Il discorso sul rapporto fra Chiesa e musulmani presenti in Italia, formulato a partire dal Concilio Vaticano II, si snoda sia a livello teologico e istituzionale sia in relazione al quotidiano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:48

Il dialogo interreligioso dopo il Concilio Vaticano II

La Chiesa cattolica ha recepito ufficialmente il dialogo interreligioso come dimensione della propria vita e metodo della sua azione pastorale con il Concilio Vaticano II: di tale prospettiva tratta in particolare la Dichiarazione Nostra Aetate che esprime la posizione della Chiesa nei riguardi delle religioni non cristiane. Il fondamento teologico di tale posizione è individuabile nei paragrafi 16-17 della Lumen Gentium, in cui si sviluppa la riflessione sugli uomini appartenenti a religioni non cristiane in rapporto al piano salvifico di Dio e alla Chiesa.

 

La Chiesa riconosce che il primo fattore unificante tra gli uomini è l’appartenenza alla comune umanità, che ha Dio come principio e fine. Di qui l’esigenza di promuovere rapporti di collaborazione a tutto raggio per il progresso del bene. Riconosce anche che nelle altre tradizioni religiose vi sono riflessi della luce della verità del Verbo di Dio e afferma che la Chiesa nulla rigetta di quanto di santo e giusto è dalle altre religioni e culture insegnato e in esse vissuto[1].

 

Alla luce di tali affermazioni possiamo dire che l’esigenza di promuovere collaborazione e convergenze con i membri delle altre religioni non è frutto di puro volontarismo, ma si radica nel riconoscimento del fatto che le altre religioni hanno elementi di bene concretamente presenti, e che questi elementi possono fondare tale collaborazione. In questa prospettiva il dialogo è il metodo e lo strumento che favorisce la mutua conoscenza e la ricerca di valori condivisi.

 

A partire dal quadro dottrinale e pastorale proposto dal Concilio Vaticano II, si sono sviluppate almeno due grandi prospettive in ambito ecclesiale: il dialogo interreligioso di tipo teologico-pastorale-culturale e la teologia delle religioni.

 

Per dialogo interreligioso s’intende quell’insieme di attività di studio, di ricerca e di contatti più o meno sistematici avviati dalla Chiesa cattolica o da essa accolti, tesi a sviluppare rapporti stabili con membri e istituzioni appartenenti ad altre tradizioni religiose. L’obiettivo di questi rapporti è di promuovere la conoscenza reciproca per convergere su valori etici e spirituali e per promuovere azioni comuni sia in termini generali, sia rispetto a situazioni particolari in cui la presenza multireligiosa richiede di essere gestita in modo condiviso, superando tensioni o conflitti.

 

Per promuovere il dialogo interreligioso, già nel corso del Concilio Vaticano II la Chiesa ha istituito il Segretariato per i non cristiani, divenuto in seguito il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso: si tratta dell’organismo vaticano formalmente incaricato di sviluppare il dialogo interreligioso a livello di Chiesa universale, all’interno del quale è stata inoltre istituita una specifica Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani. A livello istituzionale sono stati poi fondati altri organismi di carattere regionale, in forma di conferenze episcopali nazionali o a livello diocesano. Occorre d’altra parte notare come il crescente carattere multireligioso delle società moltiplichi le possibilità per i cattolici di entrare in rapporto con i seguaci di altri religioni: per questo il dialogo interreligioso ha progressivamente assunto forme molteplici, che vanno dal dialogo teologico – necessariamente attuato da specialisti – al dialogo della vita, in cui sono coinvolti i singoli e le comunità cristiane diffuse sul territorio, per le quali diventa sempre più impellente cogliere la sfida di sviluppare relazioni con i credenti in altre religioni con i quali condividono lo spazio sociale. Una forma esigente di dialogo interreligioso è poi il dialogo della spiritualità, sviluppato a partire dalle esperienze spirituali vissute nell’ambito della fede cristiana e di altre religioni[2].

 

Alla luce dell’intenso dibattito sviluppatosi negli ultimi vent’anni in contesto europeo e italiano sui temi dell’interculturalità e dell’integrazione della popolazione immigrata – in maggioranza appartenente alla matrice religiosa islamica – è importante puntualizzare, a fronte di un uso a un tempo inflazionato e diluito del termine, che il “dialogo interreligioso” definisce unicamente i rapporti di cui siano soggetti attivi le diverse religioni tramite le loro istituzioni o i loro membri. La categoria di dialogo interreligioso non include invece le azioni che definiscono i rapporti degli Stati con le diverse confessioni religiose. È certamente da auspicare che le istituzioni dialoghino con le religioni, ma questo non rientra nell’ambito del dialogo interreligioso. Quest’ultimo si situa al di fuori della competenza dello Stato, essendo, per l’appunto, competenza delle religioni. Lo Stato può indirettamente promuovere, facilitare, creare le condizioni per il dialogo interreligioso, ma non può esservi direttamente coinvolto, né a livello nazionale, né a livello sopranazionale. In questo senso appare equivoco l’utilizzo del termine dialogo interreligioso da parte di istituzioni statali, se con tale termine s’intenda definire iniziative da esse svolte in prima persona[3].

