giuristi dell’epoca classica, compresi al-Shāfi‘ī e Ibn Hanbal[3], il jihad deve essere motivato da un’aggressione degli infedeli ed è pertanto un jihad difensivo. Nella visione wahhabita originaria il jihad è offensivo, è un jihad di esclusione generato dal fatto che la miscredenza (kufr) e l’idolatria (shirk) sono considerati una minaccia per la vera fede. Tale visione è la traduzione pratica della dottrina della lealtà verso i correligionari e dell’odio o del disconoscimento nei confronti di chi è diverso (al-walā’ wa-l-barā’). All’interno del mondo musulmano questo jihad è una guerra contro quanti rinnegano la propria religione. Tuttavia – osserva al-Sayyid – a partire dal fondatore dell’attuale regno saudita, re ‘Abd al-‘Azīz Ibn Sa‘ūd (m. 1953), entrambi gli aspetti sono stati modificati dai giuristi. Per effetto di questi cambiamenti, è stata conclusa la pace tra wahhabismo e altre dottrine interne al Sunnismo, è stato ammesso il principio della diversità, e all’autorità pubblica è stato accordato il diritto di firmare trattati di pace e di buon vicinato con Stati di religione diversa.

 

Questa visione riformata del wahhabismo – aggiunge al-Sayyid – è radicalmente diversa rispetto a quella di al-Qaida, dello Stato Islamico o dei movimenti islamisti. L’obiettivo dello Stato Islamico è infatti ripristinare il califfato secondo la via dei primi califfi. Tale progetto, secondo al-Sayyid, è rifiutato dall’Arabia Saudita, che ha combattuto il Califfato ottomano e istituito lo Stato del Corano e della Sunna.

 

Dagli anni ’30 agli anni ’70 il salafismo saudita è parso sotto controllo, soddisfatto del regime al quale obbediva. Il momento quietista, tuttavia, è stato scosso da due eventi: la rivolta di Juhaymān al-‘Utaybī nel 1979, che portò alla presa della Grande Moschea della Mecca, e l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990. Questi fatti hanno rivelato al mondo una mutazione radicale nel salafismo e una rottura con il salafismo wahhabita. Da un lato, a livello della società e dell’individuo, si sviluppa un’interpretazione intransigente di tutto ciò che attiene alla sharī‘a e ai costumi musulmani; dall’altro l’applicazione della sharī‘a viene estesa a tutti gli ambiti della vita economica e politica e delle relazioni sociali. Ovviamente la sharī‘a influiva già sul sistema politico e sulla sua legittimità, ma il nuovo salafismo ritiene che l’imamato o la legittimità politica coincidano con la sharī‘a stessa, la quale, interpretata in un modo radicale, diventa un tutt’uno con la legalità. Ciò ha fatto sì, per esempio, che i testi dei giuristi wahhabiti sulle condizioni della guerra al fuori dell’Arabia Saudita e dei Paesi musulmani siano stati eliminati dai riferimenti religiosi dei jihadisti. Al-Sayyid conclude sostenendo che questo nuovo salafismo è irrealistico nonostante le esazioni e le violenze che può commettere. Esso è strumentalizzato da forze superiori e a un certo punto si estinguerà, perché i regimi in carica non gli consentiranno di rafforzarsi oltre un certo limite e prendere il potere.

 

 

‘Alī Harb: la filosofia come alternativa

 

Un terzo punto di vista è offerto dal filosofo ‘Alī Harb, esponente della generazione di intellettuali che, a partire dagli anni ’70, si è impegnata nella critica del discorso religioso. Assumendo una prospettiva che s’ispira al decostruzionismo di Derrida, Harb contesta in particolare il metodo interpretativo che fa coincidere l’essenza della religione con il ritorno ai suoi testi fondativi, tanto più che, come il Corano dimostrerebbe, questi testi contengono elementi contradditori. Egli afferma inoltre che l’Islam, in quanto dottrina di salvezza, cioè come sistema di pensiero religioso simile al Cristianesimo e all’Ebraismo, ma anche alle “religioni” del XX secolo come Comunismo e Fascismo, proclama di detenere la verità assoluta. Questo rivelerebbe un potenziale terroristico intrinseco all’Islam, un’idea che Harb sviluppa nel suo ultimo libro Il terrorismo e i suoi artefici: il predicatore, il tiranno e l’intellettuale[4]

 

