Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:09
Quando lunedì abbiamo iniziato a osservare le notizie per il nostro focus attualità siamo rimasti colpiti dalla quantità di crisi che attraversano l’Africa. Per questo la prima parte del testo si concentra sulla situazione in diversi Paesi africani, mentre la seconda riguarda le conseguenze della dichiarazione di Biden sul genocidio degli armeni e la terza la diffusione di un audio teoricamente segreto del ministro degli Esteri iraniano Zarif. Nell’approfondimento dalla stampa araba invece ci occupiamo della Vision di MbS, della situazione in Algeria e delle dichiarazioni che arrivano dall’Oman riguardo a una nuova Primavera araba.
Somalia
Il presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed (Farmajo) è finito sotto attacco dopo che la Camera bassa ha approvato l’estensione di due anni del mandato del presidente e del governo. In Somalia le elezioni erano previste per febbraio. La Camera alta, insieme all’Unione Africana, ha condannato la scelta e a Mogadiscio sono scoppiati disordini. L’Associated Press stima in «centinaia» i soldati «in rivolta che – ancora in uniforme – hanno occupato posizioni chiave nella zona settentrionale» della capitale. La maggior parte di essi farebbe parte dei clan di due ex presidenti che avevano promesso di allontanare con la forza Farmajo nel caso in cui non fosse tornato sui suoi passi. Hassan Sheikh Mohamud, uno dei due ex presidenti, ha inoltre accusato Farmajo di aver organizzato un attacco contro la sua casa.
La Somalia si trova in «un territorio sconosciuto, di nuovo vicina al collasso totale», ha dichiarato a Le Monde Hussein Sheikh-Ali, presidente dell’Istituto Hiraal di Mogadiscio. Le radici dell’instabilità, sostiene il quotidiano francese, vanno ricercate nei contrasti del presidente somalo con i leader di due dei cinque stati semiautonomi della Paese: il Puntland e l’Oltregiuba.
La mossa di Farmajo, il cui Paese è tenuto a galla economicamente dall’aiuto della comunità internazionale, lo pone in rotta di collisione anche con gli alleati occidentali e con l’ONU. Ma, come spiega ancora Le Monde, Farmajo può contare «sul sostegno di Qatar e Turchia, oltre a quello dei suoi alleati regionali, l’Eritrea e l’Etiopia». Intanto il gruppo jihadista al-Shabab, che cerca di sfruttare a proprio favore l’impasse etichettando come «avida e incompetente» la classe politica al potere, è passato all’attacco, provocando almeno sette vittime in un attentato a Mogadiscio.
Etiopia
Nel Tigrai la situazione continua ad aggravarsi e oltre alle violenze si affaccia il rischio di carestia. Quanto avviene in Etiopia, che è anche al centro di una gravissima disputa con Egitto e Sudan sulle risorse idriche della regione, ha destato la preoccupazione del segretario di Stato americano Antony Blinken. Il “ministro degli Esteri” americano ha intimato ai soldati che dall’Eritrea sono entrati nel Tigrai per combattere di ritirarsi «immediatamente, completamente e in maniera verificabile» dalla regione, dove già in precedenza aveva detto esserci in atto una «pulizia etnica».
La situazione sul campo rende difficile verificare le notizie, ma negli ultimi mesi sono emersi report credibili sui crimini di guerra e contro l’umanità che si stanno verificando. Secondo quanto scrive Vox, da novembre sono oltre 60.000 i rifugiati tigrini in Sudan, e 4.5 milioni di persone (su un totale di 6 milioni di abitanti) hanno bisogno di aiuti alimentari. Nella sua offensiva contro il Tigrai il premier etiope Abiy Ahmed usufruisce sia dei soldati eritrei che delle milizie amara e questo rischia di esacerbare ulteriormente le profonde tensioni etniche del Paese (che nelle regioni di Ahmara e Oromia, sfociano nella violenza). Inoltre, così facendo, Abiy «ha messo la sua sopravvivenza politica nelle mani di Ahmara ed Eritrei», ha detto Asaf Jalata, dell’Università del Tennessee a Vox.