 

L’apertura al dialogo interreligioso è stata preceduta e accompagnata da un’articolata riflessione sulla teologia delle religioni, disciplina che riflette sullo statuto teologico delle altre religioni e sul tipo di rapporto che esse possono eventualmente avere con la rivelazione e la salvezza cristiana. Iniziata prima del Concilio Vaticano II – cui ha fornito una solida preparazione – la teologia delle religioni si è poi ampiamente sviluppata nei decenni successivi e continua ad essere un campo di ricerca particolarmente ricco e stimolante. Oggi essa è una delle aree in cui la riflessione e il dibattito sono più intensi, anche perché coinvolge altri ambiti teologici fondamentali quali la cristologia e l’ecclesiologia. Il problema di fondo è come coniugare il ruolo positivo riconosciuto alle religioni con l’unicità della mediazione salvifica universale di Cristo.

 

Se questo è il quadro generale, che ha provocato un cambiamento epocale nella vita della Chiesa e nella teologia, passiamo ora a esaminare in modo specifico il rapporto con l’Islam e i musulmani presenti in Italia.

 

 

La Chiesa italiana e le relazioni con i musulmani

È solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso che la Chiesa italiana si è trovata coinvolta in modo crescente nella sfida di sviluppare relazioni interreligiose con i musulmani. Questa nuova frontiera si delinea nel contesto delle migrazioni internazionali che incominciano a interessare in modo consistente l’Italia. Ciò provoca l’emergere di un pluralismo religioso di nuovo tipo, caratterizzato in particolare dall’insediamento di una popolazione di varia origine nazionale. Nell’ultimo ventennio le dinamiche migratorie si sono intensificate e hanno provocato l’aumento della popolazione musulmana, quantificabile oggi a circa 2 milioni di persone. Mentre a livello ecumenico, sono molto numerose le comunità ortodosse provenienti dall’Europa orientale, le relazioni interreligiose in Italia sono lette essenzialmente come relazioni islamo-cristiane. Tale focalizzazione è dovuta non solo alla reale consistenza della componente religiosa islamica tra gli immigrati, ma anche alla maggiore problematicità che viene riconosciuta all’Islam, sia per l’interdipendenza esistente al suo interno tra dimensione religiosa, etico-politica e giuridica, sia per le dinamiche conflittuali che caratterizzano correnti rilevanti dell’Islam contemporaneo.

 

Diviene allora interessante analizzare, sia pure in modo sintetico, i due principali livelli attraverso i quali vengono prospettate in Italia le relazioni tra Chiesa e musulmani.

 

Il livello pastorale è senz’altro quello più consistente per la sua visibilità e per le sue ricadute. A fronte di un impegno deciso e “massiccio” per quanto riguarda l’assistenza materiale da portare agli immigrati di cui la Chiesa italiana si è fatta carico tramite i centri Caritas, i servizi della Fondazione Migrantes, nonché svariate iniziative di volontariato, fin dall’inizio è stata percepita con chiarezza la sfida culturale e religiosa che l’immigrazione e, in particolare, la nuova presenza musulmana, portava con sé. Tale percezione trovò una prima espressione pubblica nella lettera Noi e l’Islam scritta dal Cardinal Martini nell’ormai lontano 7 dicembre 1990, quando il fenomeno immigratorio era ancora agli inizi e poco regolamentato. Essa fu poi evidente anche nelle decisioni meno note, ma puntualmente assunte in alcune diocesi, di inviare dei preti a specializzarsi in scienze islamiche, al fine di poter disporre di persone adeguatamente formate per affrontare la sfida posta dalle relazioni con i musulmani. Queste scelte hanno permesso l’istituzione di Centri diocesani finalizzati al dialogo interreligioso e islamo-cristiano: è quanto avvenuto nella diocesi di Torino nel 1993 con l’erezione del Centro Federico Peirone per le relazione cristiano-islamiche e nella diocesi di Milano con la creazione del Centro Ambrosiano di Documentazione sulle Religioni (CADR, oggi Centro Ambrosiano di Dialogo con le Religioni) nel 1994. Decisioni simili, prese in un momento storico caratterizzato dalla crescente diminuzione di personale ecclesiastico attivo, mostrano che l‘investimento nel dialogo interreligioso con l’Islam è stato reputato una scelta prioritaria.

 

Tali iniziative testimoniano una certa determinazione della Chiesa italiana ‒ almeno in alcuni dei suoi settori ‒ spiegabile alla luce di quanto era avvenuto e stava avvenendo nei paesi europei di più antica immigrazione. In Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio infatti, la presenza musulmana aveva coinvolto direttamente la Chiesa, soprattutto in alcuni ambiti specifici quali i matrimoni misti, l’iscrizione di studenti musulmani alle scuole cattoliche, la frequentazione da parte di ragazzi musulmani degli oratori parrocchiali, nonché in modo più generale, i problemi sollevati da una comprensione diversa dei rapporti stato-società-religione rispetto alla tradizione europea. Tali situazioni avevano stimolato nella Chiesa la consapevolezza di dovere gestire rapporti costruttivi con le presenze musulmane sul territorio. Per tale scopo erano stati istituiti anche organismi specifici, come il Segretariato per le Relazioni con l’Islam della Conferenza Episcopale Francese (SRI), o gli uffici pastorali per le relazioni con i musulmani istituiti dalle Conferenze episcopali in Germania e Belgio. Sui vari temi di interesse pastorale sono stati progressivamente prodotti documenti ufficiali, frutto di impegno laborioso e qualificato, quali le schede pubblicate dal SRI in Francia o il documento della Conferenza Episcopale Tedesca sull’Islam e le relazioni islamo-cristiane in Germania[4].

