Una canzone arcinota, dall’Atlantico al Golfo, e diffusasi in una grande varietà di adattamenti. Alcuni suscitano un senso di nostalgia, altri incitano alla rivoluzione. Tutti dicono che una patria rimane tale anche quando viverci è un inferno

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 12:38:46

Il classico di oggi è forse la canzone più famosa di tutta la rubrica T-arab: dal Marocco all’Iraq, la stragrande maggioranza delle persone arabofone saprebbe infatti canticchiarla.

Nonostante ciò, il brano si è diffuso in una tale varietà di contesti che sarebbe difficile rintracciare tutti i suoi adattamenti e le conseguenti (intricate) valenze sociopolitiche di ognuno di essi. A titolo di esempio, una sua celebre versione è stata oggetto di studio di una tesi dottorale che si interroga sulla nostalgia che il brano suscita negli sfollati siriani in Giordania. Ma facciamo un passo indietro.

 

Se oggi qualcuno canticchiasse Janna yā watannā (“Il nostro Paese è un paradiso”) la mente di molti ascoltatori andrebbe subito alla Siria del 2011, e nello specifico a Homs (e forse, ancora più precisamente, ad al-Khalidiyya). Janna yā watannā sarebbe allora una delle tante melodie che sono risuonate nelle prime proteste antigovernative, in una sorta di  “guerra di canzoni” su cui molto è stato scritto.

 

Nel caso siriano dunque, la versione che verrebbe subito alla mente sarebbe quella amatoriale (poi abilmente ri-arrangiata) di Abdul Baset al-Sarout, portiere della squadra al-Karāma under-20 di Homs, una promessa del pallone. Un personaggio che rappresenta perfettamente la spaccatura che si stava creando nella società siriana: eroe calcistico e popolare delle proteste siriane antiregime per alcuni, terrorista per altri, denunciato dal suo stesso club per aver lottato «contro la Patria», e morto infine in combattimento nel 2019, a 27 anni (un suo ritratto lo si trova nel documentario Ritorno a Homs di Talal Derki, 2013).

 

Lo scarno adattamento canticchiato da un giovane portiere diventa nel giro di pochi giorni una delle melodie di protesta più conosciute e ricorrenti, gridata a gran voce da migliaia di siriani (e cantata ancora oggi). Il motivo è semplice: il testo “originale” è un inno all’amor di Patria (che è un Paradiso, anche quando viverci è un inferno) e la versione di al-Sarout lo rivisita in chiave “siriana” (qui una valida traduzione), menzionando altre città in rivolta o attaccando frontalmente il regime.

 

È solo da quel momento che il brano acquista una valenza marcatamente “rivoluzionaria”, complici non solo la diffusione sui social, ma anche la capillarità della diaspora siriana (a titolo d’esempio: per le strade di Istanbul, nella città di Tessaloniki, nei campi profughi in Libano, etc.) e la struttura della canzone  (un botta e risposta tra un solista e un coro di voci).

Ve lo ricordate Khat Thaleth, l’album a cui hanno collaborato vari rapper della regione? Una versione di Janna yā watannā firmata El Rass e El Far3i (il primo è una nostra vecchia conoscenza; il secondo, in cui ci siamo già rapidamente imbattuti, sarà il protagonista di una prossima puntata) inizia proprio con la voce di al-Sarout che canticchia le prime strofe, per poi lasciar spazio alle voci dei due rapper, che dicono:

 

«Questa canzone non è solo per la Siria, non “orientalizzare” con me, dicendo che il paradiso è un’illusione. Quando dico che “la mia Patria è un paradiso” intendo dire che è un “sogno” [da realizzare] e non “vergini” [in riferimento al termine coranico hūr]. Non sono stregato dalla sua bellezza, bensì sono responsabile della sua bellezza. Il mio Paese è un pezzo di cielo e i suoi esseri umani sono sottoterra. Con una scala musicale tentiamo di elevarci a… libertà».