La preoccupazione per l’area è così elevata che il Dipartimento di Stato americano ha creato appositamente il ruolo di inviato speciale per il Corno d’Africa e nominato Jeffrey Feltman quale suo rappresentante. In Etiopia, scrive Foreign Policy, «crisi multiple minacciano di disgregare l’intera regione». Nell’intervista concessa da Feltman al magazine statunitense, il diplomatico americano ha affermato che la priorità del suo mandato sarà risolvere la questione del Tigrai. Feltman ritiene infatti che se il conflitto degenerasse su scala regionale, considerato il peso demografico dell’Etiopia si verificherebbe una tale emergenza umanitaria da far impallidire quella in atto in Siria. Ma come dicevamo le crisi sono multiple: il Tigrai, il contrasto con il Sudan (che a sua volta si trova nel bel mezzo di una transizione politica) sui confini, la disputa sulla Grande Diga del Rinascimento con Egitto e proprio Sudan, oltre all’instabilità nella vicina Somalia.
Ciad
La settimana scorsa avevamo aperto il nostro focus attualità parlando del Ciad. La tensione continua ad essere alta dopo la morte del presidente Deby. Come riporta Le Monde martedì si sono verificati almeno cinque morti nelle manifestazioni scoppiate nella capitale e uno a Moundou (seconda città del Paese). L’opposizione ciadiana denuncia il comitato militare di transizione come «un organismo illegale e illegittimo nominato dalla Francia, che pensa di imporre ai ciadiani una nuova dittatura militare», mentre il generale Mahamat Idriss Deby, “Kaka”, ha promesso di organizzare un dialogo nazionale inclusivo e di mantenere gli impegni assunti dal Ciad a livello internazionale. Il presidente francese Macron, unico tra i capi di Stato occidentali a partecipare ai funerali di Deby, da un lato ha garantito il sostegno al Ciad ma dall’altro ha condannato «con la massima fermezza» la repressione delle proteste.
Cécile Petitdemange su Jeune Afrique sottolinea che la creazione di una giunta militare non può «nascondere la debolezza delle istituzioni ciadiane e le fratture del Paese», anche perché Deby figlio «non ha l’aura del padre e non ha che il cognome a dargli legittimità presso l’esercito ciadiano».
Samuel Ramani ha spiegato quali sono le relazioni del Ciad con i principali Paesi mediorientali: N’Djamena non è facilmente collocabile all’interno della disputa che vede Qatar e Turchia opposti a Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Storicamente il Ciad ha rapporti cordiali con la Turchia, rinsaldati da una storica visita di Erdogan nel 2017. Un fatto visto con preoccupazione dal Cairo, che considera Ciad e Senegal i due principali punti di penetrazione turca in Africa. Ma negli ultimi anni il Paese di Deby si è avvicinato agli Emirati (con cui ha più che raddoppiato l’interscambio commerciale), ha partecipato al blocco contro il Qatar e allacciato contatti di alto profilo con Israele. Secondo Ramani le dichiarazioni di sostegno al consiglio di transizione militare ciadiano suggeriscono che i Paesi della regione MENA eviteranno di giocare le loro divisioni sul Ciad, evidenziando così la loro preferenza per la “stabilità autoritaria”.
Mozambico
A inizio aprile avevamo parlato dell’attacco jihadista alla città di Palma, in Mozambico. Torniamo a queste latitudini perché in settimana, proprio a causa delle violenze perpetrare dal gruppo legato all’ISIS, l’imponente progetto energetico (valore stimato 20 miliardi di dollari) gestito dalla francese Total sembra naufragare. L’azienda francese ha infatti annunciato l’interruzione di tutte le attività per “cause di forza maggiore” e il futuro economico del Mozambico, intimamente legato allo sfruttamento del suo potenziale nell’ambito del gas naturale liquefatto, appare grigio. La dichiarazione di cause di forza maggiore, ha dichiarato Daniel Driscoll all’Associated Press, non si fa a cuor leggero: essa infatti equivale ad un’“opzione nucleare” e può essere interpretata come un segnale della persistente instabilità nel prossimo futuro. Secondo Tim Lister Total potrebbe conseguentemente spostare l’investimento su altri progetti, mentre le attività dell’Eni sembrano al sicuro, non basandosi su infrastrutture onshore.
Nigeria
Alla periferia di Maiduguri, capitale dello Stato nigeriano di Borno, almeno 31 militari sono deceduti in seguito a un’imboscata compiuta da forze affiliate allo Stato Islamico. Dall’inizio della ribellione di Boko Haram nel 2009, la lotta contro le forze islamiste in Nigeria è costata la vita a 36.000 persone e ha provocato oltre due milioni di sfollati, spiega Le Monde. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che Boko Haram avrebbe raggiunto lo Stato federato del Niger (da non confondere con il Niger, Paese a Nord della Nigeria), non troppo distante dalla capitale Abuja.