 

Il coinvolgimento ormai avanzato di altri episcopati europei sulla questione dei rapporti con l’Islam ha senza dubbio costituito un elemento importante che ha favorito l’emergere precoce di un’analoga consapevolezza almeno in alcuni vescovi italiani. Non è un caso che il Cardinal Martini all’epoca della sua lettera Noi e l’Islam ricoprisse il ruolo di Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.

 

Ma vi è anche un altro canale, di più lungo periodo, che ha funzionato come veicolo di consapevolezza nei riguardi della presenza islamica e della complessità di cui essa è portatrice: si tratta dell’esperienza delle chiese cattoliche e ortodosse del Medio Oriente, “esperte” – in tutte le accezioni del termine – di una convivenza plurisecolare e problematica con l’Islam. La tradizionale subalternità dei cristiani nei paesi musulmani mediorientali, il regime anche legale di marginalizzazione esistente in molti campi – anche per quel che riguarda l’esercizio del culto pubblico – il divieto di missione e la negazione della libertà di coscienza ai musulmani stessi, fino alla mancanza di ogni forma di libertà religiosa in Arabia Saudita e, in definitiva, la stretta connessione tra diritto, religione e politica a completa tutela della supremazia dell’Islam, costituiscono un bagaglio di esperienza “oggettiva” trasmessa alle Chiese europee e alla Chiesa italiana. Da qui è scaturito un senso di solidarietà con le chiese minoritarie in ambito islamico e si è confermata la consapevolezza della sussistenza di tensioni culturali in atto tra l’Islam e la tradizione cristiana ed europea non solo su questioni dogmatiche, ma anche per quanto attiene alla sfera civile e politica.

 

Questa duplice esperienza di Chiese limitrofe – in ambito rispettivamente nord-europeo e mediterraneo – ha dunque costituito un retroterra di consapevolezza per i pastori della Chiesa italiana, o almeno per molti di essi.

 

 

Alcune iniziative concrete

Il documento del Cardinal Martini non ha mancato d’influenzare la pastorale della Chiesa italiana, aprendo prospettive interessanti di dialogo e integrazione. Esso deve però anche essere collocato in un periodo storico – gli anni Novanta – per molti aspetti diverso da quello attuale, in cui alcuni problemi sono emersi in modo più acuto. Si pensi al terrorismo internazionale, alla diffusione dei gruppi jihadisti in Medio Oriente e su scala globale, alla crescita dei gruppi islamici radicali attivi in Occidente.

 

La Conferenza episcopale italiana non si è finora pronunciata come tale sulla questione dei rapporti con l’Islam, se non in quei paragrafi dei documenti programmatici per i decenni pastorali che menzionano in modo generale il crescente pluralismo culturale e religioso. Bisogna attendere la primavera del 2005 per avere un documento della Presidenza della CEI dedicato al tema dei matrimoni islamo-cristiani. Tuttavia una serie di prospettive avanzate da Martini hanno trovato ampie convergenze.

 

La prospettiva dell’integrazione civile è certamente stata recepita dalla Chiesa italiana e talora ribadita con toni urgenti. Anche la richiesta di un supplemento di cultura per potere gestire in modo efficace le nuove sfide poste dalle presenze musulmane è stato almeno in parte recepito: come già si è detto, in molte diocesi è stato fatto uno sforzo notevole per “conoscere l’Islam”, avendo cura di fornire una presentazione corretta e, se necessario, critica. L’azione è stata capillare e mostra come la scelta della Chiesa italiana sia stata quella di favorire il dialogo interreligioso tra le persone e nella vita quotidiana, più che quello istituzionalizzato. Di quest’ultimo si possono tuttavia citare esperienze interessanti, quali i seminari di dialogo islamo-cristiano delle ACLI a Modena, oppure gli incontri organizzati da movimenti quali la Comunità di Sant’Egidio e il Movimento dei Focolari a Roma e in altre città. D’altra parte, la scelta a favore del dialogo nella vita quotidiana si sposa bene con l’opzione per l’integrazione civile, che non può che ottenersi incentivando la partecipazione nelle varie dimensioni della vita associata: lavoro, scuola, associazionismo, tempo libero[5].

 

Non si deve neppure nascondere il fatto che il dialogo istituzionale sia stato spesso frenato dal limitato interesse in materia mostrato dalla maggior parte delle moschee, accompagnato dall’oggettiva difficoltà a individuare nei responsabili musulmani degli interlocutori adeguati, anche sul piano della preparazione religiosa e culturale. La scarsa formazione degli imam li rende infatti generalmente poco adatti al ruolo di interlocutori in forme di dialogo interreligioso che abbiano un certo livello dottrinale e culturale. Si aggiunga che sovente i più propensi ad accettare il coinvolgimento in iniziative di dialogo sono esponenti di organismi musulmani di ispirazione neo-tradizionalista che, tramite il dialogo, intendono consolidare il loro ruolo di interlocutori nello spazio civile italiano. Per questo in ambito ecclesiale sorge talvolta il timore di concedere legittimazione tramite il dialogo interreligioso a forme di Islam poco propense a un inserimento armonico nel tessuto sociale, culturale e giuridico italiano. D’altra parte, persone più decisamente orientate a una piena adesione ai valori della cittadinanza italiana, con cui pongono in dialogo costruttivo la propria appartenenza religiosa, quali i membri dell’Associazione Giovani Musulmani d’Italia, risultano aperti, in linea di principio, al dialogo interreligioso, intendendo quest’ultimo essenzialmente dal punto di vista etico-sociale. Per mancanza di una formazione religiosa adeguata sul piano scientifico, essi tuttavia non sono in grado per ora di esprimere personalità capaci di elaborare riflessioni più propriamente attinenti alla sfera religiosa dottrinale[6].

