Rompendo un tabù, l’ambasciatore degli Emirati arabi a Washington Youssef al-Otaiba, ha preso esplicitamente posizione a favore della separazione tra religione e politica

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:05

Durante un recente intervento alla Hoover Institution a Stanford, l’ambasciatore emiratino negli Stati Uniti Youssef al-Otaiba, incluso dal Time tra le 100 personalità più influenti del 2020, ha affermato che sia lui sia il suo governo credono fermamente nella separazione tra Stato e religione. Non è la prima volta che il potente diplomatico si esprime in questi termini. Già nell’agosto del 2017, al-Otaiba aveva spiegato la crisi con il Qatar, scoppiata due mesi prima, nei termini di un conflitto tra visioni divergenti del Medio Oriente, che il suo Paese voleva più «laico e più stabile»: parole certamente calibrate per un pubblico occidentale, ma che, come vedremo, riflettono effettivamente il nuovo corso della politica degli Emirati.

 

Un dibattito ricorrente

 

Sono quasi due secoli che il tema della laicità viene discusso nel mondo arabo-musulmano. Furono gli intellettuali arabo-cristiani a sollevare per primi la questione, imputando alla commistione tra politica e religione la decadenza dell’Impero ottomano. Nel 1861, il letterato libanese Boutrous al-Boustani invitava i suoi compatrioti a stabilire una linea di demarcazione tra questi due ambiti, pena la rovina di entrambi. All’inizio del Novecento un altro intellettuale libanese cristiano, Farah Antun, ebbe su questo tema un prolungato dibattito con Muhammad ‘Abduh, figura di punta del riformismo islamico. Antun, imbevuto di positivismo, vedeva nell’opzione secolare la chiave del progresso europeo. In risposta ‘Abduh avanzava due argomenti: in primo luogo, l’assenza di un clero nell’Islam avrebbe reso impossibile la distinzione tra autorità temporale e spirituale. In secondo luogo, il riformista musulmano egiziano, influenzato indirettamente dall’Illuminismo, vedeva la laicità europea come un percorso di emancipazione dall’oscurantismo ecclesiale. Dato che, a suo avviso, l’Islam coincideva con la razionalità moderna, non c’era alcuna necessità di spodestarlo dalla guida della società, a differenza di quanto era avvenuto con la Chiesa Cattolica.

 

Nel corso di questi e altri dibattiti, intanto, la parola araba per tradurre “laicità” subì una curiosa mutazione, favorita dall’indeterminatezza vocalica della grafia araba: ‘almāniyya, derivato da ‘ālam  “mondo” (prestito lessicale dal siriaco ‘ōlam, con un significato affine al latino saeculum), divenne ‘ilmāniyya (da ‘ilm, scienza). Se dunque nel lessico arabo cristiano premoderno ʿalmānī (“laico”) si contrapponeva – e si contrappone tuttora in alcuni casi – a religioso/sacerdote, lo slittamento semantico prodottosi con la nuova vocalizzazione consacrava l’opposizione tra religione e scienza postulata da diversi pensatori positivisti.

 

Al di là degli aspetti etimologici, peraltro fonte di infiniti malintesi fino a oggi, la discussione si è periodicamente riaccesa, superando i confini confessionali. Se infatti è vero che la richiesta di distinguere tra politica e religione continua a trovare tra i cristiani un uditorio particolarmente sensibile, l’idea nell’ultimo secolo e mezzo è stata abbracciata anche da un numero certo minoritario, ma non irrilevante, di intellettuali musulmani, alcuni dei quali hanno pagato personalmente per le loro convinzioni. Solo per citare un paio dei casi più celebri, tratti entrambi dalla storia egiziana, nel 1925 ‘Ali ‘Abd al-Raziq, giurista formatosi ad al-Azhar, dovette lasciare la magistratura per aver scritto che l’Islam non esige l’istituzione di uno Stato; nel 1992 l’ attivista per i diritti umani Farag Foda fu assassinato da un commando islamista per le sue prese di posizione a favore della laicità.

 

Nemmeno i regimi arabi nazionalisti e socialisti, spesso etichettati a torto come “laici” per le loro politiche di modernizzazione, hanno voluto o potuto rinunciare davvero a una legittimazione religiosa, con l’unica eccezione della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen che tra il 1967 e il 1990 adottò in toto il marxismo. Per questo motivo il filosofo siriano Sadiq al-‘Azm (1934-2016), nella sua spietata disamina della sconfitta degli eserciti arabi nella Guerra dei Sei Giorni (di cui abbiamo riproposto alcuni passaggi nell’ultimo numero della nostra rivista), scriveva che «scienza e modernità significano laicità e separazione della religione dallo Stato» e accusava i dirigenti politici arabi di non aver «avuto il coraggio di parlare chiaramente al riguardo invece di avviluppare la verità con verbosità roboanti e generiche».