Tuttavia, come riporta il Financial Times, quella jihadista non è l’unica minaccia a cui deve rispondere il presidente Buhari. In Nigeria infatti «una combinazione di crescita demografica esplosiva, disoccupazione dilagante, forze di sicurezza scarsamente finanziate e incompetenti, e il facile accesso alle armi leggere, ha reso il banditismo un’industria in rapida ascesa». Secondo il quotidiano inglese è proprio il banditismo, che si arricchisce soprattutto grazie ai rapimenti, a rappresentare la «più seria minaccia alla sicurezza» del Paese. La crisi legata ai rapimenti inoltre, prosegue il FT, sta infiammando le tensioni etniche nigeriane. Per dare un’idea del fenomeno, al quale il presidente Buhari ha ammesso di non poter porre rimedio con le forze dell’esercito, si consideri che il numero di persone rapite l’anno scorso è più del doppio di quelle rapite da Boko Haram al suo apice, nel 2014. Dato che i banditi prendono di mira soprattutto le scuole i banditi stanno contribuendo, in una sorta di eterogenesi dei fini, a raggiungere proprio uno degli obiettivi degli islamisti: eliminare l’istruzione occidentale, in particolare femminile dal Paese.
Sud Sudan
Nella notte tra domenica e lunedì due persone armate hanno fatto irruzione nella casa di monsignor Christian Carlassare, missionario comboniano e vescovo eletto di Rumbek in Sud Sudan, sparandogli alle gambe. Monsignor Carlassare è stato trasportato a Nairobi e non è in pericolo di vita. Un’ipotesi è che la nomina di Carlassare alla guida di una diocesi a maggioranza dinka non sia andata giù a qualcuno, a causa del suo precedente impegno con la rivale comunità nuer. Su Avvenire la ricostruzione degli eventi.
Burkina Faso
In Burkina Faso, nella zona del parco nazionale di Pama un commando composto da due pick-up e una dozzina di moto ha assaltato una pattuglia antibracconaggio di cui facevano parte anche due giornalisti spagnoli (David Beriáin e Roberto Fraile) e un attivista irlandese (Rory Young), poi assassinati. Come riporta il Guardian, nessuno ha finora rivendicato l’attacco, ma nella zona è in corso una violenta campagna ad opera di forze jihadiste.
Biden, la Turchia e il genocidio degli armeni
Sabato scorso il presidente americano Joe Biden ha definito “genocidio” quello subito dagli armeni all’inizio del secolo scorso. Come riporta il New York Times, il giorno precedente alla dichiarazione Biden ha telefonato al suo omologo turco Erdogan per avvisarlo dell’imminente dichiarazione. Secondo il quotidiano americano, il fatto che siano serviti tre mesi per avere un contatto diretto tra Erdogan e Biden è un segnale della volontà americana di gestire la relazione con Ankara a un livello più basso dell’amministrazione. La cosa pare reciproca: la risposta turca è stata netta, ma affidata al ministero degli Esteri e non direttamente a Erdogan. Oltre a convocare l’ambasciatore americano Mevlüt Çavusoglu ha twittato che la Turchia «respinge completamente la dichiarazione statunitense, basata solo sul populismo»: «le parole non possono cambiare o riscrivere la storia. Non accettiamo lezioni da nessuno sulla nostra storia».
Le reazioni alla dichiarazione di Biden sono diversificate. Il primo ministro armeno Nichol Pashinyan ha ricevuto la notizia con «grande entusiasmo» (Reuters). Sahak Mashalian, patriarca della comunità armena che vive in Turchia, è parso contrariato dalla dichiarazione di Biden: Erdogan è stato «l’unico alto funzionario di Stato della storia della Repubblica turca [a condividere] il nostro dolore e un certo rispetto per i bambini della nostra nazione che hanno perso la vita in esilio», si legge tramite l’agenzia turca Anadolu. Un articolo pubblicato da Le Monde è utile perché, oltre a ricordare che la comunità degli storici ha ormai provato che il genocidio degli armeni è stato pianificato dai vertici dell’Impero Ottomano (e questo contraddirebbe la storia fondativa della Repubblica turca), mostra che la negazione del genocidio non è affatto appannaggio esclusivo degli islamisti. Al contrario è una questione che riguarda profondamente lo Stato turco. Infatti tutti i partiti, fatto salvo l’HDP, che non a caso è un partito curdo, hanno criticato la dichiarazione di Biden. Secondo il kemalista Kemal Kiliçdaroglu l’utilizzo del termine genocidio è «ingiusto, ingiustificato e ingiustificabile».