 

Anche nel caso delle confraternite sufi, con cui il dialogo interreligioso potrebbe essere di grande interesse, non sono ancora emersi interlocutori stabili, ma solo occasionali, con l’eccezione della COREIS, che, prevalentemente composta da convertiti italiani e dai loro figli – nati musulmani –, è impegnata nel dialogo interrelgioso in modo intenso e qualificato.

 

Bisogna tuttavia notare che l’ultimo decennio ha visto diversi progressi nelle relazioni islamo-cristiane. L’esplosione del radicalismo islamico in Medio Oriente e le sue derive terroristiche in Europa hanno di fatto spinto ampie porzioni di musulmani in Europa a prendere le distanze da tali fenomeni e ad aprirsi in modo più attivo alle relazioni d’incontro e dialogo. Recentemente tali iniziative hanno anche assunto una prima espressione pubblica, con un coinvolgimento diretto dell’Ufficio per il Dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana. Nell’ottobre 2016 si è infatti tenuto un primo incontro tra il gruppo di lavoro sull’Islam di tale Ufficio e una ventina di leader musulmani appartenenti alle varie associazioni presenti in Italia. Questo primo incontro ha portato all’organizzazione di un più ampio seminario di confronto e di dialogo sulla solidarietà, che ha visto la partecipazione di molti rappresentanti musulmani e cattolici delle diverse diocesi italiane. Queste iniziative segnano certamente l’aprirsi di una nuova epoca, di cui sarà interessante seguire gli sviluppi e verificare la continuità.

 

Rispetto al lavoro interreligioso finora svolto dalla Chiesa italiana in rapporto ai musulmani, sembra interessante soffermarsi in particolare, per quanto sinteticamente, su tre prospettive che sono oggetto di particolare attenzione ecclesiale. Esse sono: la possibile comprensione dell’Islam da un punto di vista teologico cristiano, la pastorale dei matrimoni misti – che sono luoghi concreti di incontro interreligioso – e il coinvolgimento di ragazzi musulmani negli oratori.

 

 

Per un discernimento cristiano dell’Islam

Nella prima metà degli anni 2000 la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo) si è impegnata su un tema particolarmente delicato, avviando una seria riflessione sul possibile statuto teologico dell’Islam alla luce della rivelazione cristiana[7]. La teologia recente offre risposte diversificate sulla questione, all’interno di una più vasta ricerca in atto riguardante la teologia delle religioni. Tale ricerca, applicata in modo specifico all’Islam, ha portato all’elaborazione di alcune ipotesi di lavoro che cercano di portare un giudizio di valore sull’Islam a partire dalla fede cristiana, formata sulla conoscenza della Bibbia e della Tradizione della Chiesa.

 

Tra queste ipotesi di interpretazione teologica dell’Islam vi è la via abramitica – sostenuta da Louis Massignon e dal suo discepolo Yoachim Moubarac – che considera l’Islam all’interno della rivelazione speciale di Dio avente come asse la tradizione biblica, anche se l’Islam ne rappresenterebbe una derivazione secondaria e marginale dal punto di vista dei contenuti[8]. Recentemente la comprensione abramitica dell’Islam è stata riproposta da Karl-Josef Kuschel[9].

 

Altri studiosi valorizzano la dimensione profetologica, riconoscendo a Muhammad un qualche carisma profetico: su questa linea si situa il domenicano Claude Geffré, recentemente scompaso, il quale propone di considerare le religioni come mediazioni derivate dell’unica grazia di Cristo. Rimanendo all’interno della prospettiva cristologica inclusivista, Geffré considera le religioni come dotate di valori incoativi che trovano in Cristo il loro compimento e hanno nella sua grazia la loro origine, senza peraltro mancare di riconoscere il carattere ambiguo del religioso[10]. Su questa linea in rapporto all’Islam si pone anche Jacques Dupuis, il quale segue la posizione di Geffré nel riconoscere un qualche carisma profetico a Muhammad, senza peraltro valorizzare a sufficienza la conoscenza storica che oggettivamente Muhammad ebbe del Cristianesimo e dell’Ebraismo[11]. In effetti sia Geffré sia Dupuis sono forse troppo sommari nello sforzo di ricondurre l’Islam allo schema generale di teologia delle religioni che ciascuno di essi propone, senza da un lato valorizzarne a sufficienza la specificità in rapporto alle sue stesse origini sul piano storico, e senza distinguere in modo sufficientemente adeguato la questione della presenza di valori positivi nell’Islam dalla questione del carisma profetico di Muhammad[12].