 

Il primato della scienza

 

Se Primavere arabe e violenza jihadista hanno aperto una nuova stagione di dibattiti sul rapporto tra religione e politica, l’orientamento di molti leader arabi non è cambiato: a essere messo in discussione non è in genere l’uso politico della religione, ma il modo in cui quest’ultima viene interpretata. Si è così assistito al proliferare di appelli alla moderazione, alla tolleranza e al rinnovamento del discorso religioso, non alla laicità dello Stato. Qualche eccezione c’è stata. Nel 2018, l’allora presidente tunisino Béji Caid Essebsi aveva proposto di riformare il diritto successorio e quello matrimoniale, due ambiti che erano ancora parzialmente regolati in base alla giurisprudenza islamica tradizionale, invocando di fatto la necessità di distinguere tra l’ordine civile e quello religioso. Delle due riforme, quella sui matrimoni misti è andata in porto, mentre quella sul diritto successorio è stata insabbiata. Poco dopo, nel settembre 2020 il Sudan è ufficialmente diventato uno Stato laico attraverso una dichiarazione costituzionale che intende voltare pagina rispetto a trent’anni di dittatura, egemonia islamista e collusione con il terrorismo jihadista.

 

Ma, per riprendere le parole di al-‘Azm, quasi nessun dirigente politico ha mai «parlato chiaramente» sulla questione, anche quando operava nei fatti in quella direzione. Che sia stato l’ambasciatore al-Otaiba a rompere il tabù non stupisce. Da alcuni anni gli Emirati hanno intrapreso un cammino di allontanamento dalle tradizionali cause panislamiche e panarabe, culminato nella partnership instaurata ufficialmente con Israele tramite gli Accordi di Abramo, e puntano ad affermarsi come Paese dinamico e all’avanguardia globale. Certo, invocare la separazione tra Stato e religione può essere fuorviante. L’articolo 7 della Costituzione emiratina fa dell’Islam la religione dello Stato e della sharī‘a la principale fonte della legislazione. Inoltre, se l’attuale leadership non fa mistero di non gradire le interferenze della religione nella politica, soprattutto quando si tratta di rivendicazioni islamiste, altrettanto evidente è il suo ricorso alla religione come strumento diplomatico. Si ripete dunque l’equivoco che, confondendo modernizzazione e secolarizzazione, ha permesso ad alcuni regimi arabi di presentarsi all’Occidente come bastioni della laicità? Solo fino a un certo punto. Bisogna infatti considerare la novità che gli Emirati rappresentano.

 

Come ha scritto il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla commentando la scorsa estate il lancio della sonda “Speranza” e l’avvio di una centrale nucleare nel suo Paese, «la leadership emiratina crede nella scienza e ascolta gli scienziati. […] Gli Emirati si sono allontanati dalle ideologie e dai discorsi ideologici demagogici, dando la priorità assoluta all’economia, allo sviluppo, al sapere e hanno investito con forza nelle infrastrutture e nel digitale, riuscendo nel corso degli ultimi cinquant’anni a realizzare i propri obiettivi». Questo primato del sapere e dello sviluppo è stato consacrato dalla recente promulgazione della legge che, rompendo un altro tabù, consente a scienziati, medici, ingegneri e intellettuali stranieri residenti negli Emirati di acquisirne la cittadinanza. La laicità “alla emiratina” viene così a coincidere con il primato della scienza, avvalorando in un certo senso la pseudo-etimologia di ‘ilmāniyya affermatasi nel corso della modernità araba. Non mi sembra azzardato leggervi una riedizione del sansimonismo, il movimento ottocentesco per cui la società dovrebbe essere governata un’aristocrazia di tecnici e scienziati: un progetto che sembrava relegato ai manuali di storia del pensiero europeo, ma è tornato alla ribalta mondiale con la globalizzazione tecnocratica di cui gli Emirati hanno mostrato di aver pienamente colto la logica.

 

Paradossalmente, dunque, l’emancipazione dalla religione e l’adesione senza riserve a scienza e modernità non solo non è stata prodotta dalla rivoluzione auspicata da al-‘Azm alla fine degli anni ’60, ma anzi è avvenuta in uno dei Paesi che forse più si è speso per arginare l’ondata rivoluzionaria del 2011.

 

È un’ironia della sorte, ma non un accidente storico: nel 1967 al marxista Sadiq al-‘Azm sfuggiva infatti quello che invece aveva capito il cristiano anarchico Jacques Ellul con la sua Autopsia della rivoluzione: «La tecnica produce una società tendenzialmente conservatrice, integratrice, totalizzante, nel momento stesso in cui porta con sé enormi cambiamenti. […] La tecnica è antirivoluzionaria, ma per i “progressi” effettuati dà l’impressione che tutto cambi, mentre soltanto si modificano forme e mezzi».

 

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