Ma perché Biden ha preso questa decisione? È vero che la sua politica estera ha rilanciato il tema del rispetto dei diritti umani, ma, come spiega molto chiaramente Soner Cagaptay, ci sono altri fattori in gioco: oggi la Turchia ha bisogno degli Stati Uniti più di quanto sia vero il contrario, soprattutto per risollevare l’economia di Ankara. E su questa necessità Biden cerca di fare leva per portare la politica turca su binari più consoni a un membro della NATO. Un’opinione differente è quella di Ryo Nakamura e Momoko Kidera (Nikkei), secondo i quali la dichiarazione sul genocidio spingerà Ankara verso Mosca e Pechino.
Zarif e il sistema di potere duale in Iran
Una registrazione contenente una conversazione di circa tre ore del ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif, che sarebbe dovuta rimanere segreta, è emersa in settimana. Nell’audio Zarif critica il ruolo preponderante dei Guardiani della Rivoluzione, accusati di compiere azioni, sia in ambito di politica estera che interna, in aperto contrasto con le politiche governative. Ad esempio il generale Qassem Soleimani avrebbe lavorato attivamente insieme alla Russia per far fallire il tentativo del governo iraniano di raggiungere un accorto sul nucleare negli anni precedenti al 2015. Il rischio secondo Sina Azodi è che questa fuga di notizie indebolisca i negoziatori iraniani riuniti a Vienna, facendo emergere un Paese in cui la politica estera è appannaggio dei Guardiani della Rivoluzione.
Il fatto che Zarif lamenti la mancanza di potere effettivo di cui soffre il governo non è di per sé una novità, essendo insita nella natura del sistema istituzionale iraniano. È però bene sottolineare che in questa denuncia il dito di Zarif non è puntato contro la Guida Suprema, bensì contro i militari. Come a dire che il rischio che l’Iran si trasformi in una dittatura militare è sempre più elevato…anche perché un po’ lo è già, sembra dire il ministro degli Esteri.
In breve
L’esercito turco ha lanciato una nuova offensiva contro il PKK nel Kurdistan iracheno (Al-Monitor).
L’Arabia Saudita ha decretato il divieto di importazione di beni agricoli dal Libano a seguito dell’intercettazione di un carico di droga nascosto in un container di beni agricoli (Reuters). Secondo Al-Jazeera la mossa darà un altro duro colpo ai contadini libanesi, già duramente provati dalla crisi economica del Paese.
Almeno 45 persone sono morte in una calca verificatasi ad un raduno religioso sul Monte Meron in Israele (JPost).
La Banca Centrale turca ha ulteriormente alzato le stime sull’inflazione portandole al 12,2% (Al-Jazeera).
La difficile lotta contro l’uso della plastica in Senegal (Le Monde).
Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
Arabia Saudita: la Visione di MBS compie 5 anni
Cinque anni dopo il lancio della Visione2030, il piano di sviluppo socio-economico pensato per diversificare l’economia del Regno, Mohammad bin Salman ha fatto il punto della situazione in un’intervista rilasciata alla TV Rotana, di proprietà del principe saudita Walīd bin Talāl (nel 2018 vittima delle purghe di MBS). MBS ha smentito l’ipotesi di imporre una tassa sul reddito e ha confermato che l’introduzione dell’IVA al 15% per 5 anni è stata una decisione necessaria per far fronte alle difficoltà economiche causate dalla pandemia e dal crollo del prezzo del petrolio, ma potrebbe non essere riconfermata al termine dell’emergenza. Secondo il principe infatti il mondo non rinuncerà al petrolio come fonte di energia e la domanda tornerà ad aumentare. Nei prossimi due anni l’Arabia Saudita cederà a investitori stranieri una quota pari all’1% dell’Aramco, la compagnia petrolifera nazionale saudita, mentre nei 5 anni a venire il Fondo sovrano per gli investimenti pubblici (noto in occidente con l’acronimo PIF) è destinato a crescere del 200% e contribuirà alla diversificazione dell’economia. La Visione punta a sviluppare le politiche abitative con l’obbiettivo di far crescere la percentuale dei sauditi che possiedono la casa (dal 47% al 60%), diminuire il tasso di disoccupazione (dall’attuale 11% al 7-4%) e avere 3 università saudite tra le prime 200 al mondo. Intanto le politiche green avrebbero già permesso di aumentare del 40% le zone verdi del Paese.
Sul piano della politica estera, MBS ha dichiarato di condividere il 90% delle decisioni di Washington, ha auspicato il miglioramento delle relazioni tra Riyadh e Teheran contrariamente a quanto aveva dichiarato nell’intervista televisiva rilasciata nel 2017, e sulla questione yemenita si è detto speranzoso che gli houthi, oggi legati al regime iraniano, possano tornare a far prevalere la loro identità araba e mettere al centro gli interessi dello Yemen.