 

Altri teologi, come Giovanni Rizzi, propongono di considerare l’Islam come una delle espressioni storiche della rivelazione noachica[13], riconducibile dunque alla rivelazione naturale; mentre secondo Maurice Borrmans, infaticabile attore del dialogo islamocristiano scomparso nel dicembre 2017, occorre situare l’Islam nell’ambito dell’alleanza adamitica “stipulata” da Dio con l’uomo al momento della creazione. La puntualizzazione di Borrmans intende per un verso situare l’Islam sull’asse della rivelazione naturale “generale”, mentre per altro verso intende valorizzare l’autocomprensione teologica che l’Islam stesso propone e che sarebbe riconducibile sinteticamente a una concezione di religione naturale[14]. Secondo Borrmans infatti, quando nella dottrina musulmana si tratta dei rapporti tra fede e ragione, viene normalmente affermato che le verità raggiunte dal filosofo e dal profeta sono le stesse, in quanto il primo le attinge tramite la sua ricerca intellettuale, mentre il secondo le riceve dalla misericordia di Dio e le trasmette al popolo in forma di storie e di parabole. Dunque il fenomeno della rivelazione consiste nel fare conoscere al profeta delle verità che il filosofo ha la capacità di scoprire da solo: alcuni potrebbero parlare di un soprannaturale “quoad modum” ma non “quoad substantiam”. Borrmanns precisa che l’Islam intende la rivelazione non tanto come autorivelazione di Dio (e attrazione alla comunione con Lui), ma come rivelazione delle modalità con cui nominarlo, adorarlo, ubbidire alla sua Legge, che regge la morale personale e sociale. L’Islam si comprende quindi come la religione naturale dell’uomo a partire dalla creazione – motivo per cui l’ateismo è considerato “contro natura” e le altre religioni sono intese come forme di corruzione causate dall’educazione errata rispetto all’identità religiosa musulmana in cui ciascuno naturalmente nasce. Per questo – conclude Borrmans – l’Islam si presenterebbe come espressione del patto adamitico e come tale – dunque come espressione specifica della rivelazione naturale – dovrebbe essere considerato dalla teologia cristiana.

 

Non è intenzione del presente saggio presentare e discutere in dettaglio l’insieme delle diverse letture teologiche dell’Islam sopra delineate. La loro sintetica presentazione è però sufficiente a mostrare la complessità del dibattito teologico in atto sull’argomento, peraltro ancora ai suoi inizi. Le diverse teorie proposte riconoscono nell’Islam valori positivi e ritengono che attraverso di esso si possa offrire a Dio un culto onesto. Ma nello stesso tempo, seppur con toni diversi, tutte sottolineano la disparità sul piano della rivelazione tra Cristianesimo (ed Ebraismo) da un lato e Islam e altre religioni dall’altro. Allo stesso tempo le varie proposte presentano differenze non secondarie nel tentativo di leggere teologicamente in modo più preciso il ruolo e il significato dell’Islam e dei suoi elementi di fede all’interno della storia salvifica e in rapporto con la rivelazione biblica.

 


I matrimoni misti

Come detto, fino al 2005 la Conferenza Episcopale Italiana non aveva mai discusso in modo formale tematiche relative alla presenza musulmana in Italia. Costituì dunque una novità il documento Indicazioni concernenti i matrimoni misti pubblicato il 29 aprile di quell’anno. La novità riguardava non tanto il tema, già accennato in precedenti testi, quanto il fatto che il documento fosse emanato dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana dopo un lungo itinerario di preparazione attuato da un’apposita commissione. Si presentava quindi come espressione autorevole della Chiesa italiana nel suo insieme.

 

Com’è noto, i matrimoni tra cattolici e musulmani – che rientrano nella più ampia categoria dei matrimoni di mista religione – possono celebrarsi con rito canonico solo se viene conferita al nubendo cattolico l’apposita dispensa per disparità di culto. Con l’aumento dell’immigrazione musulmana in Italia, i casi di matrimoni misti islamo-cristiani o di richieste per tale celebrazione, sono aumentati rispetto al recente passato, secondo una linea evolutiva simile a quella in atto in altri Paesi europei. D’altra parte, la problematicità posta in particolare da questa tipologia specifica di matrimonio, ha dato origine a preoccupazioni diffuse e a prassi spesso differenti a seconda delle diocesi. La finalità del documento è appunto quella di affrontare la questione in modo articolato così da proporre alcune linee di condotta fondamentali cui i vari ordinari diocesani sono invitati a conformarsi.