Harb ritiene che il terrorismo sia fondato sull’atteggiamento intellettuale dell’uomo che si crede detentore della verità assoluta e il solo autorizzato a parlare in suo nome. Tale verità può riguardare l’ambito religioso, politico, sociale o morale. Da qui deriverebbe il terrorismo come metodo d’azione: chi crede di detenere la verità agisce nei confronti dell’altro, del diverso o dell’avversario, secondo una logica di esclusione. A livello simbolico questo si traduce nel takfīr, nella scomunica e nell’accusa di tradimento. A livello fisico produce l’eliminazione o l’omicidio. Così il terrorismo può essere causato dal predicatore che gestisce un progetto religioso, dal tiranno attraverso il suo progetto politico o dall’intellettuale che con il suo progetto rivoluzionario cerca di trasformare la realtà. Per Harb il destino di qualsiasi pensiero fanatico e di qualsiasi dottrina sacra è trasformarsi in un regime totalitario o in un’organizzazione terrorista. Così facendo egli pone sullo stesso piano regimi laici come lo stalinismo o il nazismo, e regimi teocratici come quello di Khomeini o il movimento dei Fratelli musulmani.

 

Nel caso specifico dell’Islam, Harb ritiene che questo non possa essere riformato. A suo dire, i tentativi di riforma intrapresi da oltre un secolo in Pakistan, in Egitto o altrove sono tutti falliti e hanno prodotto soltanto modelli terroristici. Questa è la ragione per cui il filosofo libanese non fa alcun affidamento sul rinnovamento del discorso religioso islamico auspicato da alcuni musulmani e persino da alcuni laici, non esitando a dire che non ci sono molte soluzioni: l’unica via d’uscita è la sconfitta del progetto religioso incarnato dalle istituzioni e dai poteri islamici, con le loro idee mummificate e i loro metodi sterili.

 

Egli critica inoltre la nozione di “tolleranza”, definendolo uno degli scandali del pensiero religioso in generale in quanto implica una sorta d’indulgenza del fedele verso chi è diverso da lui e, come tale, considerato un peccatore, un empio, un ribelle o addirittura una vergogna per l’umanità. In questo senso la tolleranza annullerebbe qualsiasi possibilità di dialogo: solo il pieno riconoscimento dell’altro consente di superare il proprio narcisismo, portando ad ascoltare per creare spazi di convivenza.

 

 

Quali prospettive per il futuro?

 

Al di là delle diverse interpretazioni del salafismo, la crisi del Sunnismo a livello del mondo arabo e musulmano si ripercuote sul Sunnismo in Libano. Tuttavia, per quanto il Sunnismo libanese rimanga combattuto tra la crescente fedeltà alla maggior istituzione ufficiale del Paese, la Dār al-Iftā, e la lealtà ai gruppi salafiti e ad altri gruppi come gli Ahbāsh[5], esso mantiene una sua specificità: nel complesso è un Sunnismo aperto e tollerante, che non esita a condannare il terrorismo e i gruppi takfiristi e a proclamare la sua predilezione per la convivenza tra le diverse comunità libanesi. Forse dovrà recuperare la sua missione di un tempo, quella di essere il promotore e il portavoce dell’arabità, e contribuire a pensare l’Islam come una via di salvezza e di liberazione. Nel contesto attuale, pesa certo la situazione dei campi profughi siriani e palestinesi sparsi sul territorio libanese, che continueranno a essere vivai del jihadismo e del radicalismo, contro Israele ma anche contro i regimi arabi accusati di collaborazionismo e inazione.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] Muhammad Shuqayr Shuqayr, Al-Harakāt al-takfīriyya wa qābiliyyat al-tawzīf: azamāt dhātiyya wa turāth mushawwah, «Al-Safīr», 2 giugno 2016, p. 13, https://assafir.com/Article/217/497114/AuthorArticle

[2] Si veda la sua relazione “Al-Salafiyya al-wahhābiyya wa-da‘wā al-irhāb”, presentata il 26 marzo 2016 al Centro Asbār per gli studi, le ricerche e la comunicazione di Riyadh. Il testo della relazione è disponibile al seguente collegamento https://bit.ly/2G3A6Ff

[3] Si tratta dei fondatori di due delle quattro scuole giuridiche riconosciute dall’Islam sunnita [NdR].

[4] ‘Alī Harb, Al-Irhāb wa sunnā‘uh. Al-Murshid, al-tāghiya, al-muthaqqaf, Dār al-‘arabiyya li-l-‘ulūm nāshirūn, Bayrūt 2015.

[5] Si tratta di un movimento sufi fondato nel 1983 a Beirut dallo shaykh etiope ‘Abd Allāh al-Hararī [NdR].

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Salim Daccache s.j., La risposta del Libano alla violenza religiosa, «Oasis», anno XIV, n. 27, luglio 2018, pp. 89-96.

 

Riferimento al formato digitale:

Salim Daccache s.j., La risposta del Libano alla violenza religiosa, «Oasis» [online], pubblicato il 4 settembre 2018, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/salafismo-jihadismo-in-libano.

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