Infine, MBS ha affrontato alcuni aspetti del rapporto tra legislazione statale e legge islamica (a cui la stampa araba ha dato scarso risalto) ribadendo che la Costituzione del Regno è il Corano e che il sistema della giustizia saudita prevede «una punizione solo in presenza di un testo coranico chiaro o di un hadīth mutawātir», ovvero un detto del Profeta trasmesso da una serie ininterrotta e numericamente significativa di trasmettitori. Interrogato sulla sua visione di Islam moderato, un tema piuttosto ricorrente nei suoi discorsi da quanto è stato nominato principe ereditario nel 2017, MBS ha spiegato come questo progetto preveda la neutralizzazione di chi promuove una visione estremista dell’Islam.
Queste affermazioni sono valse al principe le lodi del Consiglio degli ulema sauditi, che hanno prontamente rilasciato una dichiarazione, diffusa da tutti i maggiori organi di stampa nazionali (al-Riyadh, Okaz, al-Madīna), in cui ribadivano il ruolo del Corano quale fondamento della Costituzione saudita e convalidavano la tesi dell’Islam moderato citando il versetto coranico 2,143 e il detto del Profeta che recita: «O gente, badate bene a non esagerare nella religione, in verità ciò che ha distrutto chi è venuto prima di voi è l’esagerazione nella religione».
L’Algeria gioca con il fuoco
Crescono le tensioni in Algeria tra il Governo e il Movimento per l’Autodeterminazione della Cabilia (MAK). Domenica scorsa il ministero della Difesa ha annunciato lo smantellamento di una «cellula criminale di attivisti separatisti», accusati di pianificare degli attentati contro i manifestanti dello Hirak. Ferhat Mehenni, leader del MAK, ha respinto le accuse sfidando il Governo a produrre delle prove fondate.
L’Algeria gioca con il fuoco, titola il quotidiano liberale al-Arabī al-Jadīd. Per la prima volta nella storia politica algerina il termine “secessione” è entrato nel lessico delle istituzioni statali ed è stato usato dalla presidenza e dai vertici militari per descrivere il MAK. Secondo il giornalista algerino ‘Uthman Lahyani, due sono gli aspetti che rendono possibili questo genere di rivendicazioni. Da un lato la tendenza delle istituzioni internazionali a esasperare la questione delle minoranze nel mondo al fine di «costruire delle nuove mappe», dall’altro l’assenza di democrazia e libertà in Algeria. Anni di oppressione, corruzione e brogli elettorali avrebbero trasformato l’Algeria da ricco Paese petrolifero a una realtà in cui i cittadini lottano per i beni di prima necessità.
Diversi quotidiani segnalano il rapido deterioramento della situazione economica algerina, che mette a rischio la tenuta del sistema sociale. Secondo al-Quds al-Arabī, quotidiano panarabo con sede a Londra, il tasso di disoccupazione è in crescita (14% - si stima che dall’inizio della pandemia siano stati persi almeno 500.000 posti di lavoro), i generi alimentari di prima necessità scarseggiano, il costo della vita è aumentato eccessivamente e gli scioperi sono sempre più frequenti. Come spiega Le Jour d’Algérie, questa settimana è stato il turno degli insegnanti, che hanno scioperato in tutto il Paese e organizzato sit-in davanti agli uffici scolastici regionali chiedendo l’aumento delle retribuzioni e la riforma della scuola.
Una nuova Primavera araba?
Rimanendo in tema di proteste, l’ex ministro degli Esteri dell’Oman Yūsuf bin ‘Alawī, in carica dal 1997 al 2020, ha prospettato, in un’intervista diffusa venerdì 23 aprile sulla televisione di stato omanita, una nuova Primavera araba nei Paesi del Golfo. Questa dichiarazione ha diviso i politologi arabi, che hanno proseguito il dibattito sui social. C’è chi ha colto nelle dichiarazioni di ‘Alawī un riferimento alla Giordania, dove tre settimane fa c’è stato un poco chiaro tentativo di colpo di Stato, e al Kuwait che, dall’autunno 2020, sta attraversando una grave crisi economica e politica.
Effettivamente, il fermento in Giordania continua. Come riporta Arabī21, nel decimo anniversario dello scoppio della Primavera araba, 238 personalità giordane hanno lanciato il “Movimento popolare per il cambiamento”, che chiede un governo democratico, la sovranità del popolo, la separazione dei poteri, l’indipendenza della magistratura, la riforma fiscale e una ristrutturazione profonda dell’economia del Paese.
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