 

A fronte della problematicità dei matrimoni islamo-cristiani – provata dall’esperienza – il documento espone una serie di questioni fondamentali che occorre affrontare con la coppia che chiede la dispensa, al fine di verificare che entrambe le parti siano consapevoli di tutti gli aspetti riguardanti la tipologia concreta di matrimonio che intendono contrarre. In questo senso, l’indicazione generale di sconsigliare tali matrimoni si declina nell’offerta di percorsi concreti di discernimento da proporre alle coppie in questione per verificare l’esistenza effettiva delle condizioni per concedere la dispensa. Le indicazioni contenute nel documento mirano a esporre in modo chiaro una serie di punti relativi alle proprietà essenziali del matrimonio secondo la dottrina cattolica, la concezione giuridica e culturale del matrimonio nell’Islam, il problema dell’educazione religiosa dei figli ecc. Rispetto a tali punti, occorre accertarsi della consapevolezza dei nubendi prima di potere concedere la dispensa. Su tutte queste questioni il documento ha il pregio di presentare degli schemi sintetici che possono utilmente servire come guida al dialogo che un operatore pastorale specializzato deve avere con le coppie che chiedono di celebrare il matrimonio misto. Nel documento si chiede inoltre alle diocesi di fornire operatori pastorali specializzati (preti o laici) per seguire le coppie islamo-cristiane che chiedono di contrarre matrimonio, in modo da assisterle nel discernimento. Il parere dato dagli operatori pastorali sulla singola coppia sarà poi fondamentale per concedere o meno la dispensa. Nel caso in cui le singole diocesi non riescano a procurare una persona specializzata, si potrebbe forse pensare a più diocesi che collaborino su questo punto facendo riferimento al medesimo incaricato.

 

L’utilità del documento sta nel suo intento pastorale pratico: nel fatto cioè che offre un quadro sintetico della questione. Lo schema degli argomenti da verificare con la coppia, così come viene proposto dal documento, è esaustivo: resta tuttavia il delicato problema di calarlo nel concreto di un rapporto tra sacerdote – o operatore pastorale – e la coppia islamo-cristiana specifica che domanda il matrimonio religioso. Questo rapporto tra il sacerdote e ciascuno dei due membri della coppia è il contesto concreto in cui operare il discernimento, che non può che mirare al vero bene delle persone e che di fatto costituisce un’occasione reale di dialogo islamo-cristiano. La competenza richiesta al sacerdote o all’operatore pastorale è certamente alta; bisogna conoscere bene non solo la propria fede, ma anche i fondamenti di quella musulmana. Si tratta di conoscere anche il vissuto concreto delle società islamiche per sapere situare i vari casi ed entrare in un rapporto – anche critico, ma a ragion veduta – con la parte musulmana. In tale rapporto essa si dovrà però sentire riconosciuta e aiutata a capire se stessa e il progetto di vita matrimoniale che intende abbracciare. Per quel che riguarda il rapporto con la parte musulmana, è un’occasione preziosa – se la si sa utilizzare – per presentare gli aspetti essenziali della fede cristiana, mostrando come essi s’innervano e trovano espressione nel matrimonio cristiano. Nello stesso tempo la parte musulmana è interpellata a “dire se stessa”, entrando in dialogo attivo con la proposta cristiana di matrimonio. È tuttavia un momento prezioso anche per il futuro coniuge cristiano, il quale può essere spesso stimolato a riappropriarsi della sua fede in modo più consapevole e a porsi la questione di declinarla all’interno di un futuro vissuto coniugale e familiare caratterizzato dalla pluralità religiosa e culturale.

 

 

Giovani musulmani negli oratori cattolici

Gli oratori annessi alle parrocchie e alle istituzioni educative degli ordini religiosi sono ancora una presenza capillare in tutta l’Italia settentrionale, con esperienze significative, per quanto meno diffuse territorialmente, anche nel Centro e nel Sud. In questo senso gli oratori sono ancora uno spazio ecclesiale importante in cui si svolge la pastorale dei ragazzi e dei giovani.

 

Accanto agli oratori parrocchiali, particolarmente significativo è il ruolo degli oratori salesiani, che spesso esprimono competenze più elaborate e progettualità maggiormente sviluppate, specie nella proposta di programmi educativi in cui interagiscono pratica sportiva, formazione umana fondamentale e formazione specificamente cristiana.

 

Più di altri spazi ecclesiali, gli oratori sono diventati negli ultimi venticinque anni luoghi aperti alla frequentazione multietnica e multireligiosa. La percentuale dei ragazzi di origine straniera è variabile e corrisponde in linea di massima alla configurazione demografica e sociale del contesto urbano. Dato che la popolazione di appartenenza religiosa musulmana rappresenta una componente rilevante all’interno della componente immigrata, anche la presenza di minori e giovani musulmani all’interno degli oratori è una realtà significativa, attestandosi spesso su percentuali che vanno dal 15% al 30% e talora raggiungendo anche picchi del 40%[15]. Dal punto di vista della componente di genere, mentre tra i 6 e i 13 anni la percentuale dei maschi è solo leggermente superiore a quella delle bambine, dopo i 13 anni diviene di gran lunga prevalente.

 

Gli oratori vengono generalmente incontrati tramite il servizio del doposcuola, che introduce a partecipare alle attività sportive e ricreative. Queste ultime svolgono un ruolo molto efficace nel promuovere percorsi di interazione con coetanei italiani, per lo più cattolici. La partecipazione di bambini e ragazzi musulmani alle attività degli oratori è particolarmente intensa nel periodo estivo, durante la chiusura delle scuole: è il periodo in cui le parrocchie organizzano l’oratorio estivo – denominato GREST in Lombardia, Estate Ragazzi in Piemonte ecc. – che ha la caratteristica di abbracciare tutto l’arco della giornata per varie settimane senza soluzione di continuità.