 

Eppure, la canzone era già conosciuta in Siria ben prima degli eventi del 2011, nella versione dalla valenza più “nazionalistica” del cantante As‘ad al-Jābir (morto proprio nel 2011 a Raqqa). Non solo: esistevano anche versioni libanesi, palestinesi, giordane (o supposte tali, in una sorta di continua “riappropriazione” di un inno patriottico così bello e così “arabo”). Per non parlare della versione marocchina, già conosciuta nell’interpretazione del 1988 di Jedwan.

 

È forse questo l’Urtext? Nemmeno. La canzone originale pare essere irachena: interpretata dal cantante Ridā al-Khayyāt, scritta dal poeta Karīm al-‘Irāqī e composta da ‘Ibādī ‘Abd al-Karīm o secondo altre fonti dal più famoso Ja‘far al-Khaffāf, è stata registrata per la prima volta intorno agli anni ’70 e sicuramente prima del 1982 (come si vede in questo interessante video “storico”).

 

Insomma, una canzone che permette di fare il giro del mondo arabo. Fa quasi piacere che a pareggiare la fama della versione siriana sia quella orchestrale e da milioni di visualizzazioni del cantante Majed al-Mohandes: un talentuoso iracheno, quasi a voler chiudere il cerchio.

 

D’altronde, come canta lui in questa esibizione dal vivo (cambiando ogni volta il testo per menzionare numerosi Paesi arabi) e come ci insegnano i tanti libri e capitoli della letteratura araba premoderna intitolati al-hanīn ilā al-watan (“la nostalgia per la Patria”), nel bene e nel male, qualunque Patria, anche quando è un inferno, è pur sempre casa.

 

Canzone: Janna yā watannā

Artista: Ridā al-Khayyāt (Majed al-Mohandes)

Anno: ’70

Nazionalità: Iraq

 

 

Le altre versioni: 

- quella amatoriale del portiere siriano Abdul Baset al-Sarout

- quella di El Rass e El Far3i

- quella libanese

- quella giordana

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

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Il nostro Paese è un paradiso [1]

 

Paradiso, paradiso, paradiso

il nostro Paese è un paradiso

O nostro amato Paese,

il tuo suolo è dolce

anche il tuo inferno è paradiso

 

[degli] Ornamenti, ornamenti, ornamenti

portiamo tra le mani

e chiamiamo allegramente

nei villaggi e nelle città

chiamate,[2] o gente nostra!

 

Volteggiate, volteggiate, volteggiate,

o gabbiani, volteggiate

Pure le spine del mio Paese

Sono [per me] gelsomini e rose damascene

e il loro profumo è paradisiaco

 

Di casa in casa, vengo a visitarti

E giro di dimora in dimora

La mia paura, amore mio

è di morire senza rivederti

O terra della tenerezza

O terra di tutti noi[3]

 

جنة يا وطنا

 

جنة جنة جنة والله يا وطنا

جنة جنة جنة والله يا وطنا

يا وطن يا حبيّب يا بو تراب الطيب

يا وطن يا حبيّب يا بو تراب الطيب

حتى نارك جنة
حتى نارك جنة

 

زينة زينة زينة نحمل بإيدينا

زينة زينة زينة نحمل بإيدينا

وندعي بالسعادة القرية والمدينة
وندعي بالسعادة القرية والمدينة

ادعوا يا أهلنا
ادعوا يا أهلنا

 

دوري دوري دوري يا نوارس دوري
دوري دوري دوري يا نوارس دوري

حتى شوك بلادي ياسمين وجوري
حتى شوك بلادي ياسمين وجوري

عطره من الجنة
عطره من الجنة

 

دار دار أزورك وبيت بيت أطوفك
ودار دار أزورك وبيت بيت أطوفك

خوفي يا حبيبي أموت وما أشوفك
خوفي يا حبيبي أموت وما أشوفك

يا أبو المحنّة

يا أبونا كلنا

 


[1] Il testo qui tradotto è la parte condivisa dalle diverse versioni qui menzionate. Come già indicato, per il famoso adattamento “siriano” si veda questa valida traduzione.

[2] Si sottintende un invito, una chiamata a raccolta, alla “forza, venite gente!”.

[3] Lett. “Padre” e non “Terra”. “Padre” si riferisce a “Patria” (entrambi maschili in arabo), che abbiamo optato di rendere con “terra” (sottointeso di appartenenza, “familiare”).

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