 

Gli oratori salesiani, legati a un ordine religioso che considera la pastorale giovanile un elemento fondamentale della propria missione, in diversi casi propongono percorsi di formazione alla cittadinanza più espliciti, tramite attività di gruppo organizzate con il coinvolgimento di educatori professionisti. La socializzazione ai valori della cittadinanza italiana ed europea costituisce il percorso formativo di base proposto sia ai giovani di origine straniera (in gran parte musulmani) sia agli italiani. Gli oratori parrocchiali diocesani seguono percorsi più “pastorali”, cioè maggiormente incentrati sulla formazione religiosa e morale, e meno strutturati rispetto alle tematiche psico-antropologiche e giuridico-culturali.

 

In tali situazioni emerge con frequenza la questione della differenza religiosa all’interno di un’istituzione confessionale cattolica. Negli oratori si pone cioè la sfida di come sviluppare sensibilità e pratiche di dialogo interreligioso a partire dalla “vita vissuta insieme”[16].

 

Per limitarci ai ragazzi di origine musulmana, occorre precisare che in molti casi l’ignoranza religiosa è assai diffusa e il desiderio di Dio deve essere suscitato, invece di costituire un’esperienza già in atto. In altri casi i ragazzi si professano musulmani, ma senza avere una conoscenza adeguata della loro fede religiosa: normalmente si limitano a conoscere a memoria la formula della professione di fede e alcuni dopo i 16 anni si impegnano a osservare il Ramadan. Professione di fede e osservanza del Ramadan sembrano essere le uniche pratiche religiose in cui essi esprimono la propria identità islamica, insieme alle osservanze alimentari, sempre raccomandate dalle famiglie.

 

Per quel che riguarda la preghiera, negli oratori mai si è posta la questione della preghiera islamica, che di fatto non sembra normalmente praticata dai ragazzi che frequentano gli oratori; si è posta invece la questione della preghiera “insieme”. Solitamente si evita di lasciare isolati i ragazzi musulmani durante la preghiera cristiana, chiedendo piuttosto loro di partecipare ascoltando e pregando in silenzio secondo il proprio cuore. Tenuto conto che le preghiere in oratorio sono generalmente brevi e pensate per ragazzi, normalmente tale soluzione non suscita problemi.

 

Vi sono anche proposte e esperienze più rare di preghiera condivisa, con l’utilizzo di Salmi o di intenzioni spontanee. Le famiglie normalmente non obiettano a tali modalità; solo in qualche caso, il fatto di ripetere a casa le preghiere cristiane come fossero poesie apprese a memoria ha causato il ritiro di alcuni ragazzi dall’oratorio da parte dei genitori.

 

Certamente l’esperienza in oratorio consente ai ragazzi musulmani di conoscere il Cristianesimo non solo sperimentando l’accoglienza della comunità cristiana e condividendo molte pratiche con i loro coetanei cattolici, ma anche entrando in rapporto conoscitivo con i contenuti fondamentali della fede cristiana, anche solo partecipando come “testimoni” alla preghiera e alle catechesi, da cui si cerca di trarre valori morali validi per tutti.

 

Meno evidente è l’opposto, cioè la mediazione della conoscenza dell’Islam ai ragazzi cattolici da parte dei coetanei musulmani, che spesso si riduce alle pratiche sopra citate. Raramente infatti negli oratori si propongono interventi formativi sulla conoscenza delle diverse religioni, in particolare dell’Islam. Essi rimangono più uno spazio concreto, esperienziale, di incontro tra ragazzi di culture e religioni diverse, piuttosto che luoghi in cui la diversità religiosa viene assunta come elemento da approfondire anche nei suoi contenuti dottrinali. Bisogna però dire che i programmi di religione cattolica nelle scuole danno ampio spazio alle diverse grandi religioni, per cui il canale scolastico offre un contributo importante per una prima conoscenza della cultura religiosa musulmana.

 

I rapporti con le famiglie dei ragazzi musulmani sono per lo più minimali. Sono soprattutto le donne, le mamme, a interagire con la parrocchia e l’oratorio. Nella maggior parte dei casi esse sono grate per le opportunità offerte ai loro figli, talora anche “inedite” rispetto alla norma islamica tradizionale. Al momento non vi sono invece esperienze significative di rapporti tra responsabili di moschea e responsabili di oratorio in vista di collaborazione sul territorio. L’impressione è che i ragazzi più osservanti che frequentano le moschee o le scuole coraniche non frequentino gli oratori.

 

 

Spunti per l’avvenire

La lettura delle esperienze pastorali della Chiesa italiana nei confronti dell’Islam permette di affermare che essa ha saputo elaborare, anche in modo costruttivamente dialettico al proprio interno, alcune linee di interpretazione teorica e di azione pastorale. Di fatto è possibile verificare uno sviluppo progressivo positivo che dal 2015-2016 sembra anche segnato da una più decisa convizione e responsabilità attiva dei musulmani nell’aprirsi a relazioni di dialogo con le varie espressioni ecclesiali, inclusa quella nazionale. Probabilmente tale apertura è anche indotta dalle dinamiche di associazionismo interno, che con maggiore energia stanno aggregando i vari centri islamici e che contemporaneamente si attivano nelle relazioni con lo Stato[17]. La maggiore propensione a entrare in relazione con la società italiana include quindi spesso anche una maggiore valorizzazione delle relazioni interreligiose. Diviene allora importante per le istituzioni ecclesiali sul territorio intercettare tali dinamiche per sviluppare con maggior dinamismo e varietà esperienze e itinerari concreti di incontro e di dialogo che includano la solidarietà attiva. Se infatti il dialogo islamo-cristiano in Italia conosce ricche esperienze di dialogo della vita – tra cui le frequentazioni degli spazi ecclesiali da parte dei giovani, le famiglie miste, più raramente esperienze di dialogo in carcere e alcune esperienze teologico-culturali ‒ è ancora assai raro il dialogo della cooperazione, che si attua attraverso iniziative di solidarietà intraprese insieme da cristiani e musulmani per fare fronte a situazioni di marginalità. È proprio questa la prospettiva nuova a cui il dialogo si sta aprendo e di cui sarà interessante verificare i risultati, anche in termini di una maggiore integrazione interreligiosa nella società italiana.

 


[1]Lumen gentium, 17; Ad gentes, 3,9; Nostra aetate, 2.

[2] Per la presentazione delle diverse forme di dialogo interreligioso in rapporto alla missione della Chiesa, si veda: Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli – Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Dialogo e Annuncio, LEV, Roma 1991.

[3] Questa ambiguità si nota nella circolare del settembre 2004, inviata dal Ministero degli Interni italiano alle prefetture, avente come oggetto “il dialogo interreligioso”, con cui si chiede alle prefetture di creare tavoli di confronto con le diverse confessioni religiose presenti sul territorio di competenza. Non si intende qui mettere in dubbio la positività di tali iniziative, bensì l’utilizzo del termine “dialogo interreligioso” per definirle. Nella medesima prospettiva occorre sottoporre a vaglio critico la Dichiarazione sul dialogo interreligioso come fattore di coesione sociale in Europa e come strumento di pace nell’area mediterranea, adottata dai Ministri dell’interno dell'Unione europea e fatta propria dai Capi di Stato e di Governo durante il Consiglio europeo di Bruxelles del 12 dicembre 2003: tale dichiarazione ha infatti l’aspetto positivo di riconoscere il ruolo delle religioni nelle società civili contemporanee e l’importanza del dialogo interreligioso per promuovere assetti sociali condivisi, ma ripropone l’urgenza di riconoscere il ruolo autonomo delle confessioni religiose sul piano dell’esecuzione concreta del dialogo.

[4] Secrétariat pour les Relations avec l'Islam, Les mariages islamo‑chrétiens, Dossier, Paris 19861, 19952, 20053; Commission Interdiocesaine pour les relations avec l’Islam, Les mariages islamo‑chrétiens , Bruxelles s.d; Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz, Christen und Muslime in Deutschland. Eine pastorale Handreichung, Arbeitshilfen n°106, Bonn 1993 (trad. it.: Segretariato della Conferenza Episcopale Tedesca, Cristiani e musulmani: una convivenza possibile?, Edizioni Centro Peirone, Torino 1996).

[5] Andrea Pacini (a cura di), Chiesa e Islam in Italia, Paoline, Milano 2008.

[6] Jocelyne Cesari, Andrea Pacini (a cura di), Giovani musulmani in Europa, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005; Annalisa Frisina, Giovani musulmani d’Italia, Carocci, Milano 2007.

[7] Mariano Crociata (a cura di), Per un discernimento cristiano sull’Islam, Città Nuova, Roma 2006.

[8] Louis Massignon, L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, Medusa Edizioni, Napoli 2002; si veda anche Giuseppe Rizzardi, Louis Massignon. Un profilo dell’orientalista cattolico, Glossa, Milano 1996.

[9] Karl-Josef Kuschel, La controversia su Abramo, Queriniana, Brescia 1996.

[10] Claude Geffré, Le Coran: une parole de Dieu differente?, «Lumière et Vie», 32 (1983), pp. 21-32; Idem, La théologie des religions non chrétiennes vingt ans après Vatican II, «Islamochristiana» 11 (1985), pp. 115-133; Idem, Théologie chrétienne et dialogue interreligieux, «Revue de l’Institut Catholique de Paris» 38 (1991), pp. 63-82 ; Idem, La singolarità del cristianesimo nell’età del pluralismo religioso, «Filosofia e Teologia» 6i (1992), pp. 63-82.

[11] Si veda Jacques Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997, pp. 331-333.

[12] Andrea Pacini, Cristologia e teologia delle religioni. La proposta di Jacques Dupuis nel contesto dell’attuale dibattito teologico sul pluralismo religioso, in Oreste Aime, Giuseppe Ghiberti, Giuseppe Tuninetti (a cura di), In sequela Christi, Studia Taurinensia 13, Effatà Editrice, Torino 2003, pp. 149-221, qui in particolare pp. 217-220.

[13] Giovanni Rizzi, La categoria del noachismo: per una comprensione cristiana dell’islam, in Giovanni Rizzi, Adriano Caglioni, Raffaella Redaelli, Il patto con Noè, Edizioni Lussografica, San Cataldo-Caltanissetta 2001, pp. 25-63.

[14] Maurice Borrmans, Per un discernimento cristiano della religione musulmana, in Mariano Crociata, op. cit., pp. 145-167, qui pp. 157-167.

[15] ISMU, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.

[16] ISMU, FOM; Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

[17] Maria Bombardieri, Moschee d’Italia: il diritto al luogo di culto, il dibattito sociale e politico, EMI, Bologna 2011.

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